Ricordando ancora una volta Romano Marchetti, in un altro anniversario della sua morte, vorrei sottolineare come egli fosse anche un acuto osservatore, un intellettuale, uno scrittore di non poco conto. Voglio pertanto proporvi un suo testo su Maiaso, il paese di sua madre, e sulla casa dove visse da bambino, quella detta di Minòt, su cui dominava il vecchio nonno Adamo. L.M.P.

Maiaso.

«Il paese dove ho vissuto la mia infanzia è Maiaso, piccola frazione di Enemonzo, nella valle del medio Tagliamento. Esso giace nel lungo promontorio che si protende dal Col Gentile, fra Raveo ed Enemonzo, sino ai due abitati di Esemon.  Si tratta quasi di un’amba tra Tagliamento e Degano, dai fianchi abbastanza precipiti, con vari rilievi interni che danno un movimento alla vita della terra.

Maiaso è posto nel grembo costituito, oltre che dal Col Gentile a nord, dalla massa boscosa, troppo insistente e prona, del gruppo del Verzegnis a sud, dall’Arvenis e da una meravigliosa lunghissima finestra che guarda il Cogliàns ed il Volaia ad ovest, e dall’acuta piramide dell’Amariana ad Est.

Uno dei rilievi è illeggiadrito dalla presenza della chiesa con il suo agile campanile, circondata dal cimitero; intorno si muove la serie di prati, frutteti, boschi che sovrastano le case.

Il paese.

Maiaso era allora formato da una ventina di famiglie cioè da 110 o 120 persone.  L’economia familiare ruotava intorno alla stalla. Per sopravvivere ogni nucleo abbisognava almeno di 2 mucche a cui affiancare una vitella od una manza, di 2 o 3 pesenali di terra coltivati a mais e di 1 pesenale e forse anche 1 e mezzo, coltivato a patate e fagioli. Vi era poi chi coltivava pure zucche, rape, piselli, ed altro ancora.
Va ricordato che, di norma, ogni famiglia carnica allevava un maiale e teneva diverse galline e conigli, ed alcune allevavano pure pecore e capre.

Accanto ai lavori della stalla e dei campi, le donne dovevano pensare a preparare i pasti, a cucire abiti e “scarpets”, ad andare al mulino, a “purcitâ”, alla produzione del “most”, alla raccolta e conservazione di frutta legumi ed altro, a provvedere ai lavori domestici ed accudire i bambini.
Questi aridi dati non tengono conto, naturalmente, di gravidanze e malattie e dello “straziante” impegno estivo per la raccolta ed il trasporto del foraggio. (…).

Eppure, nonostante la fatica, era proprio sul far della sera, d’estate, che le 5 o 6 ragazze rimaste in paese, ancora con i segni lasciati sul volto dal gran sudare sotto il carico del foraggio trasportato, intonavano a voce spiegata canzoni d’amore e tradimento, spesso in italiano, ereditate dalla tradizione.
Colpisce, nel ricordo, la gioia di queste ragazzine ed il piacere di vivere, nonostante la durezza della vita stessa. Questo piacere si manifestava anche nei balli sul “breâr”, che erano sempre esplosioni scatenate, con gran dispiacere del curato, tradizionalmente contrario al ballo. (…).

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Gli uomini, come negli altri paesi della Carnia, emigravano per lavoro all’estero. Negli anni ’20 emigravano in Francia, alcuni avevano trovato lavoro in Argentina, uno in Australia; molti, prima della ‘grande guerra’, erano stati a lavorare in Germania, Austria, Romania. Un esiguo numero di artigiani pendolava giornalmente da Villa Santina.

Fra gli emigranti ricordo ancora Rico da Cjastelana proveniente dalla Francia ed in partenza per l’Australia.
Di statura bassa, corpo massiccio, allegro e generoso, Rico giocava a bocce “lajù di Beta”, ai piedi dell’omonimo stavolo. Il giorno prima di partire per l’Australia giocò dall’alba al tramonto perdendo, vincendo, sempre più allegro, circondato da una infinità di bottiglie di birra vuote.

Ed emigranti erano pure gli amici Egidio di Nai e Vittorio da Blancja.  Egidio morì giovane. Era stato a Parigi e si diceva che fatica e donne lo avessero distrutto. Coleto da Cjastelana, fratello di Rico l’australiano, invece, aveva contratto in Francia la tisi e morì dopo anni di sofferenze.

Politicamente gli emigranti veri e propri erano di sinistra e comunque antifascisti anche se non mancava, tra di loro, qualche simpatizzante per il Partito Popolare.
Ricordo ancora il giorno delle ultime elezioni prima del consolidamento del fascismo, nel 1924, di aver ascoltato due adulti di Maiaso che, dopo essersi guardati intorno, si confidavano le loro simpatie per la “falce e martello”, o i discorsi del vecchio Prato al quale la legge forestale del 1923 aveva portato via le due capre, unica fonte di sostentamento. (…).

Le donne, invece, risentivano dell’influsso della chiesa e del prete, che godeva di rispetto ad autorità e che costituiva per loro, oppresse dal superlavoro materiale, in qualche modo, l’unico spiraglio culturale.

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Il curato poi vicario di Maiaso – Colza – Fresis era di norma giovane e non durava in paese più di un lustro o due. Non si trattava di una sinecura ma neppure di una cura d’anime traboccante di spirito evangelico. Messe giornaliere, molte delle quali “in suffragio”, funzioni diurne o tradizionali, sepolture, dottrina e decime assorbivano quasi tutto il tempo del prete.
Inoltre il prete si occupava, a livello culturale, dell’educazione al canto corale delle nuove generazioni, educazione propiziata da un vecchio armonium in dotazione alla canonica.  E, di tanto in tanto, a scadenza spesso pluriennale, organizzava recite teatrali. Considerata la fatica continua che segnava allora la vita di una donna, si può capire come un bel canto alla messa o una recita, eseguita da giovani parenti, potessero portare alla stessa un sollievo per nulla trascurabile […]. (…).

Casa Minòt.

Il paese era formato da un nucleo di case. Fra queste, un po’ discosta per via del cortile e dell’orto, sorgeva, all’angolo ovest di un grande ovale delimitato da olmi, faggi, carpini, abeti, la casa detta di Minót dal nome del capostipite, Giacomo Diana, originario di Esemon di Sotto.
Il portone, ad arco pieno, partiva da due grossi sassi da paracarro e la chiave, di adeguata solidità, portava la data di costruzione: 1813.

Oltrepassato l’arco si trovavano il gelsomino, che era il primo a rammentare, con i suoi fiori profumati che, dopo i lunghi inverni, la primavera sarebbe presto giunta, ed il viburno, l’albero delle “palle di neve”, sempreverde, che, con il suo cupo colore, testardamente insisteva a proclamare che, per lui, l’inverno non esisteva affatto.
Un alto muro di cinta separava dal paese casa ed orto. Anche il cortile, quasi rettangolare, era chiuso da un muretto sopra il quale una serie di listelli verdi, con la punta marrone a freccia, si inseguivano regolari e fitti.

Il primo terzo di casa era formato dal focolare, una specie di dado di costruzione più recente delle altre, che si avanzava invadendo parte del cortile e della stalla, con annesso fienile.
Appoggiata ad ovest, sul muro di cinta, una scala di pietra delimitava, coprendolo, il pollaio e conduceva al deposito del foraggio, che spesso trasbordava dalle finestre. A sud – est vi era l’altra stalla, con il ripido tetto coperto da pianelle. Come si vede, ad esclusione del focolare, la casa era funzionale ai lavori di campagna ed a quel piccolo allevamento che allora ogni famiglia esercitava.

Un altro terzo della casa era composto dal vecchio edificio, modesto ed armonico al tempo stesso, protetto da un tetto che si protendeva in avanti per lungo tratto. Esso portava nel mezzo una breve grondaia che faceva ritornare alla mente la grave e profonda sinfonia della cascata d’acqua nei mastelli, approntati per la “liscia” settimanale.

L’edificio antico era preceduto da due leggiadri archi a tutto sesto che davano luce alle grandi pietre squadrate e che sorreggevano il primo piano con finestre e porte di un sobrio liberty che davano su un lungo ballatoio in legno. Il “mezzo piano” finale aveva, invece, finestre quadrate in pietra che illuminavano un ampio granaio che ricordava una “piazza d’armi”.

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Il granaio di casa Minót era uno spazio di circa 300 mq, suddiviso in due parti: quella che si trovava sul secondo corpo della casa e quella orientata ad Est, sopra la casa nuova, in cui era stata ricavata pure una cameretta per i bimbi, sul lato prospiciente il cortile ed il bearzo.

La parte sopra la casa antica era quasi sottotetto e la luce vi entrava, radente, dalle finestre quadre, una opposta all’altra, e dall’abbaino a due battenti, accessibile attraverso una breve scala in legno. La parte di granaio che si trovava sopra la casa nuova, era sostenuta da un altissimo e robusto pilastro in rovere, che reggeva la travatura a raggi e, più sopra, la grossa trave di colmo a cui si appoggiavano i pontoni. Questa parte del granaio riceveva luce, e talvolta pioggia di stravento, da quattro finestre rettangolari ed aveva una porta che dava su un lunghissimo poggiolo ad est, aperto sul bearzo. (…).

Durante i piovosi periodi estivi, noi bimbi ci rifugiavamo a giocare qui, ed il granaio di casa Minót diventava per noi preziosissimo. Noi bambini trovavamo interessante, di quel granaio, la robusta scala a pioli in legno che, appoggiata a due travi, serviva per equilibrismi ed acrobazie; una catasta di graticci che, vista la crisi del gelso, serviva per lo scheletro degli aquiloni; qualche manichino per la confezione domestica degli abiti, utilizzato per scenette comiche e fanciullesche. (…).

Ma il granaio non veniva usato, da noi bimbi, solo in tempo di pioggia: il suo lungo poggiolo, che dava sull’intenso verde del bearzo, faceva pure da base a salite e discese con la corda oppure a piccole teleferiche, costruite da noi bambini in “economia” ed utilizzate per il trasporto di materiali. E serviva, pure, come base per salti all’esterno, per uscire incolumi dai quali si contava sull’atterraggio sul piede destro posto “a cornice” prima del peggio.

L’abbaino dava accesso al piano accidentato del tetto, rotto da frequenti torri fumarie e camini, e veniva utilizzato, nel periodo della crisi della metamorfosi, per segrete e rischiose letture e per dirimpettaie comunioni con le stelle. Al rientro dall’abbaino, dalle letture proibite e dall’osservazione del cielo stellato, mi poteva accadere di incappare nell’ombra, lunga e conturbante, della zia Dalia in preghiera, a cui seguiva, nella mia camera isolata di adolescente, il rumore dei topolini in fuga dal cumulo delle pannocchie, a causa dello scricchiolare dei cartocci del pagliericcio quando mi distendevo sullo stesso, e si formava la fossa del corpo.

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Dominava il cortile un enorme gelso, più in là viveva ancora un robusto fico che rompeva, con la sua forma e le sue larghe foglie, l’eccessiva bianchezza ed uniformità della casa.

All’angolo sud – est del cortile uno spiovente getto di embrici copriva la seconda stalla, detta “la liscivaia”, per l’uso che ne veniva fatto un tempo. Sul camino principale si trovavano una bandiera ed un gallo ambedue di latta, che cantavano la loro metallica canzone ad ogni spirar di vento.

L’ampiezza del cortile permetteva giochi alla palla ed al pallone, con bocce ed alla corda, a tamburello e persino a qualcosa di simile al tennis, inoltre si prestava ad “iniziazioni” alla bicicletta, alla lotta greco – romana ed a cercare di camminare, rovesci, sulle mani. (…).

Il portico e lo spazio del sottoportico si prestavano ad esibizioni con il triciclo, il cavallo a dondolo, i pattini a rotelle. E poteva accadere, pure, che il prete chiedesse di utilizzare l’ampio cortile ed il sottoportico per rappresentare recite a beneficio di tutto il paese, adibendoli ad improvvisato palcoscenico e sala per gli spettatori.

Le inferriate del “fogolâr”, il poggiolo nella sua parte centrale, il passamano delle due o quattro rampe di scale, consentivano gare gimkaniche di arrampicata e discesa, così come lo spioventissimo tetto della liscivaia, ad est del cortile, palestra pure di salite e rischiosi equilibrismi sul suo colmo.

In questa casa io ho abitato con la mia famiglia, zii, nonni e cugini, sino al trasferimento a Tolmezzo.

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Il vecchio Adamo, nonna Celestina ed il santolo Vigi, ed ancora scene di vita.

Il nonno e la nonna vivevano e facevano vivere ai familiari una profonda religiosità che, più che avere come riferimento il Vangelo, aveva le sue radici nell’Antico Testamento e si reggeva sul senso di colpa.

Il vecchio Adamo, il nonno si chiamava infatti così, aveva imposto ai suoi figli i seguenti nomi: Angelina, Giovanna, Dalia (forse diminutivo di Dalila), Rachele, Maria e Giacomo ed inoltre, un po’ fuori dal quadro ma non tanto, Elisa e Cesare. Egli usava, come estremo castigo, porre alla berlina le bimbe, la domenica mattina, sul portone, che rispondessero, piangendo, alla pietosa domanda delle donne che salivano a Messa: «Ce fastu po’ ninina?» Un sabato con un colpo di mannaia aveva diviso un centesimo sul ceppo risolvendo così la lite tra due salariati contendenti.

La nonna, siora Celestina, maternità permettendolo, si prodigava nell’assistenza di ammalati e vecchi.

Ma mio padre e mio zio, generi del vecchio Adamo, seguivano un indirizzo diverso da quello familiare. Il primo, Sardo Marchetti, maestro elementare e poi direttore didattico ed infine ispettore scolastico, era di propensioni mazziniane, amava la lirica e la pittura ed avrebbe desiderato diplomarsi in disegno. Il secondo, Mario Agnoli, ragioniere e libero professionista, era massone e, perseguitato per le sue idee dal fascismo, finì suicida.

Ricordo pure mio santolo Vigi, tagliapietra e socialista, che con il suo corpo massiccio chiudeva tutto il vano della porta dell’osteria All’amicizia, di cui era proprietario. Forse gli sovveniva, ancora una volta, il suo garzonato in Romania, in contrasto “malizioso” con la vita dello zio prete e del nipote seminarista.
Egli spesso ammiccava con i suoi occhi celesti, colore che contrastava con quello della sua anima “rossa” e socialista. (…).

A settembre si falciava il “muiart”, difficoltoso ed ostico per la falce. Poi l’attrezzo veniva consegnato a Rico il dalbedar che rifaceva il filo all’attrezzo battendolo con il martello su “las batadorias”. Rico faceva questo lavoro seduto sotto un nocciolo.
Io, al mattino, sentivo quei colpi e spalancavo le ante della finestra per scoprire cosa fosse accaduto. Un fiotto di luce mi colpiva gli occhi facendomi arretrare e faticavo non poco a riaprirli e guardare l’Amariana, i prati e i boschi, e gli alberi da frutto del grande bearzo.
Poi scendevo e facevo colazione con “pan di sorc” e latte, a cui poteva seguire, talvolta, l’osservazione di Nai che veniva lì vicino a tindi ai ucei”.

Il pranzo mi pareva sempre saporito e rivitalizzante. Nel pomeriggio poteva accadere che andassi alla bottega di Nardìn da Blancja, falegname ed anche fabbro. Lì mi attendeva un gran sudata.
Nardìn metteva due o tre bimbi in fila a pestare, con la gamba destra, sul pedale del tornio oppure, uno alla volta, scarmigliati, a darcela dentro tutta per girare la manovella del mantice, per poi ammirare il bianco, molle e lucente, del ferro. (…).

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La sera, dopo aver giocato a battisasso, le cui partite venivano accompagnate da grida e proteste, sfiniti andavamo a curiosare vicino al pozzo, a cui si portavano, vestite di scuro e con passo veloce ma squilibrato, le donne, con il corpo contratto sotto il peso del “buinç”, ad attingere l’acqua. Erano stanche la sera, ed alcune ridevano, alcune piangevano, la maggior parte stava in silenzio mentre si avvicinava al pozzo. Il loro silenzio contrastava con il canto dei secchi ed il dolce cigolìo della carrucola a fare da contrappunto.

Raramente si fermavano al pozzo dopo aver attinto l’acqua, ma poteva accadere che il secchio si sganciasse sul fondo e si dovesse chiamare il solito esperto, in questo caso Santìn l’orologiaio che, armeggiando con un aggeggio chiamato “griffo”, formato da un insieme di ganci di diversa dimensione, riusciva a riportarlo in superficie, circondato dal fitto “babâ” delle donne in apprensione.  

Bisogna ricordare che allora mancava ancora qualche anno all’arrivo dell’acquedotto costruito da Vigi l’impresario che altri non era che mio santolo Vigi. Con l’acquedotto finirono i viaggi delle donne alla fontana e le mucche vennero portate ad abbeverarsi alla vasca, direttamente. Bisognava però stare attenti perché la mucca finiva inevitabilmente per urinare dopo così ampia bevuta, e bisognava pertanto collocarsi a debita distanza.

E mancava, allora, qualche anno all’arrivo della luce elettrica a Maiaso, arrivo che riempì di gioia Coleto il fedâr, perché permise l’installazione di una scrematrice elettrica che sostituiva le zangole, il cui uso tanto sudore aveva richiesto. Ma anche noi bambini fummo contenti perché gli isolatori di porcellana bianchi, in cima ai pali, divennero i nostri bersagli preferiti e ci permisero di affinare il nostro tiro con la fionda.

Talvolta le madri ci sculacciavano sonoramente per questo e non solo per questo, e mi ricordo ancora gli scapaccioni che ricevevo anch’io da mia madre.

Allora l’educazione si reggeva ampiamente “sulla pratica”, se così si può dire, e scapelòts e sculacciate non erano cosa rara.

Romano Marchetti».

Romano ci ha lasciato come essere umano il 31 marzo 2019 ma vive in noi e con noi, anche attraverso i suoi scritti. Questo pezzo è tratto dalle sue memorie: Romano Marchetti (a cura di Laura Matelda Puppini) “Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona. Una vita in viaggio nel ‘900 italiano, Ifdml e Kappa – Vu ed. 2013, (pp. 13-21), che vi invito ad acquistare.

IN NOME DI ROMANO MARCHETTI BATTIAMOCI PER LA NOSTRA MONTAGNA! IL SUO SPIRITO CI GUIDA ANCORA.

Ringrazio sentitamente Monica Emmanuelli, direttrice dell’Ifsml (Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione) ed Alessandra Kersevan di Kappa- Vu per avermi concesso, a nome degli editori, di riportare su www.nonsolocarnia.info queste righe dal volume di Romano Marchetti.

L’immagine che accompagna l’articolo è stata da me scattata negli anni ottanta e rappresenta il col Gentile sullo sfondo e, tra il verde degli alberi, la chiesa di Maiaso. Laura Matelda Puppini.  

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