Il primo febbraio 1945, anche per Tarcento è una data da ricordare: infatti vennero giustiziati ben 8 partigiani, condannati a morte dal Tribunale Speciale per la Sicurezza Pubblica, di cui uno, però, sopravvisse. Bisogna infatti ricordare che il Friuli faceva parte, dopo l’8 settembre, della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland, acronimo OZAK) governata dal Supremo Commissario Friedrich Rainer.

«Laureato in giurisprudenza, Rainer entrò a far parte del Partito nazista (NSDAP) nel 1930. Nel 1938 fu nominato Gauleiter a Salisburgo, dal 1941 assunse la carica di governatore della Carinzia a cui si aggiunse anche l’Oberkrain, corrispondente alla Slovenia settentrionale, appena inglobato dopo l’invasione tedesca del Regno di Jugoslavia […]. Dal 10 settembre 1943 fu nominato commissario supremo del Litorale adriatico annesso di fatto alla Germania nazista. Alla fine dell’aprile 1945 tentò di organizzare un’ultima disperata resistenza delle forze naziste in Carinzia. Preso prigioniero dagli statunitensi e consegnato agli jugoslavi, fu processato per crimini di guerra a Lubiana ed impiccato il 19 luglio 1947, secondo quanto comunicato al tempo dalle autorità jugoslave». (Friedrich Rainer – Wikipedia). Pertanto il Tribunale Speciale per la Sicurezza Pubblica, ricalcava quello in auge prima del 25 luglio 1943 e cioè il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato creato dal fascismo, che giudicava velocemente e senza reale difesa, potendo comminare pure la pena di morte.

Secondo il volumetto di Luigi Raimondi Cominesi intitolato: “Sedici partigiani condannati a morte. Gemona, 31 gennaio 1945; Tarcento, 1° febbraio 1945; Tricesimo, 4 febbraio 1945, Anpi Gemona- Tarcento – Tricesimo ed., 2005, seconda ed. 2018, detto tribunale aveva sede in via Treppo ad Udine. (Ivi, p.11). Inoltre i membri della corte erano tedeschi e parlavano tedesco anche negli interrogatori, e le domande che poneva il pubblico ministero e le risposte date dagli imputati venivano tradotte da un interprete che poteva però non essere bravissimo.

Ma facciamo un passo indietro. Luigi Raimondi Cominesi scrive, nel suo volumetto sopraccitato, di 16 partigiani condotti a processo, insieme, il 30 gennaio 1945, provenienti dalle carceri di Udine. Essi risultano essere, nell’ordine in cui sono menzionati nel manifesto che riporta la sentenza di morte:

1 – Li Pomi Angelo (Ivi, p.20) di Cerda (Palermo),  nato nel 1914;

2 – Putto Giannino di Azzano Decimo (Ud ora Pn), nato nel 1924;

3 – Zaffuto Carlo Pietro di Grotte (Agrigento), residente a S. Quintino (Ud), nato nel 1918;

4 – Longo Cesare di Torto (?), nato nel 1923;

5- Aleo Francesco di Barrafranca (Enna) nato nel 1914;

6 – Bortoluzzi Giovanni da Zoppola (Ud ora Pn) nato il 23 giugno 1925 (Luigi Raimondi Cominesi, p. 27);

7 – Carlon Adriano (e non Adriano Carlo) di Este (Padova) non di Roma, (Ivi, p. 17) nato nel 1920;

8- Frittaion Bruno di San Daniele, nato nel 1925. Si sa che era comunista. Ha lasciato due struggenti lettere prima di morire, pubblicate sempre da Luigi Raimondi Cominesi, op. cit.,  alle pp. 19-20.

9 – Bugatt Pietro di Meduno (Ud ora Pn), nato nel 1900;

10 – Graffiti Gino di Meduno (Ud ora Pn), nato nel 1918;

11- Marcuz Elio di Azzano Decimo (Ud ora Pn) nato nel 1923;

12- Lena Silvio di Pramaggiore (Ve), risiedeva a Chions, era nato nel 1913, ed era operaio. (Luigi Raimondi Cominesi, p. 15).  

13 – Favot Secondo di San Lorenzo di Pordenone, nato nel 1923;

14 – Lovisa Ivo di Azzano Decimo (Ud ora Pn), nato nel 1924;

15 – Zilli Angelo di Udine, nato nel 1925;

16 – Lardini Renato di Udine nato nel 1926.

Nel manifesto pubblicato a p. 2 del libretto di Raimondi Cominesi, vi sono degli errori relativamente ai condannati, poi corretti dallo stesso. Ma poi si legge, sempre sulla stessa fonte, che fra i condannati ve ne erano senza documenti come tutti se erano partigiani, ed è possibile che alcuni dati siano stati riportati come detti a voce e non ben compresi. Ma se erano senza documenti non potevano lavorare nella Todt, o risultavano nell’ elenco dei lavoratori presso qualche fabbrica o impresa del luogo ma non erano presenti. 

Parte (il problema è del sito che taglia le foto e attendo che Elisabetta lo risolva) del Manifesto che comunica alle popolazioni la condanna a morte dei 16 partigiani a cui è dedicato questo articolo. (Da: Luigi Raimondi Cominesi,  “Sedici partigiani condannati a morte. Gemona, 31 gennaio 1945; Tarcento, 1° febbraio 1945; Tricesimo, 4 febbraio 1945, Anpi Gemona- Tarcento – Tricesimo ed., 2005, seconda ed. 2018, p. 2).

Come molti partigiani avevano tutti un nome di battaglia o copertura che dir si voglia, erano giovani, tranne un paio, alcuni erano giovanissimi, e appartenvano alle classi 1924- 1925- 1926 soggette alla leva obbligatoria, ma in alternativa potevano lavorare per la Todt. Ma questi a me paiono partigiani a tutti gli effetti, e ritornerò su questo punto che Luigi Raimondi Cominesi non chiarisce del tutto. Presumibilmente vennero catturati in luoghi diversi, quindi condotti alle carceri famigerate allora di via Spalato ad Udine, e sottoposti a processo insieme, il 30 gennaio 1945, con l’accusa di aver assassinato il 30 dicembre 1944 il Consigliere Tecnico della O.T. (Organizzazione Todt) Kufrasz o Kufratz nei pressi di Flaibano; di aver depredato e brutalmente assassinato il 13 gennaio 1945 due soldati germanici, un soldato italiano e tre cosacchi già feriti nei pressi di Pers, di aver compiuto “altri vili attentati dei fuori legge”.  (Manifesto di sentenza di morte in Luigi Raimondi Cominesi, p. 2, e p.11).

La prima cosa che notiamo è che uno dei capi di accusa è l’uccisione di un dirigente della Todt, organizzazione tedesca di sostegno allo sforzo bellico nazista, creata da Fritz Todt, Reichsminister für Rüstung- und Kriegsproduktion (Ministro degli Armamenti e degli Approvvigionamenti), che operò in stretta sinergia con gli alti comandi militari durante tutta la seconda guerra mondiale, arrivando ad impiegare oltre  1.500.000 persone fra uomini e ragazzi italiani nel lavoro coatto per il Reich. (https://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Todt).  Presumibilmente il  Kufrasz o Kufratz era uno dei rappresentanti dei nazisti che controllavano il lavoro, e quindi, magari, partigiani, momentaneamente rientrati dai monti e dalle piane, lavorando per la stessa organizzazione e nello stesso luogo, avrebbero potuto aver eseguito quell’ uccisione, come avrebbero potuto averla eseguita gappisti o sappisti o partigiani regolarmente inquadrati avvisati di come si comportasse detto tecnico. 

Inoltre si sa di imprese locali che lavoravano, come tutte in Ozak, per i tedeschi occupanti, sotto la Todt, che nei loro libri contabili che elencavano i lavoratori  segnavano pure nomi di partigiani datisi alla macchia. Accadeva così, per esempio e che io sappia alla Miniera di Cludinico, non si sa se consenziente il direttore Rinaldo Cioni o se a sua insaputa, mentre invece nella Solari di Prato Carnico, si costruivano armi da usare contro i tedeschi. Ma questoavrebbe potuto succedere solo nel periodo della Zona Libera.

E in quel momento o questi 16 o parte di essi risultavano o impiegati per la Todt solo sulla carta ed erano partigiani a tutti gli effetti, o lavoravano in quel momento per la Todt e furono gli autori dell’uccisione del tecnico tedesco vedendo come si comportava, o erano stati catturati da partigiani e  portati nelle carceri di Udine, e poi prelevati e condannati per rappresaglia. Altrimenti non si capisce come queste persone fossero state, nell’ inverno 1944- 45, accusate di questi gravi crimini per il Reich, e mandate a morte. Infatti Mario Candotti nel suo: “La lotta partigiana in Carnia nell’inverno 1944-1945, in Storia Contemporanea in Friuli, rivista dell’I.F.S.M.L., n.11″, alla nota 52 delle pp. 41-42, cita la testimonianza di Carlo Bellina ‘Augusto’, comandante di Brigata, che narra come una serie di partigiani del btg. Gramsci, fossero andati a lavorare per la Todt a Tarvisio, ed altri in zona Trasaghis. Tra questi vi era Attilio Puntel, ‘Canin’ che fu catturato dai cosacchi e torturato presso la prigione di Paluzza, ove operava il terribile cosacco ‘Sultan’ ma poi fu inviato a lavorare in forma coatta per i tedeschi. (“Testimonianza dei compagni ‘Canin’ Attilio Puntel e ‘Gioia’, Flavio Puntel, datata Cleulis 1° marzo 1979, in: ‘Fondo Testimonianze’, busta 1 fascicolo 7. Divisione Garibaldi, Carnia, Archivio Ifsml Udine).

Pertanto alcuni, che erano stati partigiani e successivamente lavorarono per la Todt, non finirono davanti al Tribunale Speciale. Ma si deve dire che non sappiamo, e lo ribadisco, se i 16 accusati furono i reali autori dei delitti a loro ascritti o se furono presi a caso fra i prigionieri, come accadde per i trucidati alle fosse Ardeatine, innocenti, o ai 23 giustiziati ad Udine l’11 febbraio 1945.

Il muro crivellato di colpi ancora visibile a Tricesimo. (Da: Luigi Raimondi Cominesi, op. cit., p. 24).

I 16 condannati furono divisi in tre gruppi e portati in tre diverse giornate a morte in tre diversi paesi: a Gemona, dove la sentenza venne eseguita il 31 gennaio 1945; a Tarcento dove fu eseguita il 1° febbraio 1945; a Tricesimo dove fu eseguita il 4 febbraio 1945. Perché in queste tre località? Luigi Raimondi Cominesi dice per terrorizzare la popolazione di tre paesi lungo la nazionale che portava da Udine a Stazione Carnia e quindi a Tarvisio, direttrice importantissima per le truppe tedesche (Luigi Raimondi Cominesi, p. 7-8), e quindi ocme ammonimento, ma ci potrebbero esser state altre motivazioni. Non è neppure chiaro chi formava i plotoni di esecuzione, ma pare che questi fossero comandati da un sottoufficiale tedesco e formati anche da collaborazionisti ed SS italiane. Infatti sempre lo stesso autore ha raccolto delle testimonianze tardive nel merito, che sottolineano la presenza di militi italiani collaborazionisti o inseriti nelle formazioni militari del Reich.

In particolare Bruna Sibille Lizia di Tarcento narrava che al suo paese erano state giustiziate 8 persone in un campo, appoggiate al muro esterno del cimitero, il 1° febbraio 1945. E subito dopo l’esecuzione, secondo lei, erano entrati nel cimitero anche quattro ufficialetti repubblichini in divisa da alpino per parlare con il becchino. E pare, sempre dalla stessa fonte, che uno di loro conoscesse una delle vittime, il Frittaion. (Ivi,p. 19).

Per quanto riguarda gli uccisi a Tricesimo, un testimone parla di militi (Ivi, p.23), che schernirono pure uno dei messi al muro che ancora si muoveva ed implorava, ed era Giovanni Bortoluzzi. E fra questi militi ve ne era uno ‘giovanetto’, che aveva «la consegna di impedire che qualcuno si avvicinasse ai morti». (Ivi, p. 23).

Ma anche Spartaco Chiurlo, Vice Presidente dell’ Anpi di Tricesimo, capostazione nel suo paese, ha narrato di aver visto, quel 4 febbraio 1945, mentre si recava la lavoro, «Davanti a piazza Boschetti alle 6.50 […] una motocarrozzetta che proveniva da via del Cimitero e che andava verso Udine, con a bordo un sottoufficiale tedesco … per la strada non c’era neanche un cane. Ho proseguito il mio cammino e davanti l’entrata del Cimitero, ho visto un camion ‘626’ un FIAT o un OM, non ricordo, (era un FIAT nda.) col muso rivolto verso Tarcento e in piedi sul cassone c’erano dei militi fascisti che sorvegliavano qualcuno che era dentro, ma non ho potuto vedere chi fosse a causa della posizione del camion e dei militi che coprivano ogni vista.
Alle otto e un quarto, circa, alla Stazione un ferroviere mi ha detto che avevano fucilato dei partigiani dietro il Muro del cimitero … […]. … Smontato dal primo turno, dopo le tredici, il becchino mi ha detto che li hanno messi tutti in una fossa, non avevano documenti … ho visto nel muro i buchi delle pallottole». (Ivi, p. 25).

Infine Antonio Casarsa, che all’epoca dei fatti aveva 15 anni, ed aiutava la moglie del panettiere che era stato deportato, ha narrato a Spartaco Chiurlo che la domenica del 4 febbraio 1945 alle ore 7.30 -8.00 circa, era stato fermato «sul ciglio della strada, che da Tricesimo porta a Fraelacco, ad est, in principio della muraglia del cimitero di Tricesimo, da un repubblichino. Indossava una divisa nera, mimetizzata con macchie gialle, e un berretto munito di visiera, sul quale c’era lo stemma con il teschio. Sulle mostrine, invece, spiccava il fascio littorio». (Ivi, p. 27).  Dalla divisa avrebbe potuto essere un appartenente alle SS italiane. Infatti erano le SS italiane che avevano il berretto ocn il teschio, come tutti quelli delle SS anche germaniche, e il fascio littorio sul braccio. Quindi l’uomo ha così continuato a raccontare: «volgendomi verso nord, notai degli uomini in borghese allineati al muro e dei repubblichini di fronte a loro, alcuni in ginocchio ed altri in piedi, che formavano il plotone di esecuzione (erano armati di moschetti e mitra). Solo allora mi resi conto di quello che stava succedendo».  (Ibidem).

Pure ad Ospedaletto di Gemona le esecuzioni del 31 gennaio 1945 iniziarono alle sette del mattino e, secondo una testimonianza, i due partigiani uccisi vennero strangolati con una corda da due miliziani, che, qualche ora dopo, si portarono tranquillamente all’ osteria ‘Da Cisotto’ che stava di fronte alla caserma della Milizia. E «il gruppo cantava, beveva, rideva vantandosi di aver ucciso, anche quel giorno, due ribelli» (ivi, p. 13).
Questo per dire che spesso gli italiani che appoggiavano i tedeschi o erano inseriti nelle loro file, erano coloro che ‘facevano il lavoro sporco’ per dirla con Nuto Revelli. Ed ho riportato queste righe perché anche in Ozak, e quindi pure in Friuli, operavano SS italiane, fascisti e collaborazionisti a diverso titolo, a cui i tedeschi potevano affidare attività antipartigiane, stragi o attività anti- italiane.

Lapide a Tarcento dedicata ai 7 partigiani uccisi il 1° febrraio 1945. (Da: Luigi Raimondi Cominesi, op. cit., p. 16).

A Tarcento una lapide, collocata all’esterno del muro di cinta del cimitero, presumibilmente dove caddero i partigiani uccisi, ricorda i caduti quel 1° febbraio, ma sono solo 7, perché uno si salvò. La lapide con la grande scritta ‘ITALIA’ posta di lato, ricorda Carlon Adriano ‘Riccardo’; Frittaion Bruno ‘Attilio’; Li Pomi Angelo ‘Mameli’; Longo Cesare ‘Giorgio’ , Marcuz Elio ‘Trim’, Putto Giannino ‘Pronto’ e Zaffuto Callogero (o Calogero n.d.r.) ‘Angelo’. Così vengono qui ricordati: «Artefici e martiri gloriosi della resistenza/ per malvagia rappresaglia dell’invasore/ qui fucilati il 1° febbraio 1945. Co loro sublime sacrificio/queste zolle resero sacre ai riti della libertà/nel decennale il comune di Tarcento».

Chi fortunosamente si salvò perché, pur raggiunto dalle pallottole, riuscì a scappare, fu Aleo Francesco, siciliano di Barrafranca (Enna). Colpito dal plotone di esecuzione, ma con il colpo di grazia infilato in una mano, visto il plotone che se ne andava, si trascinò un po’ in piedi un po’ cadendo, pieno zeppo di sangue e, camminando scalzo sulla neve, raggiunse il fiume che attraversò come poté e quindi fu accolto da alcune donne mentre altre che lo avevano visto prima gli dicevano: “Tu non te la cavi”, con una certa cattiveria, se è vero. Quindi fu curato dal dott. Cossio, che molte volte rischiò la vita per soccorrere partigiani feriti. Quindi venne portato di nascosto alla casa per anziani di Tarcento, e, successivamente, vennero a prenderlo due giovani partigiani che gli dissero di farsi passare per un boscaiolo che si era fatto male lavorando e fu poi ricoverato all’Ospedale civile di Udine.

Vorrei solo fare presente che, ai tempi della Resistenza, a fronte di situazioni di terrore ed orrore, vi furono anche persone che aiutarono gli altri a rischio della loro vita, con abnegazione e coraggio che ora non si ritroverebbero.

A Gemona, in via Caduti per la Libertà, un’altra lapide ricorda i partigiani caduti il 18 dicembre 1944 che sono: Caputo Salvatore; Del Mestre Aldo; Maraldo Sereno; Morossi Giovanni; Marangon Natale e Seidita Angelo, ed i due strangolati il 31 gennaio 1945: Grafitti Gino e Lena Silvio. ‘Trucidati perché – ricorda la lapide- volevano L’ Italia Libera.

Infine vi è l’epigrafe posta a ricordo dei giustiziati a Tricesimo, che così recita: «Il 4 febbraio 1945, qui caddero assassinati dai nazifascisti sei giovani amanti della Patria e della Libertà. Ricordando le vittime dell’efferato eccidio e tutti i propri caduti nella resistenza, Tricesimo reverente pone. 28 aprile 1985».

Chi venne giustiziato a Tricesimo il 4 febbraio? Giovanni Pietro Bortoluzzi o Bortolussi ‘Bandiera’ o ‘Vanni’; Bugat (erroneamente Bugatt sul manifesto di informazione sulla condanna a morte dei 16 partigiani) Pietro, ‘Barba’ boscaiolo, il più anziano dei condannati a morte, della Brg. Tagliamento della Divisione Garibaldi Sud Arzino; Favot Mario Secondo ‘Tom’, celibe, commissario di compagnia della Divisione Garibaldi Destra Tagliamento, Lardini Renato ‘Duna’ di Udine, giovanissimo, forse prima nella ‘Natisone’; Lovisa Ivo ‘Prin’ del btg. Fosco, Brg. Anthos, divisione Garibaldi destra Tagliamento; Zilli Angelo ‘Ledra’ di Udine, diciannovenne quando morì, che era della Divisione Natisone. (Ivi, p. 28).

Due precisazioni su quanto scritto da Luigi Raimondi Cominesi: non poteva esistere, nel dicembre/gennaio 1945 una divisione dedicata a Mario Modotti, ‘Tribuno’ perché egli venne fucilato alle carceri di Udine il 9 aprile 1945, ed i partigiani non davano il nome di viventi ai loro battaglioni; la ‘Natisone passò nella zona libera slovena nel Natale 1944. Quindi se alcuni partigiani vengono definiti come appartenenti alla stessa qui, probabilmente essi l’avevano abbandonata dopo la fine della Zona Libera del Friuli Orientale o dopo il Proclama Alexander, ed erano ritornati a casa, o si erano uniti a un gruppo gap.

Bisogna ricordare, inoltre, che alcuni partigiani, come per esempio Paolo De Caneva fratello del più famoso Tranquillo, Beorchia Gino e e Adami Gino, tutti garibaldini della Garibaldi Carnia, dopo il proclama Alexander ritornarono per qualche giorno a casa nel comune di Lauco ma, a causa di qualche spia, furono catturati e internati a Mauthaüsen. E non miglior sorte toccò a Luciano Pradolin, ‘Goffredo’ della Osoppo, nella vita ufficiale effettivo del regio esercito prima del suo scioglimento dopo l’8 settembre 1943, rientrato a casa e catturato grazie ad un tranello tesogli perchè una spia che aveva riferito al nemico dove si trovava. Ed anche questo poteva succedere. Pradolin fu fucilato sul muro esterno del cimitero di Udine con altri 22 partigiani l’11 febbraio 1945 per ritorsione, tutti condannati dal Tribunale Speciale per la Sicurezza Pubblica. Ed anche in questo caso molti dei caduti erano originari della destra Tagliamento. Infine, pure in questo caso, il plotone d’esecuzione era formato da italiani collaborazionisti, a conferma di quanto ho scritto sopra. Ed infatti ben cinque di loro della MDT (Milizia di Difesa Territoriale) 5° Reggimento, vennero accusati, dopo la guerra, di avere fatto parte dello stesso.  ( CIMITERO, UDINE, 11.02.1945.pdf scheda a cui si rimanda). Per inciso le vittime vennero prelevate dal carcere di Udine, in quanto detta esecuzione ‘di massa’ era la risposta nazifascista all’assalto alle carceri del 7 febbraio 1945, organizzato da Valerio Stella “Ferruccio” e Alfio Tambosso “Ultra”, e realizzato dagli uomini guidati da ‘Romano Mancino’ (Gelindo Citossi di San Giorgio di Nogaro garibaldino).

In quel terribile inverno 1944- 1945, con la neve, il freddo e la fame che non davano tregua, lasciati soli dagli alleati anche loro in momentanea difficoltà, molti furono i partigiani caduti e catturati in tutto il Friuli. E fu un periodo di grandi rastrellamenti, di nazifascisti che, presumibilmente, dato che sapevano che la guerra era perduta, si misero a spazzare con ferocia il territorio, anche per aprirsi vie di fuga o per l’ultima vendetta. E di questi rastrellamenti parla pure il capitano Francesco De Gregori nel suo diario, come anche dei soldati tedeschi che scendevano, con gli sci ai piedi, armati e vestiti di bianco per mimetizzarsi, dai monti che quasi non si vedevano e che sparavano ed ancora sparavano ….

A tutti questi partigiani e qui in particolare a quelli ricordati in questo articolo,  Francesco De Gregori compreso, vada la nostra riconoscenza per averci liberati dagli occupanti nazisti ed averci fatto ritrovare il tricolore e la libertà.

Laura Matelda Puppini

 

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