Storie paularine e carniche, da Giacomo Solero, detto Jacum l’infermîr.
Negli anni settanta, ottanta ho fatto, quasi sempre accompagnata da mio marito, il dott. Alido Candido, originario di Rigolato, una serie di interviste a vari personaggi, di cui uno era l’allora universalmente noto Jacum l’infermîr, originario di Paularo, una colonna dell’ospedale tolmezzino. La pubblico in due parti, perché è molto lunga, e spero vi interessi perché a mio avviso dà molti spunti di riflessione e conoscenza. Giacomo, come mi ha detto la gentilissima impiegata dell’ufficio anagrafe di Tolmezzo, dopo aver consultato il collega paularino, aveva cognome Solero e non Sollero, come alcuni lettori avevano ipotizzato, era nato a Paularo il 25 ottobre 1902, ed è morto a Tolmezzo il 17 ottobre 1985.
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In Carnia si viveva di miseria ed emigrazione.
Laura: «Signor Giacomo, io vorrei che lei ci raccontasse come viveva la gente in Carnia quando Lei era piccolo …»
Giacomo: «In Carnia vivevano nella miseria e con l’emigrazione. Quelli che erano muratori andavano all’estero, e partivano in aprile e tornavano in novembre. Portavano soldi scarsi e spesso non riuscivano a mantenere la famiglia. Le mogli lavoravano tenendo anche una mucca ed andando in montagna. Quando trovavano un appezzamento di terreno a mezzadria dovevano pure portare il fieno per il padrone nella sua stalla. I mariti rientravano d’inverno e ripartivano subito dopo Pasqua a fare gli emigranti. E quelli che non erano muratori, facevano i boscaioli. Infatti nel comune di Paularo, di cui sto parlando, vi erano molti boschi da tagliare. E le ditte che tagliavano erano. Brunetti, Tarussio e i tre fratelli De Crignis.
I boscaioli non venivano pagati molto: 2 lire al giorno, 2 lire e venti; mio padre che era ‘capo’ prendeva 5 lire al giorno. E con 5 lire al giorno si poteva comperare l’indispensabile, mangiando patate e fagioli, polenta e formaggio, polenta e fagioli, latte e quello che c’era in famiglia. Un altro problema era che la paga non arrivava mai, e anche per questo motivo le famiglie non riuscivano a sbarcare il lunario, e così le donne erano costrette a lavorare, ad andare a far fieno, a far legna, a lavorare i campi a mezzadria, e via dicendo».
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Mezzadria. Un problema tutto femminile.
Giacomo: «C’erano tanti poderi, e chi poteva pagare l’affitto con i soldi li affittava per lavorarli, chi non riusciva a pagare l’affitto doveva andare a mezzadria, (metà raccolto al padrone, metà al fittavolo ndr). E la ‘mezzadria’ veniva portata in casa: un carico di granoturco, un carico di patate, tanto granoturco a chi lavorava e tanto al padrone, tante patate a chi lavorava e tante al padrone del terreno, e questo valeva anche per il fieno. E c’erano anche quelle che prendevano a mezzadria le mucche, e metà latte andava al padrone, metà a chi lavorava. E se nasceva un vitello, metà del vitello andava al padrone, anche se le mezzadre lo avevano cresciuto. Facevano così: quando lo avevano allevato lo vendevano, e prendevano metà soldi per ciascuno.
Inoltre le donne dovevano arrangiarsi a ‘far tutto’ anche in casa: la pulizia, occuparsi dei bambini, che allora erano molti, non come adesso che ce n’ è uno o due per casa. Quella volta ce n’erano anche tredici o quattordici per famiglia. Noi eravamo in quattordici. E mia madre e la mia matrigna hanno dovuto sempre fare quei mestieri lì: lavorare in montagna, falciare, portare il fieno a portata di slitta, fare i covoni del fieno e d’inverno andarlo a prendere. Perché era più facile portarlo a valle d’inverno con la neve. Si faceva meno fatica. Tutto con le slitte. Ma le donne lo portavano anche con il fascio in testa, nel fienile. E dopo il 1920 sono venute pure le teleferiche, non prima, ma non per farne un uso in agricoltura, cosa che ha preso piede solo pochi anni fa.
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Le prime teleferiche e donne portatrici.
Hanno messo una prima teleferica sul monte di Cuc, e l’ha posta Guerrino di Gleria, una seconda sul monte di Varleit, per la frazione di Misincinis. A Salino, invece, avevano una corda diciamo a sbalzo, con cui mandavano qua i fasci del fieno. Altrimenti le donne dovevano andare giù con il fascio del fieno fino al greto del fiume, e quindi fare un bel pezzo di strada per salire a Salino, Lambrugno e Tavella; e c’erano tre sentieri.
Queste povere donne dovevano alzarsi presto la mattina, fare i mestieri di casa, e poi andare in montagna, portando con sé anche i bambini perché non avevano a chi affidarli, perché non c’era asilo, non c’era niente, e non potevano affidarli a nessuno. E il più piccolo lo mettevano nel gerlo con un po’ di stracci dentro, e quando arrivavano sul prato da falciare, mettevano il gerlo sotto un albero, per paura degli animali, e lì il bambino si dondolava con tutto il gerlo. E quando era ora di mangiare piangeva, e allora la madre gli dava da mangiare.
Le donne non emigravano, almeno prima del 1920, stavano sempre a casa. Chi poteva andare a servizio andava a servizio, ma sempre in paese, non fuori. Potevano però anche andare ‘a giornata’ a fare il fieno od a lavorar nei campi per qualcuno, ‘per poco e per niente’, perché mi ricordo che le pagavano settanta centesimi al giorno, pochissimo. Poi, dato che c’erano molte malghe dalla parte di Paularo, c’erano donne che andavano a portare il cibo ai pastori, e camminavano cariche anche per tre ore di seguito, ma se andavano in Chiàula erano quattro ore di cammino. E salivano portando anche 35 chili, e scendevano anche con 45 – 50 chili di formaggio nel gerlo. Quelle prendevano 1 lira e 40 centesimi al giorno, perché il viaggio era doppio.
Poi hanno fatto la malga di Meledis. Mi ricordo che le donne dovevano prendere un sacco di cemento, che pesava 50 kg a Paularo e portarlo o a Meledis bassa o a Meledis di sopra, per una lira ogni sacco di cemento.
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Ragazzi e uomini: emigranti, boscaioli o artigiani.
I ragazzi si adattavano ad aiutare la madre, ed emigravano dopo i vent’anni, gran parte di loro dopo aver fatto il soldato. Prima frequentavano fino alla quinta elementare e poi alcuni, quelli che avevano una famiglia che poteva farlo, andavano ad imparare un mestiere, o altrimenti facevano i muratori, lavoro per il quale non serviva avere una qualifica, perché la si imparava dagli altri. Il muratore vecchio insegnava al più giovane, il boscaiolo più anziano insegnava a quello più giovane. I ragazzini iniziavano a 12 anni ad andare nel bosco, mentre i padri di questi ragazzi erano andati ad 11 anni in Germania con il genitore, e questo sempre prima del 1920. Dopo, finita la prima guerra mondiale, hanno aperto l’emigrazione per la Francia, e sono andati moltissimi in Francia, ma anche a Milano e Roma, in Sardegna a lavorare. Prima facevano invece gli stagionali. Gli emigranti in Germania dicevano che, come vitto, li trattavano molto bene. Vi erano poi boscaioli che emigravano in Bosnia, prima del 1915. Quando non c’era più lavoro qui nei boschi, andavano in Bosnia, o qui o là, dove lavoravano il legno.
Un tempo poi, a Paularo, c’erano molti artigiani, mentre ora ce ne sono davvero pochi. C’era una famiglia Del Negro, chiamata ‘Foraduç’ che lavorava il legno. Erano 5 o 6 fratelli, non ricordo bene, e facevano mobili, casse da morto, ed intagliavano anche il noce. Poi c’era uno mezzo nano, molto, molto intelligente, che faceva sempre il falegname. Quello ha fatto, assieme ai suoi allievi, tutta la mobilia, intagliata a mano, per il castello di Valdaier, il castello di Craighero. Erano questi artigiani molto intelligenti, ma non avevano i mezzi che hanno adesso e facevano tutto ‘di testa loro’. Poi c’erano i Gardelli che facevano mobili.
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Due righe su Dierico.
Dierico è stato il paese più difficile del comune, perché c’era tanta gente e molta miseria, anche se gli abitanti erano molto bravi a lavorare, ed erano molto onesti. Erano persone molto cattoliche, e non si sentiva mai una bestemmia, e nulla di nulla. Ci sono stati, fra loro, molti ufficiali, i Silverio, i Fabiani, i Dereani, anche se non posso ricordarmi i nomi di tutti. Ma io mi ricordo che è morto Tommaso Silverio, che era un generale, e suo fratello, che era un mutilato, era capitano degli alpini.
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Le latterie turnarie e la filiale della Cooperativa Carnica.
Poi a Paularo hanno fatto la latteria sociale turnaria. Era stata creata prima del 1920, ed il casaro era Giobatta Screm, un ottimo casaro. Poi però l’hanno sciolta e hanno creato tante piccole latterie: una a Ravinis, dove mi pare fosse casaro Benito Ferigo, una a Paularo, dove erano casari Gortani Leonardo e Michele, due fratelli, una a Villa Mezzo dove era casaro Leonardo Screm, e una a Villa fuori dove c’era Giacomo Spiz. Anche a Dierico avevano la latteria turnaria, e pure a Salino, Lambrugno, Tavella, Chiaulis e Trelli.
A Paularo, poi, c’era anche una filiale della Cooperativa di Tolmezzo, ma non faceva politica. La Cooperativa centrale era socialista, ma la filiale non aveva colore politico, che mi ricordi io. E anche gli artigiani del legno non erano collegati alla cooperativa, e facevano tutto da soli, ed erano: Ignazio Screm, Luigi Tarussio, Di Giorgio, che era un ottimo artista che è stato anche premiato. E c’erano a Paularo pure dei fabbri, che si arrangiavano da soli (cioè non erano uniti in cooperativa di lavoro ndr)».
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Scioperi nel 1919- 20 – 21. E venivano giù dalla valle di Gorto.
Laura chiede se sa qualcosa degli scioperi che fecero gli operai, dopo la creazione delle cooperative carniche.
Ho sentito dire che ci sono stati scioperi nel 1919 – 1920- 1921, ma non posso ricordarmi bene. So che sono scesi in massa quelli della valle di Gorto: Ovaro, Prato… Da tutte quelle zone lì è venuta giù una massa di scioperanti a Tolmezzo, ma non mi ricordo perché scioperassero. Ma era forse un problema di partito, perchè quelli della cooperativa erano prima socialisti ma poi sono passati coni fascisti».
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Tolmezzo. Il primo ospedale e le continue malattie.
Il primo ospedale era vicino al duomo, in una casetta di cui era padrone l’avvocato Burelli, che io sappia. Ma credo fosse stata acquistata dal dott. Metullio Cominotti. Poi era passata, sempre utilizzata come ospedaletto, al dott. Moro di Sutrio. Successivamente hanno fatto l’ospedale un po’ più ingiù, e lo gestiva il dott. Cecchetti, che ne era il direttore. Il personale non era pagato dal comune, e l’ospedale era un ente a sé che aveva però a che fare con la Prefettura, che io sappia. Le malattie erano molto frequenti, e la tubercolosi era in ogni angolo in Carnia, a causa delle sofferenze della guerra e della miseria, perché la gente non aveva niente neppure da mangiare, e c’era davvero molta, molta tubercolosi. E poi erano diffuse molte altre malattie anche infettive. Basti ricordare la ‘spagnola’ nel 1918.
La ‘spagnola’ anche in Carnia ha fatto disastri, specialmente nella valle di Incaroio, ed è morto un mucchio di gente, specialmente gioventù fra i 15 ed i 16 anni, non invece bambini, che io sappia, e colpiva le famiglie intere. Molti bambini, invece, morivano in nascita, anche perché non c’erano le levatrici diplomate, e le donne delle frazioni e del paese si arrangiavano a sgravare le incinte. E accadeva che morissero anche donne di infezioni da parto. Mia madre, per esempio, è morta con un’infezione da parto.
C’erano più casi di donne che morivano così ed anche di bimbi che morivano durante il parto. Dopo a Paularo è venuta una levatrice che era di Preone, e aveva studiato, e la mortalità è diminuita, mentre prima quella che accudiva a tale compito non aveva fatto né studi né niente, ed aveva imparato qualcosa dalla madre, che si chiamava mi pare Antonia, ed era una Bellina.
Un altro problema era quello del trasporto dei malati. La strada carrozzabile per Paularo è stata fatta prima del Novecento, ma non so la data precisa, ed altre strade non esistevano. In tempo di guerra (della prima guerra mondiale ndr) hanno fatto prima la strada da Paularo a Pizzûl, poi quella da Paularo al comune di Ligosullo, mentre prima erano tutte mulattiere, non carreggiabili, e andavano tutti a piedi. E se dovevano portar giù un ammalato lo portavano con la barella o con la slitta. Poi sono venuti i carri. Ma a Paularo, ad un certo punto, c’era anche la diligenza per Amaro, che andava e tornava.
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Tante piccole scuolette.
Nelle scuole c’erano pochissimi maestri. Che io mi ricordi, c’erano due maestre e due maestri nel centro, a Paularo. Ma anche Casaso, Misincinis, Quelalt, Ravinis, Cogliat, Rivo, Villamezzo, Villa fuori. I bimbi di Salino e Dierico, prima venivano a scuola a Paularo, come quelli di Trelli, ma poi hanno avuto anche loro la scuola nell’abitato. E non tutti facevano fino alla terza elementare».
Jacum in una foto giovanile, posta anche sulla tomba. Da Danielle Maion.
Giacomo infermiere e problemi di salute della popolazione.
Laura chiede che percorso abbia fatto per diventare infermiere.
Giacomo. «Io avevo fatto la quinta elementare, e quindi ho fatto due classi del corso inferiore a Tolmezzo. Se si aveva buona volontà si riusciva anche allora a fare molte cose, ma all’epoca non si era come adesso. Oggi qualsiasi può studiare, qualsiasi può diventare qualcuno ma quella volta nessuno ti diceva: fa questo mestiere o fa l’altro, impara questo o impara l‘altro; nessuno pensava a coltivare nello studio o nell’apprendimento di un mestiere questi giovanotti o queste ragazze, solo sfacchinare e lavorare nei campi, nei boschi, nelle montagne. Slitta e via ….»
Laura chiede se si trascuravano anche dal punto di vista della salute, e spesso andavano dal medico troppo tardi.
Giacomo: «Guardi, andavano dal medico quando non c’era più tempo, quando erano moribondi. Finchè potevano camminare camminavano, e quando non potevano più camminare chiamavano il medico, ma molti morivano anche senza riuscire a chiamarlo. Non voglio criticare il mio paese, per l’amor di Dio, ma al confronto di oggi erano tutti molto più inesperti e molto più trascuranti. Io mi ricordo che alcune famiglie trascuravano persino i figlioli, perché il padre o la madre non credevano che il figlio o la figlia fossero ammalati, e lasciavano passar via il tempo così, finchè i mali si impossessavano dei loro bimbi e ragazzi».
Laura chiede se magari potesse accadere che dessero poco da mangiare ai bimbi con la scusa che erano piccoli, ma Giacomo dice che non gli consta e che «Madre è madre, e padre è padre, e forse trattavano meglio il piccolo che il grande». Inoltre, continua Giacomo «Non si può dire che abbiamo veramente patito la fame, perché era raro che uno saltasse il pasto. E in più dico che chi saltava il pasto era anche negligente. Perché noi si andava a fare la fascina delle frasche, se ne portava cinque o sei al fornaio, per avere il pane. Allora si faceva il fuoco con la legna. Era una specie di baratto, si dava legna e si riceveva in cambio pane».
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Commercianti del legno e padroni di segherie e malghe a Paularo.
Giacomo: «A Paularo non c’erano grandi commercianti, se non quelli del legname, i Tarussio, i Brunetti, i De Crignis di Amaro, ma altre industrie non c’erano. C’erano, invece, le segherie. E andavano a tagliare i tronchi nei boschi, e li portavano a valle con il metodo della fluitazione. C’era il bacino di Stua Ramaz, che chiamavano “la Stua”. Nel mese di maggio preparavano tutto il legname a portata di fiume, lo buttavano nel bacino, lo aprivano, e l’acqua lo trascinava a valle, fino al porto delle segherie, dove si trovavano i carradori, che avevano i carri tirati dai cavalli o dai manzi, e che andavano fino a Stazione per la Carnia con il carico del tavolame. Nelle segherie, all’esterno, lavoravano anche donne, chiamate “le sfilere”. Esse portavano fuori dalla segheria il tavolame, e poi lo accatastavano benissimo, in modo che si asciugasse e rimanesse ‘a livello’. Doveva essere a livello, perché se una tavola era fuori livello diventava storta. Erano molto brave, ed in genere erano più donne sposate che ragazze, ed erano ambite dai padroni quelle che avevano più esperienza Dopo il 1920 erano gli uomini che lo facevano. Hanno fatto un ‘gater’, un macchinario per segare con più cilindri e più seghe, di tipo industriale, ed hanno preso a lavorare solo uomini.
Ed alcuni commercianti di legname avevano anche molti terreni, per esempio Tarussio.
Tarussio aveva molti poderi, ed era padrone di malghe, e prendeva molti braccianti agricoli, che chiamavamo “fameis”, a lavorare per sé. E lavoravano molto mentre erano pagati ben poco. Questi dovevano tenere le mucche, fare i lavori nelle stalle, falciare, fare il fieno. E Tarussio aveva moltissime mucche, credo una cinquantina e gestiva da solo le malghe di Cuesta Robia, mentre suo figlio gestiva quella di Timau, mi pare od un’altra.
Le bestie restavano in malga fino alla fine di ottobre e poi venivano fatte scendere e le portavano nelle stalle. Tarussio non aveva capre, ed era raro che la gente ne avesse. Ce n’erano prima della guerra, ma poi la forestale diceva che rovinavano i boschi e nessuno le ha potute più tenere. (Cfr. RDL 30.12.1923. Ndr.).
Un altro che aveva terreni era Screm, che aveva la bottega di generi coloniali, ed aveva 11 o 12 figli. Era uomo ottimo, comprensivo e molto intelligente, onesto e caritatevole, e faceva molti piaceri alla gente. Ed anche sua moglie era persona caritatevole ed aiutava i poveri. E Screm, che io sappia, ha comperato anche i terreni di quelli che andavano ad acquistare terra in Friuli. Ma spesso poi fallivano e ritornavano a Paularo più poveri di prima. E ciò accadeva perché il vero friulano era molto geloso della sua agricoltura, e certi contadini mi dicevano che si facevano i dispetti l’uno con l’altro. E poi uno che è friulano sa gestire, sa coltivare e sa lavorare la terra friulana, mentre noi carnici lavoriamo meglio di loro, però in Friuli non sappiamo come fare, non conosciamo che semi mettere, e via dicendo. E molte famiglie hanno dovuto rientrare a Paularo, nei primi anni venti, nel 22-23-24, nel periodo fascista».
Laura chiede se ciò fosse avvenuto a causa del fascismo.
Giacomo: «Guardi, a Paularo il fascismo non ha fatto proprio niente, e il podestà ha fatto più degli altri sindaci. E a Paularo non c’era municipio, non c’erano caserme, non c’era niente, ed in quel periodo hanno costruito con i soldi del comune, perché il fascismo non ha dato una lira. Ma poi il podestà ha dovuto dare le dimissioni perché era troppo onesto e non era ben visto dalla gente. Qui la mentalità era così, mentre altri sindaci si diceva avessero rubato le malghe intere, … ma non si può dir tutto».
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Sul taglio dei boschi comunali, e su un modo non proprio onesto di arricchirsi….
Io del conte Calice mi ricordo molto bene Era anche lui un uomo onesto, ed ha ereditato la sua fortuna un cugino di mia mamma, che era suo nipote. Il palazzo Calice ha 86 stanze. Ed anche suo nonno, Laura, è stato in quel palazzo, perché il cugino di mia mamma, Tita Valesio, era un capitano, ed anche suo nonno, Laura, era un ufficiale, e si sono conosciuti sul Pal Piccolo.
Quelli delle segherie tagliavano anche i boschi del comune. Un bosco veniva messo all’ asta, e chi pagava di più si aggiudicava il bosco dove tagliavano le piante numerate dal numeratore. Ma chi voleva imbrogliare poteva farlo lo stesso. Per esempio nelle numerazioni si mettevano d’accordo con un guardiano o con la forestale … e via. Io non ho avuto fiducia fino al 1925, della misurazione boschiva del comune. E chi partecipava all’asta erano sempre i soliti: Brunetti, Tamburlini, Tarussio e De Crignis.
Alido chiede se l’usura fosse praticata a Paularo, in particolare a famiglie che attendevano il rientro degli emigranti e si trovavano senza di che vivere. Giacomo dice di non sapere che ciò sia accaduto, però aggiunge che «raccontavano i vecchi, anche i miei di famiglia, mio nonno, mia nonna, mia bisnonna e via, che certi prestavano cento lire. Il debitore andava a portare, allo scadere del tempo, le cento lire, e si sentiva dire: “Vieni domani”, in modo che l’indomani era passato il tempo, e così si appropriavano del pezzetto di terreno del debitore. E così si arricchivano. Lasciavano passare la notte in modo che la cambiale andasse in protesto, e pignoravano il terreno. E così chi voleva tenersi la mucca doveva dipendere poi da loro, prendendo il terreno in affitto. Ed in particolare quelli di Villa Mezzo prendevano in affitto prati da Ligosullo, perché Ligosullo è un comune molto ricco di prati e di boschi, anzi, da quel punto di vista è il comune più ricco della Carnia. Ligosullo è un comune ben diretto ora, tra Partito democristiano e comunista, che non hanno mai avuto litigi fra loro per gli affari comunali. E anche la chiesa di Ligosullo ha molti poderi, molti lasciti.
Si moriva più giovani allora, anche per le fatiche, ma pure per risparmiare …
E il conte di Valdaier dava la gran parte dei suoi prati in affitto a quelli di Villa Mezzo, di Villa Fuori, che poi portavano giù il fieno con la slitta, facendo una grande fatica, cosicché tanti si ammalavano di cuore, e morivano molto più giovani di adesso, morivano a cinquant’ anni ed anche meno, per il lavoro e la miseria, e mangiar poco.
E poi c’è anche questo da dire: morivano perché volevano risparmiare troppo: condir poco la minestra, poco latte, molta acqua nel latte, polenta misurata, patate misurate, non tutte le famiglie facevano così, ma molte …
E poi a mangiar crauti e brovada ….».
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L’esperienza della guerra ‘15-‘18.
Alido chiede a Giacomo di raccontare la sua esperienza di infermiere, ma egli non vuole, dicendo che altrimenti diventerebbe un romanzo. Invece vuole raccontare qualcosa sulla guerra 15-18.
Giacomo: «Durante la guerra anche i bambini di terza, quarta, quinta elementare erano obbligati ad andare a tirar su i cannoni con la corda, e sono stato anch’io. E il caposquadra era Giobatta Plozzer di Sauris, un parente di suo nonno, Laura. Poi Giobatta Plozzer è andato soldato, ed è rientrato ammalato, ed è andato a morire a Sappada presso un suo zio che era prete lassù.
E tutti andavano a portare i cannoni: bambini, uomini; tutti a tirare i cannoni! Si facevano cento, duecento metri al giorno! E dove c’era un po’ di piano il cannone andava avanti, ma dove era da tirarlo insù, procedeva solo centimetri, perché era mulattiera! E lo si tirava da un ruscello ad un altro ruscello, ad una collina all’altra, e via, po’, fino allo Zermula !!!! Lo si tirava da Paularo a Misincinis, e da Misincinis a Ravinis, fino a Tamai.
Poi c’erano i cannoni a Prabon, però quelli li hanno messi dopo fatta la strada nuova, che era stata costruita dal battaglion Saluzzo. Fino al 28 ottobre del 1917, gli uomini che non erano in guerra, anziani e gioventù nata dal 1900 in poi, (perché gli altri erano tutti sotto le armi, anche i nati nel 1899), e le donne ed i bambini più grandicelli. facevano questo trasporto di cannoni. E non solo. Si doveva prendere un carico di cibo e portarlo con la gerla fin su, sullo Zermula, al fronte, per due lire e cinquanta centesimi. E si doveva andar su di notte, per non essere visti. E si dovevano portar su al fronte anche tavole, perché potessero fare le baracche, e rotoli di reticolato. E qualcuno pesava di meno, ma gli altri erano tutti, su per giù, di cinquanta chili. E si doveva portar su le granate, e portar tutto. Poi hanno costruito una strada, detta la Cinturia, dal nome della milizia territoriale, e i vecchi ed i richiamati li facevano lavorare sulla strada, con i borghesi.
Infine la ritirata, che ha fatto un danno terribile. E alcuni sono andati profughi, ma erano davvero pochissimi, forse quelli di Salino erano andati via, ma quelli delle altre frazioni no.
E c’era tanta miseria, perché i tedeschi avevano portato via le mucche, e saccheggiavano tutto, proprio tutto, ed anche se non hanno mai ucciso, ci sono stati dei problemi. Per esempio qualche ufficiale era scappato dalla prigionia, come Giacomo Tarussio dal campo di Mauthausen, ed era bersagliato, ed ha dovuto stare, dal mese di maggio quando è giunto in zona, sempre nascosto sulle montagne, come molti altri prigionieri transfughi.
Non erano tanto “i crucchi” a dar fastidio in tal senso, secondo me, ma ci dovevano essere due o tre che facevano la spia, e di ciò sono sicurissimo, anche se non farò mai i loro nomi. Infatti mi ricordo benissimo che gli austriaci avevano requisito le mucche, e da Cedarchis le portavano a Paularo, e da Paularo a Paluzza, ed io ed altri ragazzi, con l’aiuto di un prete, abbiamo pensato di rubarne qualcuna ed ucciderla per mangiarla. C’era una strada che andava in un ruscello, e lì si portava via la bestia. E l’abbiamo fatta franca diverse volte, e il prete portava la carne in canonica e la distribuiva ai poveri, ai più bisognosi, ai malati.
Beh, chi andava giù per il ruscello con il carico della carne eravamo io ed un altro uomo, di cui non mi ricordo il nome, che in paese chiamavano ‘Bonan’ ma era un Valesio. Ed una volta abbiamo voluto passare per la strada, e non abbiamo visto il ‘tedesco’, non abbiamo visto il cosacco, perché c’erano anche prigionieri russi a Paularo nella prima guerra mondiale, e abbiamo visto solo un uomo…E non eravamo neppure arrivati vicino alla canonica, che ci ha arrestato un tedesco. Quindi credo che l’uomo sia partito appena ci ha visti, abbia preso la scorciatoia, e sia arrivato prima di noi … E così siamo stati arrestati. Io ho fatto 18 giorni di galera qui a Tolmezzo ……»
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Ho salvato molta gente ed ho fatto carità, ma non amo mettermi in mostra.
Laura vorrebbe che parlasse della sua esperienza di infermiere, ma egli risponde: «No, guardi, no. La mia esperienza di infermiere l’ho fatta generosamente, e non voglio farmi pubblicità. Inoltre parlare del mio lavoro è una cosa molto delicata, per conto mio, perché se io ho fatto del bene, io non l’ho fatto per ambizione di denaro. Io non prego tanto, ma se posso fare la carità cristiana, quella l’ho sempre fatta. E questo è stato sempre il mio desiderio: quello di fare la carità. E l’ho fatta verso ammalati e l’ho fatta anche verso sani, e vi dico che ho salvato molta gente, anche magari non sapendolo. E specialmente in tempo di guerra, (della seconda guerra mondiale ndr) li ho tolti dalle braccia dei tedeschi, dalle braccia dei partigiani e li ho salvati.
E quando sono stati presi tutti quelli di Paularo, donne e uomini, per rappresaglia perché dicevano che erano partigiani, il 10 giugno 1944, io ho fatto molto.
Sa dove è la roggia di via Chiamue, a Tolmezzo? Beh, io ero dentro la roggia, e le donne si buttavano giù dalla finestra che era alta 8 metri. Chi riusciva a salvarsi bon, ed altrimenti finivano nell’acqua, ma nessuna è morta. Una sola si è rotta un braccio, che poi è andata monaca. E avevo messo via un po’ di soldi, ed ho comprato quello ed ho comperato l’altro, e ho dato, e poco mi è rimasto ma non importa.
Io sono rimasto nell’ oscuro, non ho voluto proclami, non ho voluto niente. Io li facevo uscire dalla caserma degli alpini, dalla Cantore dalla porta, e li ho salvati, e non è un vanto il mio».
Laura Matelda Puppini.
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Prima parte dell’intervista di Laura Matelda Puppini a Giacomo Solero di Paularo, detto Jacum l’infermîr, nato nel 1902. Tolmezzo, 7 luglio 1978. Trascrizione di Laura Matelda Puppini. L’immagine che correda l’articolo è stata scattata da me negli anni ottanta, e mostra l’interno di una malga in Carnia, sulle pesarine, lungo il sentiero che porta a Sauris. L’ ho scelta perchè rappresenta la vita di un tempo, anche se gli abiti tradiscono tempi più recenti di quelli descritti da Giacomo Solero. Avrei voluto corredare questo scritto con una foto di Giacomo, ma non ne posseggo, Sapete chi potrebbe inviarmene una? Laura Matelda Puppini
https://www.nonsolocarnia.info/storie-paularine-e-carniche-da-giacomo-solero-detto-jacum-linfermir/https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2018/02/MALGA-Immagine1.png?fit=862%2C593&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2018/02/MALGA-Immagine1.png?resize=150%2C150&ssl=1ECONOMIA, SERVIZI, SANITÀSTORIANegli anni settanta, ottanta ho fatto, quasi sempre accompagnata da mio marito, il dott. Alido Candido, originario di Rigolato, una serie di interviste a vari personaggi, di cui uno era l’allora universalmente noto Jacum l’infermîr, originario di Paularo, una colonna dell’ospedale tolmezzino. La pubblico in due parti, perché è...Laura Matelda PuppiniLaura Matelda Puppinilauramatelda@libero.itAdministratorLaura Matelda Puppini, è nata ad Udine il 23 agosto 1951. Dopo aver frequentato il liceo scientifico statale a Tolmezzo, ove anche ora risiede, si è laureata, nel 1975, in filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trieste con 110/110 e quindi ha acquisito, come privatista, la maturità magistrale. E’ coautrice di "AA.VV. La Carnia di Antonelli, Centro Editoriale Friulano, 1980", ed autrice di "Carnia: Analisi di alcuni aspetti demografici negli ultimi anni, in: La Carnia, quaderno di pianificazione urbanistica ed architettonica del territorio alpino, Del Bianco 1975", di "Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906- 1938, Gli Ultimi, 1988", ha curato l’archivio Vittorio Molinari pubblicando" Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne culture, 2007", ha curato "Romano Marchetti, Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, ed. ifsml, Kappa vu, ed, 2013" e pubblicato: “Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo… Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo Carnia, ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi Carnia, 1944-1945, in Storia Contemporanea in Friuli, n.44, 2014". E' pure autrice di "O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra”", prima ed. online 2014, edizione cartacea riveduta, A. Moro ed., 2016. Inoltre ha scritto e pubblicato, assieme al fratello Marco, alcuni articoli sempre di argomento storico, ed altri da sola per il periodico Nort. Durante la sua esperienza lavorativa, si è interessata, come psicopedagogista, di problemi legati alla didattica nella scuola dell’infanzia e primaria, e ha svolto, pure, attività di promozione della lettura, e di divulgazione di argomenti di carattere storico presso l’isis F. Solari di Tolmezzo. Ha operato come educatrice presso il Villaggio del Fanciullo di Opicina (Ts) ed in ambito culturale come membro del gruppo “Gli Ultimi”. Ha studiato storia e metodologia della ricerca storica avendo come docenti: Paolo Cammarosano, Giovanni Miccoli, Teodoro Sala.Non solo Carnia
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