Cattolici nella guerra di Liberazione.
Questo mio contributo è di carattere didattico-divulgativo, e non ha pretese di essere uno studio esaustivo su di un argomento che ha già riempito pagine e pagine di scritti, forse più attenti alle posizioni politiche dei vertici della chiesa e dei neonati partiti che al ruolo dei cattolici nella Resistenza.
Premessa.
L’Arcivescovo di Udine Mons. Andrea Bruno Mazzocato ha parlato della Pasqua come del nuovo passaggio dalla schiavitù della morte alla libertà. Pur non avendo legami con la Pasqua cristiana, molti cristiani e non cristiani in Europa vissero la resistenza come una guerra di Liberazione dal male, dalla schiavitù in cui erano caduti, dal nazismo e dal fascismo con i loro orrori, e così fu.
I nazisti volevano che tutta l’Europa fosse al loro servizio, che uomini e donne fossero sottomessi ad un lavoro da schiavi per la grande Germania, e fecero morire di stenti e patimenti, dopo averli di tutto depredati, milioni di ebrei, ma anche handicappati, zingari, avversari politici, partigiani, (cioè persone che si organizzarono per combattere contro i nazisti) facendo persino sui bimbi esperimenti medici. Nella loro visione del mondo non c’era attenzione per l’altro, per il povero, né dignità per la persona, ed il fascismo, che governava in Italia si alleò con i nazisti.
Sotto il fascismo non vi era libertà perché tutti dovevano pensare come il Duce, Benito Mussolini, tutti dovevano dire bene del Duce, e Ciro Nigris, che visse allora, disse che nessuno più parlava, e tutti tacevano.
La guerra di Liberazione fu quindi guerra contro il nazifascismo e per la libertà delle persone, per la libertà di espressione e per un governo dell’Italia basato sulla democrazia, cioè che tenesse conto delle esigenze della gente, tutelasse tutti e promuovesse il lavoro e il libero pensiero, e che non avesse più una monarchia ma un sistema di governo repubblicano.
Ci furono tanti uomini ma anche donne carnici che parteciparono a questa guerra di Libertà ed anche tanti cattolici vi presero parte.
Quando la guerra di Liberazione prese piede in Italia …
Quando la guerra di Liberazione prese piede in Italia e qui, in Carnia e in Friuli, quasi tutti avevano ricevuto una educazione cattolica, ed erano stati bambini spediti in chiesa dalle madri, nonne, zie a tutte le funzioni previste, come ci narra anche Romano Marchetti nelle sue memorie. E guai chi fosse giunto in ritardo alla Messa domenicale: le occhiatacce materne erano il preludio di una successiva sgridata a casa e magari di un paio di ceffoni.
Pertanto non si può assolutamente dire che i partigiani garibaldini fossero tutti comunisti, e tutti coloro che parteciparono alla guerra di Liberazione sognavano, allora, per sé e per gli altri, – come ci ricorda Bruno Cacitti osovano – condizioni di vita migliori di quelle vissute sotto il fascismo, sotto l’occupazione nazista e dettate dalla seconda guerra mondiale, terminata convenzionalmente il 25 aprile, ma che in Carnia finì, di fatto, il 6 maggio 1945.
Né si può affermare che tutti i cattolici andarono nella formazione Osoppo, nata dall’accordo fra due partiti, la Democrazia Cristiana sostenuta dalla Chiesa, ed il Partito di Azione, perché i giovani e giovanissimi che parteciparono al movimento antifascista ed antinazista non avevano avuto una vera e propria formazione politica, mentre quasi tutti avevano avuto, a scuola, un’educazione cattolica, e spesso si mossero insieme, per farsi coraggio, come ai tempi dell’emigrazione.
Così gli abitanti di Trava di Lauco si unirono tutti alla Garibaldi, prima formazione armata antinazista ed antifascista che trovarono in loco, mentre gli abitanti di Zuglio si unirono ad Albino Venier, ufficiale dell’esercito italiano e loro paesano, confluendo poi nella Osoppo; gli ampezzani furono tutti garibaldini come quelli di Formeaso, mentre quelli di Sutrio osovani.
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E non si possono confondere del tutto i democristiani con i cattolici. Inoltre, allora, la DC era appena stata creata e vi furono, fra le file partigiane, anche cattolici del defunto Partito Popolare fondato da don Luigi Sturzo nel gennaio 1919 e sciolto dal fascismo il 9 novembre 1926, che sposava la dottrina sociale della chiesa, che voleva l’aiuto ai poveri ed il sostegno alle classi meno abbienti, ed altri che rivendicavano libertà e giustizia, e la partecipazione diretta alla guerra di Liberazione.
E ci furono preti anche nella Garibaldi, per esempio don Luigi Piccini, tanto per ricordarne uno, che fu il sacerdote della Brigata Garibaldi/Carnia (Mario Candotti, S.C. IN F. N. 8, nota 46, p. 247).
È però vero che i comunisti (il partito comunista italiano venne fondato nel 1921), i socialisti, i marxisti e gli anarchici erano anticlericali, e quindi vennero scomunicati dalla chiesa e ritenuti “figli del diavolo”, ma alcuni credevano in un Dio e spesso furono brave persone, mentre alcuni cattolici non furono esempi di virtù.
Che il clero fosse anticomunista non deve stupire, anche se molti comunisti chiedevano di fatto, come i cattolici, maggiore giustizia sociale e migliore distribuzione delle ricchezze, in sintesi un mondo di pace e prosperità per tutti. Così diceva il veneziano comunista Angelo Cucito, nome di battaglia Tredici, a Romano Marchetti: «…Te vedi? Un monte de roba di tutti i zeneri e la zente che se la prende quando vòl…», questo era il suo sogno, un mondo ove insalubrità, miseria, fame fossero bandite, come lo desideravano tanti socialisti, anarchici, cristiani.
E se non si può negare che la futura società post fascista fu sognata ed interpretata in modo diverso dall’uno e dall’altro, soprattutto dai partiti politici, credo che tutti coloro che lottarono per la libertà dell’Italia sognarono “pane e lavoro”, non più emigrazione, e benessere per se stessi e per le famiglie.
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Una posizione antifascista fu presente, in alcuni sacerdoti, fin dagli albori della dittatura, e vide la sua ragione d’essere nella critica aperta di alcuni di loro all’operato delle squadracce di picchiatori e nell’avversione del fascismo verso l’Azione Cattolica e l’Associazione degli scout, osteggiate perché vissute come in opposizione alle strutture create dal PNF per i giovani, anche a livello valoriale. E il voler sostenere l’associazionismo giovanile cattolico, ma anche l’essere sostenitore del cooperativismo bianco, costarono la vita a don Giovanni Minzoni, del Partito Popolare, ucciso a sassate e bastonate per ordine di Italo Balbo. (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Minzoni, http://www.santiebeati.it/dettaglio/93536, http://www.anpi.it/donne-e-uomini/71/don-giovanni-minzoni).
Antifascismo come scelta di coscienza.
I motivi per cui cattolici scelsero di aderire alla Resistenza armata è ben descritto dalle parole di Mons. Andrea Ghetti, che sottolinea l’importanza del problema di scegliere secondo coscienza.
Così egli scrive:«In ogni momento della vita ognuno di noi è posto di fronte a delle scelte: quella, per esempio, di misurare fatti od avvenimenti sul metro dell’utile o della convenienza (non solo materiale) oppure di valutare la realtà che ci circonda sulla dimensione dei valori fondamentali dell’uomo, quei valori senza i quali il nostro esistere perde il suo senso. […]. Così fu per il fenomeno fascista che impose la scelta tra l’adesione per quello che poteva apparire conveniente e l’opposizione per il suo contenuto ideologico». (http://www.monsghetti-baden.it/baden/scritti_baden/oscar_resistenza/i cattolici nella resistenza.htm).
Naturalmente la scelta di aderire alla Resistenza contro i nazifascisti fu per tutti scelta di coscienza, e molti pagarono tale scelta con la tortura e la morte.
Ma inizialmente, davanti ad un regime che si imponeva con la violenza, in particolare dopo l’uccisione del deputato Giacomo Matteotti, ben pochi furono i cattolici che non si sentirono inquadrati nel fascismo, grazie anche al Concordato fra Stato e Chiesa. Solo persone abituate al senso critico, a seguire valori pagando di persona, propugnatori dei principi di libertà, di responsabilità e coerenza morale o sostenitori della non violenza e pieni di spirito di servizio si salvarono, in un primo tempo, da quel plagio universale che fu il fascismo, scrive Mons. Andrea Ghetti. (Ivi).
Ma poi la critica al regime con la sua Mistica fascista, in particolare dopo l’emanazione delle leggi razziali, il patto d’acciaio e l’entrata in guerra al fianco di Hitler, andò crescendo. Ma anche l’educazione dei ragazzi e dei giovani alla violenza fisica e verbale, all’imperialismo, nel segno di “Libro e Moschetto” era contraria ad ogni visione cristiana, come la presenza dell’OVRA, polizia politica pronta a incarcerare qualsiasi dissidente al pensiero del Duce e del partito, e il culto idolatrico di Mussolini, a cui era concesso di non sbagliare mai. (Ivi).
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Dopo l’8 settembre 1943 e la dissoluzione del R.E.I., nuova scelte si imponevano ai cattolici, in particolare quella di stare con la gente, con i perseguitati, e preti, suore, laici strutturarono soccorsi e forme di assistenza agli sbandati, accompagnarono in Svizzera ebrei, dettero ricovero ai ricercati, cibo agli affamati. (Ivi). E davanti alla repressione nazifascista delle forze della Resistenza, davanti alla fine dell’Esercito Italiano ed alla fuga del Re e di Badoglio, davanti all’invasione nazista ed alla leva coatta tedesca in O.Z.AK., (con l’emanazione di un primo bando il 29 novembre 1943, che decretava l’obbligo generale di servizio militare nella Wermacht, SS, formazioni RSI, Landschutz o come lavoratori nella Todt, di un secondo il 22 febbraio 1944 per le classi dal 1923 al 1926 di un’ altra ordinanza del Gaulaiter Rainer, datata 25 luglio 1944, che sanciva l’obbligo dell’arruolamento per tutte le classi dal 1914 al 1926), molti cattolici salirono in montagna, uniti agli altri partigiani da un desiderio di libertà, di giustizia, di un mondo nuovo e di una Italia Libera. E molti cattolici morirono nella resistenza, come don Giuseppe Morosini, che, condannato a morte dai fascisti, cadde sotto due colpi soli, perché 10 del plotone di esecuzione, formato da appartenenti alla Polizia dell’Africa Italiana (P.A.I.), spararono in aria, e fu finito con un colpo di pistola alla nuca da un ufficiale dello stesso corpo. (https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Morosini).
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Cenni all’opera del clero in Friuli
Spesso i sacerdoti, nei paesi, nel corso della Resistenza, si trovarono fra l’incudine ed il martello: fra tedeschi e collaborazionisti (legionari repubblichini, bande nere, marò della Decima al fianco dei tedeschi) e partigiani, e due di loro, in Carnia, persero la vita per mano dei cosacchi nel loro mandato: don Giuseppe Treppo ad Imponzo, il 9 ottobre 1944, per difendere della ragazze aggredite, e don Pietro Cortiula ad Ovaro il 2 maggio 1945, per aver voluto solo portare il conforto religioso ai moribondi ed essere di aiuto ai suoi parrocchiani. Ma il 2 maggio 1945 ad Ovaro fu ucciso anche un giovane chierico: Virgilio Pavona. (Giannino Angeli, Tarcisio Venuti, Pastor Kaputt, Chiandetti, 1980, pp. 184-194).
Mons. Giuseppe Nogara.
Dopo l’8 settembre 1943, con la fine del R. E. I., l’occupazione tedesca, la creazione dell’Ozak sotto diretto governo dei tedeschi e, poi, con l’arrivo dei cosacchi in Carnia, il vescovo mons. Giuseppe Nogara, nato nel 1872 e quindi già anziano, si dette da fare in molti modi, soprattutto svolgendo il ruolo di cerniera fra la popolazione ed i vertici del governo tedesco, ma anche permettendo la diretta partecipazione di sacerdoti alla Resistenza e concedendo l’appoggio logistico a diversi servizi come il CINPRO, sito sia al Tempio Ossario che alla chiesa della Madonna del Carmine, ove operava attivamente don Valentino Pravisano, nome di copertura Conte. (Luigi Raimondi Cominesi, La “carta della Gestapo”, pianta della città di Udine 1943-1945, in: Storia Contemporanea in Friuli, n.43, nota 2, p. 245). E ivi, da che si sa, furono attivi anche Alleati, ma le gerarchie ecclesiastiche allora vedevano con favore l’intervento americano in Italia. (Cfr. nel merito: Massimiliano Tenconi, I Cattolici nella Resistenza contro l’Anticristo nazifascista, in: xoomer.virgilio.it/parmanelweb/CATTOLICI.htm, tratto da: www.anpimagenta.it).
L’opera di Mons. Giuseppe Nogara, Arcivescovo di Udine dal 1928, si svolse quindi, in epoca resistenziale, su vari fronti e certamente fu connotata dalla funzione che egli aveva come figura pubblica, e ben sapendo egli che anche i nazisti non desideravano toccare rappresentanti della Chiesa cattolica, non solo perché una parte di loro era cattolica, ma perché si sarebbero ulteriormente inimicati la popolazione.
L’aiuto ai rimasti nei paesi e le opere di carità, di cui Mons. Giuseppe Nogara chiese rendiconto ai suoi sacerdoti alla fine del secondo conflitto mondiale, (Liliana Ferrari, Il clero friulano e le fonti per la sua storia, in: AA.VV., La Repubblica partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli, IL Mulino ed., 2013, pp. 232-233) caratterizzarono l’azione dell’arcivescovado di Udine nel corso della guerra di Liberazione.
Mons. Giuseppe Nogara, come ben ricorda Francesco Cargnelutti, (Francesco Cargnelutti, Preti Patrioti, seconda edizione 1966, prima ed. La Vigna 1947) rappresentando un’autorità religiosa, poteva più di altri esser ascoltato in particolare dai tedeschi, a cui spesso si rivolgeva. E si ha notizia, sempre dalla stessa fonte, che anche i vescovi dell’OZAK si erano riuniti a Trieste, nel marzo 1944, per levare alta la loro voce contro il disprezzo e le lesioni alla dignità delle persone, la violazione dei diritti umani, contro le torture sia a donne che uomini perpetrate da tedeschi e collaborazionisti, la fame, i massacri e le situazioni crudeli di vita imposte ai vecchi, alle spose, alle anziane ed ai bimbi nei paesi, ricordando che esisteva la responsabilità personale delle proprie azioni, sia davanti a Dio che agli uomini. (Ivi, p. 11).
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Il 22 settembre 1943, dopo l’inaspettata fuga del Re e di Badoglio, in una situazione di grandissima confusione e con l’invasione nazista già in atto, Mons. Nogara pubblicava su “La Vita Cattolica”, parole di sostegno morale al popolo. «Non venga meno la nostra fiducia in Dio – scriveva – che è padre amoroso, e nelle sorti d’Italia, da Dio specialmente amata …». (Ivi, p. 13).
Ed ad Udine dal 10 al 17 novembre 1943, nel corso degli esercizi spirituali presso il seminario, 50 sacerdoti, fra cui don Aldo Moretti, decidevano di passare alla resistenza armata, con l’approvazione dell’arcivescovo. (Massimiliano Tenconi, op. cit.).
Il 21 settembre 1943 Mons. Nogara si recava in stazione a benedire i soldati deportati in Germania, (Francesco Cargnelutti, op. cit., p. 23), nel giugno 1944 cercava aiuto per la popolazione di Forni di Sotto, dopo che i nazifascisti avevano dato alle fiamme il paese, (Ivi, p. 33); concedeva, poi, a don Albino Perosa nome di copertura Alboino, e a don Giorgio Vale, nome di copertura Willy, che il tempio Ossario diventasse una centrale partigiana e luogo ove si nascondevano alleati e ricercati dai nazifascisti e si producevano documenti falsi, (Ivi, p. 57 e pp. 213-217) e sede del CINPRO, e si prodigava per cercare di salvare condannati a morte anche se senza risultato. Infine, il 1 novembre 1944, prendeva posizione contro le lettere anonime: «Dolorosamente impressionati dalla persistente piaga delle lettere anonime e dalle gravi conseguenze che spesso ne derivano – scriveva – decretiamo: Chi con lettere anonime calunnia persone ed Istituti, esponendoli così a gravi danni, incorre ipso facto nella scomunica». (Ivi, p. 31).
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Egli quindi, da Arcivescovo, chiedeva ai sacerdoti ed ai fedeli opere di carità, che non sempre questi ultimi, ma forse neppure tutti i primi, erano disposti a fare nei confronti del prossimo in difficoltà, e si adoperava, come poteva, per la popolazione, in momenti difficilissimi, ove nessuno sapeva più di chi si poteva fidare.
Dopo i fatti tragici di Nimis Faedis e Attimis, vennero fatti funzionare a pieno ritmo il forno del seminario e la Cucina economica, portando soccorso ai poveracci rimasti senza un tetto, senza nulla ed alle famiglie distrutte. Ma fin dall’autunno 1943, vista la miseria e la fame ed altre condizioni causate dalla guerra e dagli accadimenti, Mons. Nogara aveva iniziato a deprecare l’aumento dei prezzi, il mercato nero, la vendetta privata, il furto (Ivi, p. 13).
Ed ancora: nell’autunno 1944 Giuseppe Nogara apriva le porte dell’Arcivescovado per farne un punto di raccolta di indumenti usati, materassi, sacconi per dormire (paions) coperte, biancheria, scarpe, lenzuola, stoffa, vecchie scarpe, grano, patate, corredini per bimbi, forche, rastrelli … Le popolazioni vessate dai nazifascisti e con gli uomini o partigiani o collaborazionisti avevano bisogno di tutto, ed egli, attraverso le sue strutture benefiche e le parrocchie, se poteva raccoglieva ed elargiva, con l’aiuto di tanti.
Nel febbraio 1945 l’esternazione del suo dolore per le troppe condanne a morte tedesche e nazifasciste gli procurava la censura, nel marzo 1945 interveniva presso i tedeschi per segnalare la situazione della popolazione di Cicigoliš, dove i cosacchi saccheggiavano, incendiavano, violentavano … (Ivi, p. 13 e p. 19).
Tutto è sotto il controllo tedesco, in Ozak, ed egli domanda … Chiede lo sblocco di una grossa partita di cascame di cotone al Cotonificio udinese, chiede di poter acquistare quintali di corda, per la confezione di scarpe autarchiche, chiede il permesso, per il Parroco di Trava e sacerdote di Villa Santina, di portare in Carnia quintali di granoturco da distribuire alla popolazione, (Ivi, pp. 34-40). Per quanto possibile l’ormai settantenne prelato si prodiga … Ma avverserà sempre il comunismo, vissuto come il pericolo rosso, come tutti i sacerdoti.
Naturalmente anche l’Arcivescovo di Udine, nato da famiglia nobile, non fu esente da ombre, con il suo appoggio all’azione di Francisco Franco contro il legittimo governo spagnolo ed il suo sostegno alle guerre coloniali, con il mancato appoggio alle richieste di uso della lingua slovena da parte del clero che operava in paesi che avevano la stessa come madrelingua, dopo la prima guerra mondiale, (Cfr. per esempio, Giorgio Banchig, Il duce lo vuole, in: http://www.lintver.it/storia-vicendestoriche-ducevuole.html) che lo allontanarono, pure, da una parte della base cattolica più povera ed emarginata. Gli si imputa, inoltre, una lettera ai partigiani, poco accorta, successiva ad una ai tedeschi, ed alcuni studiosi criticano il suo modo di agire, altri pare troppo lo esaltino. Inoltre forse pose qualche firma come quella a favore di Carlo De Cillia, (http://www.ebay.it/itm/1948-UDINE-Arcivescovo-Giuseppe-NOGARA-Lettera-con-firma-AUTOGRAFA-/310699824362), ammesso che il documento non sia un falso, per salvare qualche imputato non si sa di che cosa, dal tribunale militare dopo la fine della guerra (http://www.sissco.it/recensione-annale/guglielmo-pellizzoni-curia-arcivescovile-udinese-e-regime-fascista-dallinsediamento-di-mons-giuseppe-nogara-alla-soglia-della-seconda-guerra-mondiale-1928-1940-2005/).
Ed alla fine della guerra e nel dopoguerra la chiesa fu talmente ossessionata dal pericolo di una invasione comunista, da ostacolare, spesso, qualsiasi miglioramento per la popolazione tutta, dimenticando la politica sociale della chiesa. Ma questa è altra storia.
Comunque sull’operato di Monsignor Giuseppe Nogara nel periodo resistenziale, rimando a: Alessandra Kersevan e Pierluigi Visintin, Che il mondo intero attonito sta. Giuseppe Nogara. Luci e ombre di un arcivescovo 1928-1945, Udine, KappaVu, 1992, Tarcisio Venuti, Corrispondenza clandestina col Vaticano. Carteggio Nogara – Montini 1943-1945 con appendice, Udine, La Nuova Base 1980, Elpidio Ellero, Mons. Giuseppe Nogara, arcivescovo di Udine, durante il pontificato di Pio XI. Ipotesi storiografiche, prima parte in: in Storia Contemporanea in Friuli, n.23, 1992, seconda parte in Storia Contemporanea in Friuli, n.24, 1993, Giovanni Miccoli, Chiesa e società nella diocesi di Udine (1943-1945), in: I.F.S.M.L. Resistenza e società, Atti del Convegno Problemi di Storia della Resistenza in Friuli, Vol. II°, Del Bianco ed., Udine, 1984. Sullo stesso volume vedasi anche: Liliana Ferrari, L’azione cattolica della Diocesi di Udine durante la guerra e la Resistenza, in: I.F.S.M.L., Resistenza e società, op. cit..
Una cosa però vorrei precisare a livello metodologico: la posizione del settantenne Mons. Giuseppe Nogara non si può confondere con quella dei cattolici, che non fu univoca, e neppure con quella della chiesa, perché la chiesa era allora rappresentata da Pio XII, che dettava ai Vescovi le linee generali da seguire e far seguire, ma di fatto parte del clero, soprattutto basso, agì in base alle situazioni contingenti in cui si venne allora a trovare.
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Un esempio di sacerdote carnico che aiutò popolazione e resistenza. Don Carlo Englaro.
Vorrei soffermarmi poi, sull’opera, nel corso della seconda guerra mondiale, di don Carlo Englaro, spesso dimenticato, nato a Treppo Carnico nel 1900, prima cappellano a Tolmezzo poi Parroco di Artegna, che molto aiutò popolazione e partigiani, e che si adoperò per tutti, agendo nell’ottica di carità dettata dal Vescovo di Udine.
Giannino Angeli, Tarcisio Venuti narrano che fu proprio don Carlo Englaro che si recò ad Imponzo a raccogliere il cadavere di don Giuseppe Treppo, Vicario della frazione tolmezzina, il 12 ottobre 1944, tre giorni dopo il suo assassinio, aiutato da due sacerdoti salesiani: don Giovanni Del Degan e Teseo Furlani. Essi giunsero ad Imponzo con una bara caricata su di un carretto, che però era solo apparentemente vuota, perché era piena di pane per la popolazione affamata dai tedeschi, che avevano vietato l’afflusso di generi alimentari in zona Libera, e dai cosacchi che avevano depredato in ogni luogo.
Il paese apparve ai sacerdoti allo stremo. Gli abitanti erano chiusi in casa, le vie mostravano il segno dei bivacchi cosacchi, delle ruberie, delle violenze perpetrate. (Ivi, pp. 51-52).
I sacerdoti distribuirono il pane fra la gente, quindi, vuotata la bara, vi posero il cadavere del prete e volsero verso Tolmezzo.
Si narra poi, che fu proprio don Carlo Englaro che riuscì a far liberare Gino Beltrame, comunista e farmacista udinese, catturato dai nazifascisti, che egli si precipitò più volte dai tedeschi, in particolare dopo il funerale di Renato Del Din, per salvare il parroco di Tolmezzo ed Arcidiacono della Carnia, Mons. Pietro Ordiner, dalla loro ira, dicendo che era anziano e non sapeva sempre bene quel che faceva, (testimonianza della dott. Maria Adriana Plozzer Puppini, cl. 1924) e che aiutò concretamente le popolazioni alla fame.
“Partigiano osovano sul terreno” potremmo dire oggi, pare senza nome di copertura o con nome non noto, riuscì a far giungere ai resistenti informazioni precise, passando il posto di blocco tedesco con un permesso ottenuto per andare ad officiare in altri paesi (Francesco Cargnelutti, op. cit., p. 302), essendo interdetto, ai tempi del Governo della Zona libera di Carnia, dello spilimberghese e del maniaghese il transito da Tolmezzo verso la Carnia e viceversa, e portava messaggi da osovano ad osovano all’interno del breviario, come narrò a suo figlio Remo il partigiano osovano Bruno Cacitti.
Neppure lui fu esente dall’esser oggetto di qualche fatto spiacevole, ed una volta si salvò da una fucilata, non si sa se sparata verso di lui intenzionalmente (Ivi, pp. 302-303), un’altra venne fatto segno, con suoi collaboratori, di una sventagliata da parte dei nazifascisti che formavano il posto di blocco, presumibilmente il fortino, appena superato regolarmente. (Ivi, p. 304).
Riuscì, all’epoca, a far transitare carri pieni di viveri verso la Carnia, finché un giorno un caporale, al posto di blocco ove i carichi venivano pesati, si accorse che il peso del carro era eccessivo per quanto dichiarato, ed allora procedette a puntigliosa ispezione, e trovati nascosti sacchi di farina, grano, alimentari, che povere donne avevano acquistato in Friuli scambiandoli con oro ed altro, ma che non riuscendo a portarli a destinazione gli avevano affidato, lo perquisì, arrestò e lo condusse in carcere, e fu anche fortunato perché, dopo una giornata di prigione, fu liberato. (Ivi, p. 304).
Dopo l’entrata dei cosacchi, per ordine di Mons. Giuseppe Nogara si recò in Friuli, direttamente, ad acquistare grano trasportandolo con automezzi di ditte private. Quindi raggiunse diversi paesi della Carnia per portare alimenti assieme a soccorso e parole di conforto. (Ivi, p. 305).
Prestò la sua opera pure come cappellano delle carceri di Tolmezzo, site in via allora Linussio, ove ora ha sede la Biblioteca Civica, e, oltre celebrare la S. Messa per i carcerati, portò loro parole di conforto ed anche, nascostamente, qualche lettera dalla famiglia, avvisata della cattura del congiunto, se non già al corrente, ed anche pagnotte e cibo. Ma al tempo stesso fornì anche ai prigionieri che ne avessero avuto bisogno, utili risposte ed informazioni per gli interrogatori, e spesso i congiunti di prigionieri si rivolsero a lui perché intercedesse per il loro caro presso il comando tedesco. (Ivi, p. 306).
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Don Alberto Pancheri, attivo nella resistenza osovana a Gemona del Friuli.
Vorrei qui ricordare, poi, don Alberto Pancheri, Stimmatino di Gemona, prima per anni missionario in Cina, ma non ho trovato una biografia seppur minima, da porre qui. Si sa che nascose giovani dell’Azione Cattolica renitenti alla leva tedesca e che li inviò in montagna, diventando parte attiva della Resistenza osovana con nome di copertura Ettore, e che collaborò con gli Alleati. (“L’Apo: dedichiamo una via a don Alberto Pancheri”, in: http://gemonese4445.blogspot.it/2013/09/).
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E vi furono anche, in Italia, sacerdoti uccisi, torturati, per il loro operare, che fu indispensabile per i partigiani.
E vi furono anche sacerdoti che, accusati di aver dato assistenza a prigionieri alleati e a Patrioti (sinonimo di partigiani) ricercati, finirono in campo di concentramento in Germania o nelle carceri nazifasciste, come il veneto rev. don Carlo Davanzo, neppure allora giovanissimo, che risiedeva a Castelfranco Veneto. Egli fu arrestato il 6 agosto 1944 dalla S.S. di Treviso, fu condotto alla Caserma Salsa di detta città e ivi detenuto fino al 21 settembre dello stesso anno. (Diari storici dei Reparti partigiani della provincia di Treviso – ISTRESCO, in: http://www.istresco.org/images/archivio/materialiDigitalizzati/DiariStoriciTrascrizione01.pdf, p. 37).
Ed a Possagno, sempre in Veneto, alla fine del febbraio 1945, a guerra che volgeva la termine, le SS di Cona (Venezia) arrestarono e torturarono tre Sacerdoti, don Ferdinando Pasin, don Giuseppe Scattolin, don Giovanni Peretti, tenendoli come ostaggi, sperando così che un comandante partigiano si presentasse per permettere la loro liberazione. (Ivi, p. 107).
Molti sacerdoti in Friuli, in Veneto, durante la resistenza aiutarono i parrocchiani, e cercarono di sopravvivere in un clima di occupazione. E nelle zone jugoslave passate all’Italia dopo la prima guerra mondiale e nella Slavia friulana furono i sacerdoti, nelle canoniche, a salvare cultura, lingua, tradizioni locali, cancellate dal regime fascista, come i cognomi ed i nomi dei paesi, non senza pericoli e rischi. Non tutti i sacerdoti però erano uguali, ed alcuni furono anche collaborazionisti. Vi furono preti, per scelta, nella Decima Mas e via dicendo, insomma vi furono anche preti fascistissimi, che non vollero vedere i danni, a corpi ed anime, del fascismo. (Massimiliano Tenconi, op. cit.).
Per concludere si può dire che «sarebbe vano […] ricercare in tutti i venti mesi della Resistenza un atteggiamento univoco del mondo cattolico. Posizioni caratterizzate dalla prudenza, dal cosiddetto attesismo e da idee determinate da puro spirito di conservazione, furono compensate e si giustapposero ad atteggiamenti contrassegnati da dense adesioni, da un forte attivismo e da slanci ideali volti ad un rinnovamento radicale della società» (Ivi.). Ma è altrettanto vero che, come scrisse Giorgio Bocca nella sua: Storia dell’Italia partigiana, senza l’aiuto del clero tre quarti della pianura padana, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, sarebbero rimasti chiusi e difficilmente accessibili al movimento partigiano. E, «contrariamente alle gerarchie, costrette per la loro posizione pubblica ad assumere un atteggiamento prudente per lo meno sul piano formale, il basso clero poté intervenire nella realtà con un’azione concreta senza la necessità di rilasciare proclami od esortazioni ufficiali che lo avrebbero eccessivamente esposto alle autorità occupanti ed a quelle collaborazioniste di Salò». (Ivi.).
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Poi il dopoguerra e il sorgere di problemi politici e partitici, già presenti anche prima, ma messi in secondo piano dalla comune lotta antifascista.
Ma a me qui interessa che dalla guerra di liberazione, a cui molti con idee diverse parteciparono, tanto che fu giustamente definita una “guerra di popolo”, nacque la democrazia italiana, che essa permise di avere una Costituzione che si potesse dire tale, mentre prima vigeva lo statuto albertino, di avere una repubblica, libertà di espressione e di pensiero, e dove il lavoro e la dignità della persona acquisirono, dopo un periodo di orrori, fame, miseria, morte, un posto importante nella nostra Nazione, grazie all’ impegno di molti, di tanti, sacerdoti, cattolici, socialisti e comunisti, e di uscire dall’occupazione tedesca.
Laura Matelda Puppini
https://www.nonsolocarnia.info/cattolici-nella-guerra-di-liberazione/STORIAQuesto mio contributo è di carattere didattico-divulgativo, e non ha pretese di essere uno studio esaustivo su di un argomento che ha già riempito pagine e pagine di scritti, forse più attenti alle posizioni politiche dei vertici della chiesa e dei neonati partiti che al ruolo dei cattolici nella...Laura Matelda PuppiniLaura Matelda Puppinilauramatelda@libero.itAdministratorLaura Matelda Puppini, è nata ad Udine il 23 agosto 1951. Dopo aver frequentato il liceo scientifico statale a Tolmezzo, ove anche ora risiede, si è laureata, nel 1975, in filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trieste con 110/110 e quindi ha acquisito, come privatista, la maturità magistrale. E’ coautrice di "AA.VV. La Carnia di Antonelli, Centro Editoriale Friulano, 1980", ed autrice di "Carnia: Analisi di alcuni aspetti demografici negli ultimi anni, in: La Carnia, quaderno di pianificazione urbanistica ed architettonica del territorio alpino, Del Bianco 1975", di "Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906- 1938, Gli Ultimi, 1988", ha curato l’archivio Vittorio Molinari pubblicando" Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne culture, 2007", ha curato "Romano Marchetti, Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, ed. ifsml, Kappa vu, ed, 2013" e pubblicato: “Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo… Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo Carnia, ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi Carnia, 1944-1945, in Storia Contemporanea in Friuli, n.44, 2014". E' pure autrice di "O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra”", prima ed. online 2014, edizione cartacea riveduta, A. Moro ed., 2016. Inoltre ha scritto e pubblicato, assieme al fratello Marco, alcuni articoli sempre di argomento storico, ed altri da sola per il periodico Nort. Durante la sua esperienza lavorativa, si è interessata, come psicopedagogista, di problemi legati alla didattica nella scuola dell’infanzia e primaria, e ha svolto, pure, attività di promozione della lettura, e di divulgazione di argomenti di carattere storico presso l’isis F. Solari di Tolmezzo. Ha operato come educatrice presso il Villaggio del Fanciullo di Opicina (Ts) ed in ambito culturale come membro del gruppo “Gli Ultimi”. Ha studiato storia e metodologia della ricerca storica avendo come docenti: Paolo Cammarosano, Giovanni Miccoli, Teodoro Sala.Non solo Carnia
Traendo spunto dalle mie disordinate letture mi sembra di ricordare che al Tempio Ossario di Udine siano state nascoste, senza che i religiosi lo sapessero,anche delle armi.