Paolo Strazzolini. Morti nell’eccidio detto di Porzus: chi era davvero Giovanni Comin. (1).
«Sono trascorsi 53 anni dai tragici fatti di Porzûs che il film di Renzo Martinelli (2), pur con il beneficio della fiction cinematografica, ha riproposto all’attenzione di tutti affinché finalmente si trovino volontà e coraggio per fare giustizia di tutte le strumentalizzazioni, restituendo definitiva chiarezza storica a questa oscura pagina del nostro recente passato. Molti protagonisti dell’eccidio, relegati nella storiografia come pure nelle istruttorie dei tribunali a ruoli marginali, appena funzionali al sostegno di tesi politicamente convenienti, attendono ancora che sui loro destini venga gettata degna luce, atta a distinguere non solo vittime e carnefici ma anche, al di fuori di ogni retorica, oggettivi meriti e responsabilità.
Giovanni Comin, figlio di Attilio e Colusso Domenica, entrambi operai, era nato, secondo di quattro fratelli, l’8 gennaio 1926 a Bagnara di Gruaro (VE) ove risiedeva con la famiglia. Aveva conseguito il diploma di terza elementare e svolgeva l’attività di agricoltore quando l’entrata in guerra, il crollo del fascismo, l’invasione tedesca determinarono la svolta della sua vita. Da poco compiuti 18 anni, fin dai primi mesi del 1944 prese parte alla lotta di liberazione e, pur non essendo di ideologia comunista (non aveva mai svolto attività politica), fu partigiano nelle formazioni garibaldine di pianura della destra Tagliamento, inquadrato nel battaglione Diavoli Rossi (poi Learco e quindi Del Ben) della Brigata Garibaldi Ippolito Nievo B, con il nome di battaglia di “Tigre”. Il suo comandante Mario Drigo “Leone” lo ricorda come il migliore dei suoi dipendenti: generoso e sempre audace nell’azione contro l’oppressore nazi-fascista.
Trascorso quasi un anno alla macchia, probabilmente in seguito a delazione, nei giorni tra il 28 e il 31 dicembre 1944 venne arrestato dai tedeschi e rinchiuso nelle carceri di Portogruaro. Dopo qualche tempo venne tradotto in prigione a Chions e quindi alle carceri di via Spalato a Udine dalle quali, nella notte del 2 febbraio 1945, venne prelevato e caricato su una tradotta per essere deportato in Germania. All’altezza della località di Reana del Rojale, approfittando di un rallentamento del treno (era costume dei nostri macchinisti ridurre la velocità dei convogli proprio allo scopo di consentire la fuga di prigionieri), riuscì a saltare dal vagone assieme ad un compagno di prigionia, il capitano Gabriele De Sanctis Ricciardone di Chieti, procurandosi la rottura di due denti (l’altro subì la frattura di una gamba).
I due, dopo aver vagato nella notte ed essersi nascosti in un covone di granoturco, all’alba trovarono rifugio presso la canonica di S. Marco di Vergnacco, accolti dal parroco don Luigi Pividori che li nascose nel sottopalco del teatrino. Trascorso qualche giorno, mentre il De Sanctis era immobilizzato dalla ferita, Comin, desideroso di riprendere la lotta, si fece indirizzare verso il più vicino presidio partigiano: la sera del 5 febbraio attraversò il Torre in località Marsure e venne accompagnato in montagna verso il paese di Subit ove, nella mattina del 6 febbraio, si presentò al partigiano osovano tenente degli alpini Leonardo Tomasino “Nodo”.
Il giorno seguente, questi lo affidò a Elio Guion “Dolegno” affinché provvedesse ad avviarlo verso il Comando di Francesco De Gregori “Bolla” per esservi eventualmente aggregato. Accompagnato dalla staffetta Giovanni Cussig “Afro” ed assieme ad un mulo bianco con un carico di carne, circa attorno alle 14.00 del 7 febbraio Comin si avviò verso le malghe di Porzûs per la via bassa da nord. Giunti all’altezza della prima delle malghe note come stalli di Clap (…), sita alla base del saliente del Topli Uork a circa un’ora dalla meta (…), il terzetto venne avvistato da una pattuglia dei gappisti di Mario Toffanin “Giacca” in perlustrazione, reduce dall’arresto di Guidalberto Pasolini “Ermes” e di alcuni suoi compagni.
Preceduti dall’osovano Gaetano Valente “Cassino”, tenuto sotto la minaccia delle armi, i garibaldini (3) si precipitarono giù dal crinale alla volta dei nuovi arrivati mentre, nel contempo, echeggiavano alcune raffiche d’arma da fuoco. Alla vista degli armati che scendevano e si avvicinavano rapidamente, l’osovano “Afro” abbandonò il mulo e si precipitò all’interno della vicina malga ove nascose la posta e la pistola, mentre Comin, disorientato, pensando a un agguato di tedeschi travestiti, si allontanò cercando di nascondersi dietro un covone, tradendo però la sua posizione con le impronte lasciate nella neve.
Raggiunto “Afro” ed interrogatolo, i gappisti si sentirono rispondere che questi era un semplice valligiano, lì giunto per accudire la stalla e solo casualmente accodatosi al convoglio costituito dall’altro e dal mulo il cui carico, ispezionato dai garibaldini, depose inequivocabilmente per un rifornimento dell’Osoppo destinato al Comando di “Bolla”. Venne creduto e risparmiato, dopo che un ruolo non secondario aveva giocato il fatto che egli si fosse espresso in sloveno. Comin, invece, ritenuto date le circostanze un intendente osovano, venne agevolmente scoperto nel suo nascondiglio ed ucciso sul posto con una raffica di mitra a bruciapelo che gli tranciò di netto una gamba.
“Afro”, dopo essere stato derubato dell’orologio e dichiarato estraneo all’Osoppo anche grazie alla complice testimonianza di “Cassino”, venne lasciato libero e poté rientrare a Subit. La mattina seguente, accompagnato da altri paesani, fece ritorno sul luogo dell’uccisione e, con l’ausilio di una barella artigianale fatta di rami, provvide al recupero del corpo del partigiano “Tigre” trasportandolo nella cappella del cimitero del paese ove rimase anche il giorno successivo.
Nella giornata del 10 febbraio la salma venne tumulata con l’assistenza del cappellano di Attimis don Renato Lucis nel camposanto, da dove fu riesumata il 22 giugno 1945 per venir traslata a Cividale e Udine ove si svolsero le solenni esequie e quindi a Gruaro per essere riconsegnata alla famiglia. L’identificazione dei resti fu resa inequivocabile dal rilievo dell’arto mancante e dei due denti spezzati. Il mulo bianco, sequestrato unitamente al carico dagli uomini di “Giacca”, venne riconosciuto e recuperato dal legittimo proprietario di Prossenicco qualche anno dopo presso una famiglia di Robic, in Slovenia, con la mediazione dell’ANPI di Udine.
All’eroico partigiano garibaldino combattente Giovanni Comin “Tigre”, caduto diciannovenne in un luogo isolato e senza aver mai incontrato “Bolla” ed i suoi, colpito più che altri “da fraterna mano assassina”, toccarono in sorte l’arbitraria assimilazione nell’Osoppo, I Brigata (anche sull’indicazione della via che Gruaro gli ha dedicato è riportato come partigiano dell’Osoppo) e l’inverosimile nome di battaglia “Gruaro”, chiaramente assegnato postumo a scopo identificativo. L’ultima cosa, infatti, che un partigiano in clandestinità avrebbe accettato sarebbe stato un nome di battaglia che, in caso di cattura o di delazione, avesse condotto immediatamente al suo facile riconoscimento ed alle conseguenti rappresaglie.
E infine Mario Toffanin “Giacca”, l’impenitente esecutore della strage. Più volte intervistato riguardo eventuali ripensamenti ha sempre sostenuto la legittimità del suo operato, fino al punto di dirsi pronto a rifarlo, riservando qualche scampolo di rammarico al solo Gastone Valente “Enea”, del cui candore morale evidentemente nemmeno lui si sentiva troppo di dubitare. Ebbene, l’ideologicamente inossidabile “Giacca”, nell’attesa di dover eventualmente rispondere del suo operato ad altro Tribunale (troverà un Pertini anche lì?), farebbe bene per intanto a confrontare la propria coscienza con l’aver, in tanto furor giustiziere, mandato a morte Giovanni Comin “Tigre”, un giovane e valoroso combattente per la libertà che forse non condivideva la sua ideologia ma che, fino a prova contraria, vestiva la sua stessa divisa».
Paolo Strazzolini.
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Note di redazione di Laura Matelda Puppini.
(1) La prima edizione dell’articolo è uscita sul Messaggero Veneto con titolo: “Giovanni Comin: una tigre in trappola!”.
(2) Il film a cui si riferisce Paolo Strazzolini, intitolato ‘Porzûs’, regista Renzo Martinelli che, insieme a Furio Scarpelli ne ha curato pure la sceneggiatura, è uscito nel 1997.
(3) I gappisti erano partigiani, spesso comunisti, che si erano in alcuni casi uniti in gruppi ma che non facevano parte della Garibaldi. Il gruppo di ‘Giacca’, presentatosi per vivere nella zona libera del Friuli Orientale, fu inquadrato coercitivamente nella Garibaldi nel periodo in cui si trovava nella zona Libera del Friuli Orientale, ma di fatto i gappisti parevano riottosi anche lì a seguire gli ordini. (Cfr. Giovanni Padoan (Vanni), Abbiamo lottato insieme: partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Del Bianco Editore, Udine, 1965).
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Ora sappiamo che i caduti nell’eccidio di Porzus, secondo Primo Cresta, con nomi corretti da Paolo Strazzolini, sono 17 di cui 3 uccisi alle malghe, il Comin subito fuori, e gli altri a Bosco Romagno. In sintesi essi sono: Francesco De Gregori (Bolla), Gastone Valente (Enea) e Elda Turchetti, che furono uccisi alle malghe; Giovanni Comin, (Tigre), garibaldino, nei pressi; gli altri a Bosco Romagno e sono: Guido Pasolini (Ermes), Antonio Previti (Guidone), Antonio Cammarata (Toni), Pasquale Mazzeo (Cariddi), Franco Celledoni (Atteone), Angelo Augelli (Massimo), Salvatore Saba (Cagliari), Giuseppe Urso (Aragona), Enzo D’ Orlandi (Roberto), Primo Targato (Rapido), Gualtiero Michielon (Phortos), Giuseppe Sfregola (Scabbia per Strazzolini), Egidio Vazzaz (Ado). Invece ,sempre secondo Paolo Strazzolini, Erasmo Sparaccini fu fucilato alla caserma di Cividale, e questo si evince anche da documentazione presente presso il Tribunale di Udine. Invece ora si tende, secondo la stessa fonte, a ritenere che cadde a Porzûs anche Egidio Vazzaz, prima non considerato.
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Un grazie sentito a Paolo Strazzolini per l’articolo, le correzioni sui caduti nell’ eccidio detto di Porzûs e per la foto che ritrae Giovanni Comin.
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La fotografia rappresenta una interpretazione la baita di ‘Porzûs’ da ‘Il diario di Bolla’ a cura di Giannino Angeli, Apo ed. 2002. Laura Matelda Puppini.
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