Quella montagna così vicina, così lontana. Riflessioni ai margini dell’incontro pubblico con Mauro Corona.
Ho ascoltato sere fa Mauro Corona parlare di molte cose, durante la presentazione dell’ultimo suo libro, spaziando con disinvoltura fra ricordi, sensazioni, aspetti di vita.
Era piacevole ascoltarlo, ma allo stesso tempo mi chiedevo se molti dei presenti, non certo sessantenni, avessero compreso alcuni concetti.
Perché forse, per poter capire compiutamente, si sarebbe dovuti ritornare indietro e rivivere quel tempo, cancellato negli anni sessanta, cosa che io , fra i pochi, potevo fare.
Faceva freddo quando ero piccola, faceva molto freddo d’inverno, anche nelle camere: il letto era freddo, l’ urinale era freddo, la camicia da notte era un velo che non ti copriva affatto.
I tempi erano diversi: ci si svegliava al canto del gallo e si andava a dormire con il sorgere della luna, dopo essersi assicurati che il fuoco non potesse morire, nella cucina.
Le scale erano di legno, a casa mia, i divisori di “grisiola” intonacati, la camera matrimoniale aveva un soffitto dipinto con bellissime cornici colorate e arricchito da pregevoli stucchi.
Nel cortile un enorme mastello permetteva di lavare, uno stantuffo di mandar su e giù le lenzuola nell’acqua con lisciva, una grande tavola in legno di fregare con la spazzola di saggina la biancheria.
Si lavava poco quando ero piccola, lavare era una fatica immane.
Nel cortile primeggiava la catasta di legna ben tagliata e creata con arte sublime da mio nonno, il saurano Emidio Plozzer, ufficiale nella prima guerra mondiale, che lo aveva tanto scioccato da non volerne mai parlare.
Non esisteva frigorifero, quando ero piccola, e il problema della conservazione alimentare non era di poco conto: si sopperiva essicando, ponendo fuori dal balcone, utilizzando il sottoscala, talmente gelido che l’olio di oliva ghiacciava, salando, mettendo sotto grappa, facendo sciroppi di frutta. Chi aveva la cantina in pietra, annessa alla casa, poteva considerarsi fortunato.
L’anno era scandito dalle feste comandate con i loro riti; dal pranzo di Natale e Pasqua; dal cambio di abiti in primavera; dallo sfregare delle donne, in ginocchio, le lunghe travi dei pavimenti, in tempi stabiliti; dai lavori che si dovevano fare, e da quelli d’eccezione. Si pregava, si viveva e si moriva, non si aveva ancora carta igienica, quando io ero piccola, e per anni nessuno mi spiegò perché il mio gemello avesse un corpo diverso dal mio, finché non lo capii da sola, forse dopo i 15 anni, o giù di lì, da un libro, da qualcosa che lessi.
Il bosco per me, quasi cittadina, era una scoperta di piante e fiori, di lavac intorno alle casere, la cui crescita era favorita dalle enormi “bovacce” delle mucche che rischiavi spesso di calpestare. Più tardi, da Alido, dal suo vivere il bosco e la montagna, appresi molte cose: le sorgenti ed i ruscelli, i sentieri e l’uso del legno, guardai come sicuro faceva scendere per un pendio la olgje carica di legna ben assicurata da corde, lo vidi salire a piedi nudi sugli alberi e masticare pece al posto della gomma americana. Ed imparai a fare l’amore con lui sui prati, complice una coperta, solo gli uccelli ad ascoltare.
La prima cosa che ti insegnavano, quando ero piccola, era a mettere le mani avanti quando ti sentivi cadere, un altra era come mettere i piedi per salire e scendere in montagna, e guai se non conoscevi il nome delle cime che circondavano il paese, fatte ripetere migliaia di volte. Ogni passeggiata doveva essere istruttiva, non esisteva nulla che fosse fatto per puro divertimento.
Quando ero piccola i buoni erano sempre i cattolici intransigenti, i cattivi sempre quelli che non andavano in chiesa. Regolarmente mia nonna nascondeva libri, riviste, giornali, ogni benedizione annuale della casa; si poteva parlare solo di alcune cose, si doveva star seduti composti, studiare, e ricordarsi bene le regole di comportamento.
L’onestà era il termine di valutazione primo per una persona; si sussurrava più di quanto si dicesse apertamente; si andava a prendere il latte in latteria ogni mattina con l’apposito “calderino” di alluminio, munito di coperchio, ricordandosi di salutare in modo adeguato gli adulti del borgo che si incontravano per strada.
Il latte veniva poi fatto bollire, con una piastra apposita all’interno, per evitare che, all’ebollizione, tracimasse, ponendo seri problemi nella pulizia da “plote da spolert” da sfregare con carta smeriglio.
Nessuno parlava di sesso quando ero piccola, nessuno di noi sapeva come nascevano i bambini, ed io, fra le poche fortunate, sapevo solo che mi avevano originato i miei genitori e che avevo fatto “il grande viaggio” insieme al mio gemello. Ogni tanto vedevo mia nonna lavare, ciclicamente, strane pezzuole bianche e metterle a stendere, ma seppi delle mestruazioni a due passi dall’averle.
Freddo, fatica, patimenti e sfinimenti, caratterizzavano la vita di chi abitava in montagna, una vita ancora ancestrale rispetto a quella delle città ma anche di Tolmezzo; i paesi erano uniti dalla corriera, sempre di ditta privata, che talvolta giungeva ad orario talvolta no; si andava ad acquistare i generi di prima necessità nella “drogheria” più vicina; zucchero, sgombro sott’olio ed altro venivano venduti ad etti e posti in carta oleata o “color carta da zucchero”, e si consumavano, pure, “bagigi” cioè noccioline americane, fichi secchi e datteri. Ed ai bambini venivano talvolta regalate coloratissime “mentine”.
Ogni tanto ci recavamo dalla zia di mia madre, a Cavazzo Carnico. Contadina, aveva una grande stalla che odorava di fieno e sterco di vacca, piena di mosche che le bestie allontanavano muovendo la coda. Si alzava alle cinque del mattino Utta di Bidin, per governare le bestie, per mungere, secondo un’arte antica, la mucca, per mettere a bollire il dovunque immancabile, cit dal uardi, che campeggiava sul fuoco per tutta la giornata, fino a sera, alimentato da nuova acqua ed arricchito da “miscela Elefante”. E nelle case non mancavano mai un gatto, possibilmente abile nella caccia ai topi, e qualche gallina.
Ma per ritornare a Mauro Corona, egli ha evitato, tranne l’accenno a quella cava in cui lavorò, di parlare di fatica, di sudore, di morte anche violenta, di gente buona ma pure cattiva. Ha parlato di silenzio, il silenzio che avvicina alle montagne, alla sensazione di infinito, che aiuta a pensare a riflettere, a pregare. Ma è difficile farlo capire a chi non ha vissuto un’altra epoca. Abituate od abituati a quel silenzio, donne più facilmente che uomini sviluppavano doti particolari, sapevano prevedere, percepire … Ogni volta che mia nonna Anna sognava la zia Vittoria, qualche sciaugura accadeva, mentre l’immagine della madre era consolante. Aveva presagito il ritorno del padre rientrato dalla Germania subito dopo esser partito per cercar lavoro, aveva presagito che quando le avessero dato delle gocce di un farmaco sarebbe morta. Pura coincidenza? Ed anche Romano Marchetti mi narrava che, allora, le sensazioni, risultavano affinate …
Inoltre, in quel non sapere più nulla di cari e congiunti, in tempo di guerra, in quel non sapere cosa avesse in serbo il futuro, ci si appellava alle capacità divinatorie di quella che sapeva leggere i Tarocchi od i fondi del caffè, ed al tempo stesso rassicurare, o di quello che sapeva evocare, muovendo il “bredul“, davanti al fuoco …
Non c’era vero e proprio silenzio nei paesi, tranne che quando una folta coltre di neve copriva anche il rumore dei passi. C’erano rumori diversi: il rumore dei lavori artigianali e domestici; talvolta grida, anche di bambini intenti al gioco, richiami di madri, sbraitare di vecchi e di ubriachi, abbaiare di cani, lamentarsi di sofferenti; vi erano risse, nell’osteria, talvolta spintoni: non ogni “ciocca” era “vaiotta”, e poteva apparire anche un coltello. Non c’era sempre totale silenzio nel bosco, percorso non si sa da chi, anche nella notte.
Le donne odiavano i mariti quando si presentavano con i pantaloni calati, per tema di restare incinte, una scappatella del coniuge era consentita, anche se poi spesso veniva risaputa e diventava oggetto di numerosi sussurri. Ma alcuni uomini dell’azione cattolica o che consideravano un giuramento di fedeltà il matrimonio, ma anche innamorati della moglie non tradivano, e non c’era tutta questa attenzione verso il sesso. Vi erano “vedrans” e “vedranas” che vivevano tranquillamente.
Non si sapeva che fosse l’eros, che è l’amore sia giovanile che senile, e la procreazione era la finalità della vita assieme all’espiazione dei molti peccati che non si sapeva spesso quali fossero. Si sapeva solo che eri peccatore e che il prete era tanto potente da poterti far guadagnare il paradiso.
Il mondo che descrive nei suoi primi libri Corona è il mondo della montagna reale d’allora, qui come là, ove i ricchi facevano le escursioni, guidati dai cacciatori locali, mentre questi e le donne del paese ascendevano il più delle volte per necessità, preferendo di gran lunga restare seduti accanto al fuoco. Ma guai fermarsi…
Si moriva di tutto, ed in genere i referti medici parlavano di una ignota, “cachessia” sfinimento, come mi narrava la dott. Caterina Moro; i bambini morivano di “krup”, e spesso mangiavano uova di vermi con gli ovvii risultati, talvolta piante velenose funghi o bacche che potevano ucciderli, ed imparavano ben presto, istruiti da mamme e zie, a raccogliere erbe per le famose “frite”, o mirtilli e lamponi per uso domestico.
Le luci erano smorzate, il buio spesso presente, e si affinavano i sensi; si imparava a muoversi nella penombra, percependo, toccando, udendo, vedendo nel buio.
Gli uomini e le donne non sprecavano nulla, le immondizie erano minime, la montagna non aveva né segreti né misteri per chi vi abitava, ma se avessi dovuto scegliere un termine per l’ultimo libro di Mauro Corona avrei scelto segreti, che chi vi abita conosce, chi è estraneo alla sua vita e cultura no.
«Nei boschi e di notte comandiamo noi» – dicevano gli uomini del paese, durante la resistenza.
Luoghi pericolossimi per i bimbi venivano descritti come quelli abitati da aganas, streghe, demoni, animali misteriosi, in modo che, spaventati, i bimbi, spesso lasciati soli, li evitassero accuratamente.
I grandi potevano scherzare con i bambini, prendendoli anche in giro; la vita annuale era scandita da precisi compiti sia religiosi che a carattere amministrativo; ogni spesa ed ogni debito o credito venivano segnati da scritture minute su fogli o quadernetti, e nulla sfuggiva, non una tela data come dote, non un centesimo da avere o dare, anche se vi era anche chi non onorava i debiti contratti.
Mi ricordo Mauro Corona vincitore del premio montagna accanto a mio padre tanti anni fa, forse l’11 aprile 2003, mi ricordo di aver presentato i suoi volumi ai ragazzi del professionale Candoni, annesso all’isis F. Solari, con un certo disappunto, se ben ricordo, da parte di qualcuno, perché non era uno “accreditato”. Non so chi sia accreditato come scrittore, per me lo è anche Francesco Cecchini quando scrive il suo bellissimo pezzo sul Perù.
Non amo Claudio Magris, e mi scuso per questo, ho apprezzato invece certe parti dell’ultimo struggente Rumiz. Uno scrittore, non un saggista od uno storico a cui altro si richiede, deve dirti qualcosa, o ti piace o non ti piace; leggere letteratura è sensazione, è condivisione, è piacere.
Leggere è apprendere, è avere in mano le leve del sapere e della riflessione, saper leggere è la base per comprendere, per capire, per pensare. Ma bisogna saper scegliere cosa leggere.
Io leggo Mauro Corona, anche se non dico che tutto Corona mi sia piaciuto né di aver letto ogni suo volume, io leggo Mauro Corona perché egli mi parla attraverso i suoi libri anche se mi sarebbe piaciuto incontrarlo e parlargli a tu per tu, personalmente. Ma può darsi che, quando si incontra una persona, non si sappia poi cosa dire.
Non ho acquistato subito l’ultimo volume di Corona perché per me acquistare un libro è una specie di rituale, è guardalo, sfogliarlo prima, è avvicinarmi a lui ed allo scrittore. Molti uomini, ma anche donne, scrivevano un tempo qui, per rompere la monotonia di certi lunghi pomeriggi o sere, poesie anche bellissime, piene di sentimento, esperienze, lettere. Alcuni scrivono ancora. Si sapeva scrivere un tempo, si sapeva leggere, un tempo… anche fra enormi sacrifici od a lume di candela.
Laura Matelda Puppini
L’ immagine che accompagna questo articolo raffigura Mauro Corona accanto a mio padre, l’ispettore della P.I. Geremia Puppini, in occasione del conferimento del premio montagna a 10 persone, voluto dall’allora Presidente del Consiglio Regionale Antonio Martini, ed è tratta dal Messaggero Veneto del 12 aprile 2003.
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