Francesco Cecchini. C’era una volta in Algeria …
A Isabelle Eberhardt che ha raccontato l’Algeria di un tempo e a Robert Barrat, militante della verità.
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Algeri, 2011.
Normalmente compro libri alla libreria Du Tiers-Monde, in piazza Emir Abdelkader, in centro. Dopo li sfoglio seduto a un tavolino esterno del Milk Bar, bevendo un the alla menta od un caffè.
Un sabato mattina, inizio autunno, in una giornata limpida e tiepida, compro “Un Journaliste au coeur de la guerre d’ Algerie” di Robert Barrat.
Robert Barrat scoprì l’Algeria nel 1938 e poi la raccontò, da giornalista, dal 1955 fino al 1962, e fu testimone della guerra di liberazione del popolo algerino dal colonialismo francese.
Mi colpisce una frase all’inizio del libro: «A Bou Saada, notre guide nous monstra le dune ou Marlene Dietrich et Charles Boyer avait tourné le film Jardin d’ Allah. Nous assistons au classique danses du ventre de danseuses Ouled Nai». (A Bou Saada, la nostra guida ci mostra le dune dove Marlene Dietrich e Charles Boyer avevano interpretato il film “Il giardino di Allah”, e quindi avevamo gustato la classica danza del ventre delle “Danzatrici “Ouled Nai“).
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Tempo fa avevo visitato anch’io Bou Saada, che avevo conosciuto attraverso gli occhi di Isabelle Ebherardt.
Bou Saada, regina fulva
vestita dai suoi giardini scuri
e custodita da colline viola,
dorme voluttuosamente
sul ciglio del fiume,
dove l’acqua scorre
su pietre bianche e rosa.
Ho visitato quasi tutta l’Algeria di Isabelle: Biskra, la Casbah d’Algeri, Aïn Séfra. È qui che l’ho trovata, nella sua tomba ornata da una lapide che la ricorda come: “Sposa di Ehnni Slimane, morta a 27 anni nella catastrofe di Aïn Séfra”27 ottobre 1904.
Un temporale di una violenza inaudita trasformò la strada dove abitava Isabelle in un torrente furioso di fango giallo. Le case furono spazzate via assieme agli abitanti. Isabelle spinse fuori suo marito, poi ritornò per prendere un manoscritto, ma quando volle uscire a sua volta, la casa le crollò addosso. Qualche giorno più tardi il suo corpo fu trovato sotto le macerie. Di lei era rimasto ben poco ma i suoi manoscritti furono recuperati intatti. Era giunta in quella terra d’Africa nel 1902, vi era rimasta ben poco.
Isabelle fu affascinata dall’Algeria: dal desiderio d’Oriente, dagli arabi, dall’amore, dal “kif”, dal vagabondaggio, dal travestimento con vesti beduine, ma fu anche colpita dalla “religione di Allah”, dall’lslam, che non conosceva.
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In una “zaouïa”, edificio sacro ma anche luogo religioso di insegnamento, ad El Hamel, vicino a Bou Saada, Isabelle aveva pure incontrato la “maraboute” santa sufi Lalla Zaynab, per la quale, da allora in poi, nutrì una grande ammirazione.
Così di lei scrive nei suoi diari, Les journaliers: «La vedo. È una donna che indossa il costume di Bou Saada, bianco e molto semplice, ed è seduta. Il suo viso è abbronzato dal sole e solcato da rughe. Viaggia molto Lalla Zaynab, e si sta avvicinando alla cinquantina. Il suo sguardo è molto dolce, e nelle pupille nere brucia la fiamma di una intelligenza velata da una grande tristezza. Tutto nella sua voce, nelle sue maniere, nell’accoglienza dei pellegrini, denota una grande semplicità.
È lei Lalla Zaynab, figlia ed ereditiera di Sidi Mohamed Belkacem».
Isabelle parla a Lalla, la sufi, che, a confidenza, risponde con confidenza, da donna a donna.
«Figlia mia… ho dato tutta la mia vita per far del bene sul sentiero di Dio… E gli uomini non hanno mai riconosciuto il bene che ho fatto loro. Molti mi odiano e mi invidiano. Pertanto ho rinunciato a tutto: non mi sono mai sposata, non ho famiglia, non ho gioia». Più tardi Isabelle scriverà che non si era mai sentita così vicina a qualcuno come a Lalla Zaynab.
Lascia Isabelle El Hamel, «angolo perduto del vecchio Islam, sperduto nella montagna nuda e oscura, e avvolto di pesante mistero», lascia Lalla Zaynab.
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Bou Saada è a circa 250 chilometri a sud di Algeri, nella regione di M’Sila. È detta anche “Cité du bonheur”, “Porta del deserto”, perché è ai confini del Sahara. È ricca e popolosa Bou Saada: ha un palmeto immenso e oltre 100.000 abitanti.
Ho preso l’aereo da Algeri per un fine settimana: l’aeroporto è a una quindicina di chilometri dalla città. Prima di atterrare l’aereo gira attorno a Bou Saada, e dall’alto vedo il verde delle palme, circondato dal deserto e da brulle e nude montagne. Il fiume che attraversa la cittadina, il Bou Saada Wadi, non è in secca, ma neppure in piena. Ho letto che la siccità minaccia la coltivazione dei datteri, ma forse hanno esagerato.
Il mattino dopo, con il taxi che mi ha accompagnato dall’aeroporto all’hotel, vado a El Hamel, che significa “Lo sperduto”, alla ricerca di Isabelle Eberhardt. El Hamel è ad una decina di chilometri a sud di Bou Saada. La strada è asfaltata e attraversa una terra che Isabelle ha descritto come pietrosa e sterile. Le colline sono di un colore grigio ocra.
L’autista, Karim, parla francese, e mi dice: «Sono di Bou Saada. La nostra ricchezza, oltre che dal turismo, è data dalle palme che producono datteri resi zuccherini dal sole».
«Anche ad Algeri si vendono- rispondo io – assieme a quelli di Gardhaia».
Karim ribatte immediatamente: «I nostri sono più buoni. Sono simili a quelli di Biskra. Sono i “deglet nour”, i datteri della luce. Vengono anche esportati in Francia. La mia famiglia possiede delle palme. D’estate Bou Saada è una fornace. Non piove molto a Bou Saada ma a volte temporali e vento la bagnano e la scuotono. L’acqua è importante anche per i datteri, ma a Bou Saada non manca: viene dal fiume, viene da pozzi».
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Il taxi si ferma fuori El Hamel. Non può sfuggire allo sguardo la “zaouïa” di Lalla Zeynab, formata da una moschea, una scuola coranica ed un mausoleo dove credo sia sepolta la “maraboute”. Me la indica l’autista: è su una delle due colline.
El Hamel è un labirinto di stradine strette che si arrampicano sull’altra collina. Quasi tutte le donne vestono l’“haik” bianco: alcune hanno solo gli occhi scoperti. Mi ricordano immagini di Mohamed Salah Messikh che ritraggono donne nella Quasba d’Algeri.
Sulla via del ritorno, quando siamo a due passi da Bou Saada, Karim mi propone di andare a vedere dei disegni rupestri con un fuoristrada 4X4 o il Mulino Ferrero fondato da un italiano nel 1800, che si trova a due passi. Non intendo accettare, e così dico a Karim che, per ora, non se ne fa nulla, e gli chiedo il suo numero di telefono se mi dovesse servire il taxi.
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La luce dura a lungo per poi terminare improvvisamente. Ho girovagato per le strade, visitato il “Ksar”, la cittadella fortificata, ho comperato al mercato una “manina di Fatima” d’argento.
Vendono di tutto a Bou Saada: gioielli artigianali, tappeti, “coltelli bousaadi” e prodotti tuareg per turisti ad un banco di uomini blu.
Ho dormito lì due notti all’Hotel Kerdada, costruito agli inizi del 1900 con il nome di “Le Petit Sahara”, e di recente restaurato. Nella hall vendono vecchie cartoline dell’albergo e raccontano la sua storia. Vendono anche guide turistiche che ne parlano. Leggo, incuriosito, che prende il nome dal “djebel Kerdada”, uno dei monti che proteggono la città.
L’ho prenotato ad Algeri in un’agenzia di viaggi aspettandomi un hotel senza personalità, invece ha l’aria del “Saint George”.
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Ho dormito ed ho mangiato piatti locali fra cui lo “chakhchoukha” e lo speziatissimo “zwiti”, ma non ho visto o ascoltato nulla delle “danseuses Ouled Nail”.
Ne parlo a Marc, un anziano “pied rouge”, un giornalista che, oltre che scrivere, organizza visite di “pieds noirs” o di figli di “pieds noirs” nella loro Algeria perduta. Lavoro per un’impresa francese e ho conosciuto Marc a una riunione dell’ambasciata di Francia. So che Marc è stato più volte a Bou Saada dove, prima della liberazione, esisteva una comunità di coloni francesi.
Siamo in un locale di Sidi Yaya dove si può fumare la “shisha”, il narghilè. L’inizio autunno si è trasformato in un autunno di nuvole grigie e vento.
Gli racconto della mia visita a Bou Saada e di cosa ho letto sul libro di Robert Barrat.
«Non sai niente delle “danseuses Ouled Nail”, perché non hai visitato il museo Dinet». – mi dice Marc.
«Credevo che Dinet fosse un pittore, orientalista minore» – replico.
«Il pittore Étienne-Auguste Dinet ha dipinto palme, il deserto e le ragazze Ouled Nail a seno nudo». – mi risponde Marc – Sicuramente se tu avessi visitato il museo, una delle guide, se non la stessa direttrice, te lo avrebbe detto».
Gli dico, allora, che ho letto Robert Barrat, che mi ha fatto ricordare il viaggio a Bou Saada e a El Hamel, in un’Algeria interna, diversa da quella costiera. E che mi ha fatto desiderare vedere le “danseuses Ouled Nail”.
«Se è per quello, – replica Marc – anche Paul Bowels nella sua autobiografia racconta di aver visitato, a Bou Saada, un postribolo dove ragazze Ouled Nail danzavano nude. E delle danzatrici parla anche una vecchia guida Michelin. “Ouled Nail” è una tribù di origine araba, ed esiste ancora, ma le ragazze non danzano più».
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Rimaniamo in silenzio per alcuni minuti, poi Marc riprende a parlare.
«Le donne Ouled Nail ballavano fin da bambine vestite di con costumi tradizionali. Le danze discinte e la prostituzione iniziarono poi, con la colonizzazione. Si prestarono a prostituirsi e a danzare nude per poter vivere con un po’ di soldi».
«Ne avete combinato in Algeria, come altrove nelle vostre colonie». – dico al francese Marc.
«Alcuni francesi considerano l’Algeria la propria terra senza essere colonialisti, perché sono algerini». risponde.
Poi mi lascia riflettere su quello che ha detto. La conversazione procede lenta, mentre fumiamo il narghilè. Non abbiamo fetta: il tempo scorre qui lento.
«Conosco una ragazza ad Algeri, Lynda, – mi comunica Marc – che esegue la danza del ventre e che dice di essere una Ouled Nail. La fa per lo più per i francesi e fa solo quello, non è una prostituta. Se vuoi te la presento, per conoscerla basta pagare un pranzo o una sera».
Senza pensarci, dico di sì.
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È sera, e dalla terrazza dell’Hotel Aurassi si vede la baia di Algeri e la città che luccica. Dopo pochi minuti arrivano Marc e Lynda. Lynda è una bella ragazza, alta, con occhi e capelli neri, vestita semplicemente, con jeans e una maglietta nera. Potrebbe essere tranquillamente latino-americana o spagnola.
Marc mi presenta Lynda: entriamo al ristorante ed ordiniamo cous cous e birra.
Lynda non chiede chi sono, è amica di Marc, e non è la prima volta che egli le presenta uomini. Non aspetta domande, ma inizia a parlare, come seguisse un copione.
«Non sono di Algeri, sono di Orano». – dice lei.
«Conosco bene Orano – risponde Marc- è più viva di Algeri. Albert Camus la chiamava la città sonnambula e frenetica al tempo stesso, e probabilmente è ancora così».
Orano sembra una città spagnola in Nord Africa. La vita è dolce, si mangia tardi e si fa la siesta. Negli innumerevoli caffè, uomini e donne chiacchierano e si divertono. E poi c’è la musica. Forse Lynda è di discendenza spagnola, ma non glielo chiedo.
«Ogni tanto sento il bisogno di ritornare a Orano, dove mi sento bene: è la mia città. I miei si sono trasferiti ad Algeri per lavoro e ho studiato lingue all’università di Blida dove ho letto L’ Oasis de Bou Saada, di Vigerie, scritto a inizio ‘900»- aggiunge Lynda.
«Ho una fotocopia, te la posso prestare». dice Marc, rivolto a me. Sa che amo leggere certi testi.
«Sono stata a Bou Saada da Blida con compagni d’università – continua lei – Ho visitato il Museo di Ouled Nail. Ma è Orano e il raï l’origine della mia danza. Parlo a francesi e stranieri di danza Ouled Nail, perché attrae, ma tu e Marc conoscete l’Algeria e non voglio ingannarvi».
Capisco allora che les danses Ouled Nail resteranno per me una frase letta sul libro di Robert Barrat.
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«Ho iniziato a cantare e a danzare “raï” a Orano. Lo ballo ancora quando ritorno in qualche “boite de nuite”. La cantante che amo è Cheikha Remiiti, che danzava come una fata mentre cantava, o si faceva accompagnare da una danzatrice. Vi sono video di lei. Vorrei anche cantare in pubblico e, prima o poi, produrrò un cd, o meglio un video. Insomma vorrei propormi». – Questo dice Lynda, questo è il suo sogno.
«La patria del “raï” è Orano, – continua – ma l’origine è un’altra. L’essenza della danza è nomade. All’inizio del secolo scorso gruppi di beduini, venendo dal sud, percorrevano Orano e la sua regione: quartieri in festa, mercati, caffè. Il loro pubblico erano i portuali, erano i poveri dei parchi pubblici. Allora stranieri abitavano “Le Village Negre”. Forse anche danzatrici del ventre arrivarono Bou Saad».
Marc da buon “pied rouge” conosce, l’Algeria: è la sua seconda patria.
Poi Lydia passa al dunque. «Danzo per amici, una mezz’ora. Chiedo 100 euro, più 50 per ballare una decina di minuti senza reggiseno. Danzo per una sola persona alla volta, ma puoi venire con Marc, è un amico. Abito a El Biar con una ragazza, anche lei di Orano, ma lei non danza».
Conosco il luogo. Anch’io abito a El Biar. Ma l’appuntamento non è per quella sera.
Prima dello spettacolo, leggo tutto quello che trovo nella Biblioteca Nazionale o che Marc mi procura sulle danzatrici Ouled Nail. Nell’immaginario dei francesi rappresentavano la quintessenza della “femme fatale”. Non solo li affascinava la danza, ma anche i loro ornamenti, i copricapi, le collane, i bracciali. I corpi nudi profumavano d’incenso, gli occhi erano neri, le mani rese ocra dall’henné, gli zigomi arrossati dal trucco. Alcune danzavano con una bottiglia d’alcool in equilibrio sulla testa.
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Con Marc andiamo a casa di Lynda un sabato sera. È una villa di due piani con giardino, e, se non fosse buio all’orizzonte, si potrebbe vedere il Mediterraneo. Imene, l’amica di Lynda, che potrebbe essere sua sorella tanto le assomiglia, ci fa accomodare in un salotto che non ha niente di orientale: due poltrone e un tavolino basso di fronte a una parete bianca. Le luci sono soffuse. Imene ci offre da bere: scegliamo un cocktail di cognàc e liquore di menta con ghiaccio.
Inizia la musica: un “raï”ritmato senza parole. Entra Lynda che veste pantaloni di cotone nero, stretti in vita, ma larghi poi, sin sopra le caviglie. Indossa pure dei braccialetti ed un reggiseno verde e dorato. È a piedi nudi; la mano e il braccio sinistro hanno tatuaggi all’henné.
Balla muovendo i fianchi in maniera sinuosa, scuote la testa delicatamente mentre le braccia fluttuano nell’aria al ritmo del “raï”.
Verso la fine Lynda si ferma e propone di togliersi il reggiseno senza chiedere nulla in cambio. I seni di Lynda sono fermi e ballano insieme ai fianchi e il resto del corpo. Marc estrae da una tasca un pacchetto di sigarette, me ne offre una e l’accende. Fumo. Guardo Lynda e penso alle danseuses Ouled Nail che danzavano nude in un bordello di Bou Saada …
Francesco Cecchini.
L’immagine che correda l’articolo rappresenta la città di El Hamel ed è tratta da: http://www.tripmondo.com/algeria/wilaya-de-m-sila/el-hamel/
https://www.nonsolocarnia.info/francesco-cecchini-cera-una-volta-in-algeria/https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2017/07/Algeria-per-cecchini-El-Hamel-4598925.jpg?fit=500%2C333&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2017/07/Algeria-per-cecchini-El-Hamel-4598925.jpg?resize=150%2C150&ssl=1ARTE E FOTOGRAFIAA Isabelle Eberhardt che ha raccontato l'Algeria di un tempo e a Robert Barrat, militante della verità. ⸎ Algeri, 2011. Normalmente compro libri alla libreria Du Tiers-Monde, in piazza Emir Abdelkader, in centro. Dopo li sfoglio seduto a un tavolino esterno del Milk Bar, bevendo un the alla menta od un caffè....Laura Matelda PuppiniLaura Matelda Puppinilauramatelda@libero.itAdministratorLaura Matelda Puppini, è nata ad Udine il 23 agosto 1951. Dopo aver frequentato il liceo scientifico statale a Tolmezzo, ove anche ora risiede, si è laureata, nel 1975, in filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trieste con 110/110 e quindi ha acquisito, come privatista, la maturità magistrale. E’ coautrice di "AA.VV. La Carnia di Antonelli, Centro Editoriale Friulano, 1980", ed autrice di "Carnia: Analisi di alcuni aspetti demografici negli ultimi anni, in: La Carnia, quaderno di pianificazione urbanistica ed architettonica del territorio alpino, Del Bianco 1975", di "Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906- 1938, Gli Ultimi, 1988", ha curato l’archivio Vittorio Molinari pubblicando" Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne culture, 2007", ha curato "Romano Marchetti, Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, ed. ifsml, Kappa vu, ed, 2013" e pubblicato: “Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo… Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo Carnia, ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi Carnia, 1944-1945, in Storia Contemporanea in Friuli, n.44, 2014". E' pure autrice di "O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra”", prima ed. online 2014, edizione cartacea riveduta, A. Moro ed., 2016. Inoltre ha scritto e pubblicato, assieme al fratello Marco, alcuni articoli sempre di argomento storico, ed altri da sola per il periodico Nort. Durante la sua esperienza lavorativa, si è interessata, come psicopedagogista, di problemi legati alla didattica nella scuola dell’infanzia e primaria, e ha svolto, pure, attività di promozione della lettura, e di divulgazione di argomenti di carattere storico presso l’isis F. Solari di Tolmezzo. Ha operato come educatrice presso il Villaggio del Fanciullo di Opicina (Ts) ed in ambito culturale come membro del gruppo “Gli Ultimi”. Ha studiato storia e metodologia della ricerca storica avendo come docenti: Paolo Cammarosano, Giovanni Miccoli, Teodoro Sala.Non solo Carnia
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