Oscar Arnulfo Romero, la “Voz de los que no tienen voz” assassinato 34 anni fa.
Oscar Arnulfo Romero nasce a Ciutad Barrios il 15 agosto 1917. Sin da giovanissimo matura la vocazione sacerdotale. A 12 anni entra nel seminario e dopo alcuni anni giunge a Roma per continuare gli studi.
E’ ordinato sacerdote nel 1942 nella cappella maggiore del Collegio Pio Latino Americano di Roma.
Torna in patria e diventa parroco di Anamoros. Poco tempo dopo viene trasferito a San Miguel, dove resta fino alla nomina di Vescovo ausiliare di San Salvador. Dopo quattro anni, nel 1974 è Vescovo di Santiago de Maria, una delle diocesi più povere del paese sudamericano. Qui conosce da vicino le povertà del popolo salvadoregno e le ingiustizie che subisce.
Nel 1977 è Arcivescovo di San Salvador in un momento in cui nel paese infierisce senza sosta la repressione sociale e politica. La nomina di Mons. Romero è ben vista dal potere: egli è un uomo di cultura non impegnato socialmente; un vescovo che avrebbe pensato ad una pastorale “spirituale” per il popolo, disincarnata completamente dalla vita e dalla storia della città e del paese.
Pochi giorni dopo la sua elezione, uno dei suoi sacerdoti migliori e fedeli, il padre gesuita Rutilio Grande, viene assassinato.
Mons. Romero passa tutta la notte vicino alla sua salma e ordina che sia celebrata una sola Messa di suffragio in tutta la diocesi.
«Il sangue di questo sacerdote -dirà più tardi- lo orienta verso i valori della giustizia sociale e della solidarietà verso i più poveri del paese».
Nella sua prima Lettera Pastorale dichiara di volersi schierare apertamente dalla parte dei più poveri. Ogni domenica il popolo attende con ansia i suoi messaggi pronunciati nel corso delle celebrazioni nella cattedrale e diffusi in tutto il paese attraverso la radio. Il suo messaggio è quello di una vera e propria redenzione del popolo costretto a subire atti di violenza e di ingiustiza. Mons. Romero diventa così pericoloso: la Chiesa inizia a subire altri attentati. La stessa sorte di p. Rutilio tocca ad altri quattro sacerdoti.
La voce di Romero è diventata la “Voz de los que no tienen voz”, la voce di coloro che non hanno voce, una voce libera che invoca la pace.
«Nel nome di Dio e del popolo che soffre -dice il giorno prima di essere assassinato- vi supplico, vi prego, e in nome di Dio vi ordino, cessi la persecuzione contro il popolo». (…). »
(Tratto da: “Beato Oscar Arnulfo Romero Galdámez in: www.santiebeati.it › Sezione O).
Monsignor Oscar Romero: 34 anni fa: uno sparo nel silenzio.
«Sono trascorsi 35 anni da quel lunedì 24 marzo 1980 quando alle 18.26 a San Salvador il vescovo Romero è stato colpito al cuore proprio mentre offriva il pane e il vino dell’Eucarestia che stava celebrando con un gruppo di persone nella cappella dell’hospitalito, un ospedale che accoglieva una sessantina di ammalati di tumore e dove lui dormiva in una abitazione di una modestia e di una essenzialità disarmanti. Ha appena pronunciato queste parole: “Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci spinga a dare anche il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore come Cristo; non per noi stessi, ma per dare al nostro popolo idee di giustizia e di pace.”
Nominato arcivescovo di San Salvador per le posizioni moderate e diplomatiche, poco a poco ha scoperto la realtà drammatica del Paese: l’oligarchia ricca e dominatrice con il supporto delle forze armate, della polizia, degli squadroni della morte che sequestravano e uccidevano; la reazione popolare armata; una drammatica guerra nella realtà del Salvador che provocò ottantamila morti.
“Il popolo mi ha convertito al Vangelo”, dirà monsignor Romero. Si immerge in quella drammatica situazione di povertà, di ingiustizia e di violenza, di sparizioni e di uccisioni; diventa voce dei senza voce; denuncia leatrocità e i loro responsabili, infonde fiducia e speranza in nome del Dio di Gesù di Nazaret e del suo Vangelo, vive in mezzo al popolo.
Per questo viene ucciso, nella illusione di spegnere la voce della profezia.
Il giorno precedente, domenica 23 marzo, aveva detto nell’affollatissima Eucarestia: “Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme: Fratelli, siete del nostro stesso popolo.
Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non ammazzate. Nessun soldato è tenuto ad obbedire ad un ordine che va contro la legge di Dio[…]. E’ Tempo che recuperiate la vostra coscienza[…].
In nome di Dio allora, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione!”
Era frequentemente minacciato di morte: “Come cristiano non credo alla morte senza risurrezione: se mi uccidono risorgerò nel popolo salvadoregno…se le minacce dovessero compiersi già da adesso offro a Dio il mio sangue per la redenzione e la risurrezione del Salvador. (…).
Padre Ignacio Ellecurrìa, rettore dell’università dei Gesuiti di San Salvador ucciso nel novembre 1986 con altri cinque confratelli con una donna e sua figlia per il coinvolgimento nei processi di giustizia e di pace del popolo ha affermato: “Con monsignor Romero, Dio è passato in Salvador”. Una vita coinvolta con i poveri, con le vittime per un cammino di giustizia e di pace guidato dal Dio della liberazione e della vita.»
Don Pierluigi di Piazza.
Profezia e illusioni in Oscar Arnulfo Romero.
Estratto da: Claudia Cirami, “Scomodità di un vescovo di comodo. Profezia e illusioni in Oscar Arnulfo Romero”in: http://www.papalepapale.com/ 6 settembre 2011)
La scomodità di un arcivescovo “di comodo”.
Mons. Romero aveva la capacità di incantare l’uditorio durante le sue omelie. Uno degli esponenti di punta della Teologia della Liberazione, Gustavo Gutierrez, ricorda: «I sermoni di Romero erano storici, duravano più di un’ora. La gente era incollata alle panche della chiesa». Si rivolge alla gente semplice, agli intellettuali ma anche ai soldati, ai politici, chiedendo giustizia per il suo popolo segnato da continue perdite di vite umane, brutalmente massacrate. Implorando che chi spara, tortura, uccide ritrovi una coscienza umana. Non è stato sempre così, mons. Romero. Quando è stato nominato arcivescovo di San Salvador, il 22 Febbraio 1977, il potere si è rallegrato della sua nomina: uomo di studi, generoso, ritenuto conservatore; innamorato della preghiera, appassionato di San Giovanni della Croce, preferito al progressista Arturo Rivera y Damas (che gli succederà). Tuttavia, in pochi anni, mons. Romero diventa una persona sgradita. I suoi discorsi e le sue omelie, via etere, arrivano persino in Europa e ne fanno un simbolo di giustizia. Allarmati i politici, infastiditi i militari. Preoccupata una parte dell’episcopato latinoamericano, impensierita la Santa Sede. Come è potuto accadere?
Genesi di una ri- conversione.
Torna verso la sua parrocchia, padre Rutilio Grande. È il 12 Marzo 1977. Viaggia in compagnia di un anziano e di un ragazzo di 16 anni. Sono trucidati tutti e tre senza pietà. Molti individuano lo spartiacque tra il primo e il secondo Romero proprio nella morte di padre Grande, suo collaboratore e amico. Secondo Jon Sobrino, teologo (ribelle e poi condannato da Roma) naturalizzato salvadoregno, per Romero, l’azione di Rutilio Grande è «troppo politicizzata, troppo orizzontale, lontana dalla missione fondamentale della Chiesa e pericolosamente vicina alle idee rivoluzionarie» ma, sebbene non ne ha condiviso in tutto l’operato, ha ammirato in lui la fede e lo zelo.
Per i funerali di padre Grande, Romero fa celebrare un’unica messa nella cattedrale, in tutta la diocesi, per sottolineare l’unità della chiesa salvadoregna. Chiede che vengano trovati i colpevoli e qualcuno, in alto, gli risponde che padre Rutilio “era un comunista”, chiudendo il discorso. Quello è il momento in cui Romero – secondo molti – diventa inquieto. Comincia a porsi domande. Cambia atteggiamento. Secondo altri, invece, la ri-conversione è maturata prima, nel 1976, quando è già vescovo da due anni di Santiago de Maria e ha incontrato la miseria. (…).
Andare in giro a raccogliere cadaveri.
Negli anni dell’episcopato di mons. Romero, ma anche per molto tempo dopo la sua morte, El Salvador vive un’interminabile stagione di violenza e di problemi sociali irrisolti. Candidati eletti democraticamente ma appoggiati da militari si alternano alla guida del paese: per reprimere qualche golpe o eventuali spinte talora riformiste più spesso rivoluzionarie, viene usata sistematicamente la forza. Qualcuno si lascia prendere la mano, incoraggiato anche dai giganteschi interessi economici privati in campo. Presto inizia una vera e propria mattanza. Oltre ad avversari politici, gli squadroni della morte sopprimono anche sacerdoti, catechisti, fedeli. Spesso facendo uso di una violenza spropositata, perché passi il messaggio che nessuno deve pretendere cambiamenti di questo statu quo, congeniale agli affari di pochi ma onnipotenti. Romero inizia a definire il suo ministero episcopale come un “andare in giro a raccogliere cadaveri”. I suoi appelli perché la violenza finisca e perché ci sia più attenzione per le condizioni di vita dei poveri si moltiplicano. In un’omelia dice, per esempio: «È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa ai poveri. Questo non è cristianesimo!… Molti, carissimi fratelli, credono che quando la Chiesa si dice in favore dei poveri, stia diventando comunista, stia facendo politica, sia opportunista. Non è così, perché questa è stata la dottrina di sempre». Parole forti e, soprattutto, in un certo senso, vere, che tuttavia suonano anche pericolosamente vicine al linguaggio della Teologia della Liberazione. Non esattamente la “dottrina di sempre”.
Incontri distaccati con Giovanni Paolo II
Ed è proprio a causa della Teologia della Liberazione che i rapporti con la Santa Sede si fanno più tesi. L’arcivescovo incontra una prima volta Giovanni Paolo II nel Maggio 1979. Secondo una testimonianza che riporta le confidenze dello stesso Romero, il colloquio è penoso e l’arcivescovo ne esce molto turbato. Ha portato al Papa un dossier corredato di fotografie sulle violenze in El Salvador compiute dai gruppi militari ma Giovanni Paolo II si mantiene distaccato e gli chiede di avere migliori relazioni con il governo del suo paese. (…).
“Faccio fatica ad accettare una morte violenta.”
L’ultima fase della vita di Romero è una camminata a passo veloce verso il martirio. Ha paura mons. Romero. Non è un eroe, ma, come ha ricordato mons. Vincenzo Paglia durante una puntata della Storia siamo noi di Gianni Minoli, è semplicemente un uomo di Dio che, per la sua fede, ha affrontato quello che ha ritenuto inevitabile. Nel suo ultimo ritiro spirituale, Romero scrive: “Faccio fatica ad accettare una morte violenta, ormai in queste circostanze molto probabile…Il Signore mi ha infuso coraggio dicendomi che devo essere disposto a dare la mia vita per Dio, qualunque sia la fine della mia vita”. Il 24 Marzo 1980, mentre sta celebrando il Santo Sacrificio della Messa nella cappella dell’ospedale per i malati incurabili, un colpo d’arma da fuoco mette fine alla sua esistenza, ma non alla sua presenza invisibile. Ancora oggi, mons. Romero è una delle figure più amate e popolari, non soltanto del Salvador, ma dell’intera America Latina.»
(Cirami Claudia, “Scomodità, op. cit.).
Laura Matelda Puppini.
L’immagine è tratta, solo per questo uso, da: https://it.pinterest.com/andersenjuanita/que-lindo-es-mi-pais/, e rappresenta il vescovo Romero, allora sacerdote, che celebra la messa fra i campesinos.
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