Leggo su facebook un post il cui autore si lamenta che stiamo sempre più dimenticando la campagna di Russia, e Nikolajevka. Concordo con lui, e pertanto pubblico queste mie righe, riprese, per lo più, dall’esperienza diretta di Nuto Revelli, che ha frequentato la Regia Accademia militare di Modena, e che va in Russia come ufficiale effettivo del R.E.I., nel 1942, con la 46a Compagnia del Battaglione Tirano della Divisione Tridentina. (Nuto Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Einaudi, 2005, p. 94). Quando il treno su cui si trova, una tradotta lunghissima, lascia la stazione di Collegno per il fronte russo, «si sente un canto, […] un canto disperato, un canto proibito. I soldati cantano “Sul ponte di Bassano bandiera nera, è lutto degli alpini che vanno alla guerra, la migliore gioventù va sotto terra”». (Ivi, pp. 94-95).
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Il 22 giugno 1941 incominciava l’ “operazione Barbarossa” cioè l’offensiva contro l’Unione Sovietica.
Mussolini si aggrega anche in questo caso a Hitler, e «si ripete la stessa storia della guerra contro la Grecia: una storia di fretta, di improvvisazione, di incoscienza» – scrive Nuto Revelli. (Ivi, p.62).
Il 9 luglio 1941 si forma il Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), nel luglio 1941 partono verso il nuovo fronte le prime truppe italiane, ma solo il 14 luglio dell’anno seguente lasciano l’Italia le prime tradotte del Corpo d’Armata Alpino. (Ivi, p. 82). «L’avventura del CSIR comincia su una rotabile di montagna, l’unica per superare la catena dei Carpazi: una rotabile stretta, che si inerpica lungo la montagna, che “non consente il doppio transito agli automezzi pesanti […] muniti di rimorchio”. Il CSIR si disperde. I nostri camion arrancano a stento lungo la montagna, perdono le gomme, fondono i motori, vanno a pezzi». – scrive sempre Nuto Revelli (Ivi, p. 64), ma non è il solo a narrare i molti limiti dell’allestimento di quel corpo di spedizione. (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Campagna_italiana_di_Russia). E si va avanti così, con l’Italia che deve inviare sempre nuove truppe, con l’armamento che è più o meno lo stesso del fronte greco albanese, l’equipaggiamento “il solito”. Le scarpe sono le stesse con cui i soldati avevano combattuto in Africa Orientale, solo chiodate, e si appiccicano al fango russo che sembra pece, e mancano i Valenki; i soldati sono muniti di “fasce mollettiere” che si possono sfilare, impigliare nelle erbacce, e che possono impedire la circolazione, e di passamontagna che permettono il formarsi di sudore che si trasforma in ghiaccio. Mancano cibo, polvere contro i pidocchi ed indumenti caldi. (Nuto Revelli, op. cit., p. 66 e pp. 83-85, e p. 92).
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Le truppe italiane del CSIR, arrivano sul fronte orientale a metà luglio 1941, e vengono inquadrate nell’11a Armata tedesca, e, successivamente, nel Panzergruppe 1. Ma nell’aprile 1942 ci si rende conto che le truppe inviate non sono sufficienti, e vengono spediti in Russia altri due corpi d’armata italiani che assieme allo CSIR, formano l’Armata Italiana in Russia (ARMIR). Essa si schiera a sud, nel settore del fiume Don, assieme alla 2ª Armata ungherese e alla 3ª Armata rumena pronte a coprire il fianco sinistro delle forze tedesche che in quel momento stanno avanzando verso Stalingrado. (https://it.wikipedia.org/wiki/Campagna_italiana_di_Russia).
Poi la resistenza eroica dei russi a Stalingrado, con milioni di morti, che rappresenta la prima grande sconfitta della Germania nazista, la ripresa dell’esercito sovietico, la sconfitta, la ritirata.
«Sono con Grandi, Perego, e gli altri della 46a – scrive sempre Revelli – Ci chiediamo, noi ufficiali: a Roma conoscono la nostra situazione disperata? E se la conoscono, perché non tentano di salvarci? Roma mi pare spaventosamente lontana. E maledico il fascismo, le alte gerarchie militari, e “la patria dei balordi” quella “patria” che ci ha incastrati in questa situazione senza sbocchi, senza speranza. ». (Nuto Revelli, op. cit., p. 118). Ormai tutti vaneggiano, «intossicati dalla stanchezza, dalla fame, dal freddo, […]. (…). È un brutto segno quando i generali e i colonnelli si abbandonano a sfoghi isterici; è un brutto segno quando piangono».(Ibid.).
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«Il 16 gennaio (1943 ndr) sono schierate sul Don, da nord a sud, le divisioni Tridentina, Vicenza, Cuneense. Hanno il fianco di protezione destro composto dalla Julia, dal Battaglione Cervino, e dai resti del XXV Corpo d’Armata germanico, scardinato; il fianco sinistro completamente scoperto dal momento che l’Armata ungherese ha ormai abbandonato le linee di marcia, senza aver dato alcun preavviso, verso ovest.» (Nuto Revelli, p. 105).
Il 17 gennaio alle 17 le Divisioni Tridentina, Vicenza e Cuneense abbandonano il Don. Secondo i piani prestabiliti, la ritirata dovrebbe avvenire su due colonne: la Tridentina più a Nord, la Cuneense e la Julia a Sud. Queste ultime dovrebbero muoversi verso Valuiki.
Il giorno dopo la Tridentina e la Vicenza si trovano concentrate nella conca di Podgornoe ed imperversa il caos: magazzini ardono, depositi di munizioni esplodono, si temono incursioni di carri armati sovietici. La giornata è freddissima, le temperature oscillano fra i 20 ed i 40 sotto zero.
Nello stesso tempo, la Cuneense e la Julia, a sud, subiscono feroci attacchi da parte nemica. (Ivi, p. 107).
Il 20 gennaio la Tridentina occupa Postojali, ove giunge anche il comando del generale Nasci. Ma la radio è persa e con essa i collegamenti con la Cuneense e la Julia. Esse subiscono, lo stesso giorno, perdite gravissime a Popowka e Novo Postojalowka. «Scompaiono i battaglioni Ceva, Mondovì, Borgo San Dalmazzo, Saluzzo» – scrive Nuto Revelli (Ivi, p. 108). Ridotta da 20.000 uomini a 7.000, ciò che resta della cuneense tenta di rincorrere la Tridentina, per inserirsi nella sua scia. Ma inutilmente. Il calvario della cuneense e della Julia si concluderà nei giorni 26 e 27 gennaio a Valuiki, già in mano ai russi (Ivi, p. 108).
Nel frattempo, il 24 gennaio la Tridentina occupa Romanchowo, il 26 gennaio il battaglione Tirano urta contro lo schieramento nemico ad Arnautowo, e subisce gravissime perdite: si parla di 800 uomini. (Ivi, p. 110).
«Si caricano i feriti sulle slitte, e si riprende il cammino. La colonna della Tridentina, con in punta i cosiddetti reparti organici, si infila nella breccia aperta dal Tirano, e muove sulla grande piana verso Nikolajevka. La battaglia durerà 10 ore ed è una battaglia durissima. I russi sono ben trincerati, hanno artiglierie, pezzi anticarro. I reparti si susseguono nel tentativo di superare il trincerone della ferrovia a ridosso dell’abitato. Muore il generale Giulio Martinat, tra i primissimi, lungo il declivio che unisce la piana al trincerone della ferrovia. […].
L’ attacco, la corsa verso Nikolajevka, è guidata dal generale Reverberi. È il sacrificio dei più generosi, è l’urto di 40.000 disperati che rotolano verso il trincerone della ferrovia, a sbloccare la situazione. Importante è il contributo dei 4 carri armati e delle due artiglierie semoventi del XXIV Corpo d’ Armata tedesco, quelli del generale Eibl […].
Ma a decidere la battaglia è la paura della notte all’addiaccio, a 40 gradi sotto zero, è la prospettiva delle isbe di Nikolajevka, dei ricoveri per la notte.
40.000 soldati rotolano l’uno sull’altro come un fiume in piena, mentre scende la notte. 40.000 disperati invadono Nikolajevka». (Ivi, pp. 110-111).
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Mario Candotti, ufficiale di complemento di artiglieria della Divisione Julia, che partecipa alla campagna di Russia dopo “essersi fatto” la Grecia, e poi comandante partigiano della Brigata Garibaldi/ Carnia, giunge a Nikolajevka quando la Tridentina sta combattendo per aprire un varco per sé e per gli altri. I russi sono nella città, gli alpini sul terrapieno. «La marea degli sbandati- scrive – precipita verso il basso, invadendo tutto il fianco del colle: è una marea nera di uomini, di slitte, che si riversa allo scoperto. E contro questa massa si accanisce il nemico […]. Ma nulla può ormai arrestare il movimento verso la ferrovia. (…). […] la Tridentina è riuscita ad aprire il varco per sé e per gli altri». (Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa, naia, guerra, resistenza, Ifsml, Ana Pn ed., 1986, p. 123).
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