NON SO NULLA DI SAN CANZIANO, E COSÌ DECIDO DI ANDARE AD UN INCONTRO CHE SI PROSPETTA INTERESSANTE …

È un pomeriggio qualsiasi di un giovedì qualsiasi. Sto guardando distrattamente, lo confesso, gli avvisi di invito ad alcuni incontri culturali sulla posta elettronica. Improvvisamente mi fermo ad uno che informa che il 5 ottobre 2019 si terrà, a San Canzian d’Isonzo, una giornata di studi intitolata “In vico Sanctorum Cancianorum” organizzato dalla Società Friulana di Archeologia assieme al comune del paese ed alla parrocchia. E la prima cosa che mi balza agli occhi è che parlerà Paolo Cammarosano, quello da cui ho imparato le basi per la ricerca storica in epoca medievale, che a livello metodologico non distano molto da quelle per l’approccio alla storia contemporanea, solo che questa è piena di memoriali, interpretazioni, racconti orali, articoli spesso in politichese e via dicendo, che districarsi fra loro, i possibili falsi, i falsari ed i contesti ad uso e consumo diventa uno slalom, ed è da ringraziare l’Onnipotente che nel Medioevo non avessero ancora inventato i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa.

Non conosco nulla dei Santi Canziani, anzi, per la precisione non so nemmeno dove si trovi San Canzian d’Isonzo in modo preciso, e, dopo aver deciso di recarmi alla giornata di Studi a cui è interessato anche mio marito, decidiamo di cercare, per prima cosa, dove ci dovremo recare.
Così il 5 ottobre, alle 9 del mattino, siamo alla sala parrocchiale, con non molti altri, anche meno del previsto, credo, ma per la stessa giornata è stato programmato il convegno per i 100 anni della Società Filologica Friulana, a cui il Messaggero Veneto ha già dedicato più di una riga. Ho in mano il registratore, ma il suo uso è condizionato al fatto che mi serva del materiale solo per un articolo perché gli interventi in quella giornata di studio saranno pubblicati, ed acconsento. Infatti non sono in alcun modo interessata a riportare tutto, perché sono già lunga di mio anche solo per un breve testo, e ho un sito/blog.

Locandina di presentazione della giornata di studi a San Canzian d’Isonzo.

SU QUEL CULTO DI SAN CANZIANO O DEI SANTI CANZIANI COSÌ DIFFUSO IN ZONA FRIULANA E GIULIANA, IN PAESI ORA SITI NELLA REPUBBLICA SLOVENA ED IN ALTRI LUOGHI.

In premessa bisogna dire che l’incontro è incentrato su un documento datato 17 febbraio 819, ma bisogna anche precisare che, allora, la situazione politica era ben diversa dalla attuale, per cui pensare il territorio con i confini come definiti ora è compiere un grosso errore. Perché scrivo questo?
Perché San Canzian d’Isonzo non è l’unico luogo ove si trovi il culto di San Canziano o più correttamente dei Santi Canziani: Canziano Canzio e Canzianilla, perché esso era ed è molto diffuso in paesi di lingua materna slava, e lo stesso San Canzian d’Isonzo è gemellato con un altro San Canzian: “St. Kanzian am Klopeiner See”, che si trova in Carinzia. Ma vi è anche il villaggio di Škocjan, in Slovenia, vicino alle grotte di San Canziano, dove esisteva una antica fortificazione. E «Nell’epoca romana in questo posto fu costruito un forte; nel Medioevo, invece, esisteva già un villaggio fortificato adiacente alla chiesa dedicata a san Canziano, protettore contro gli spiriti maligni, il maltempo e le alluvioni. Le zone erano possesso dei conti Petazzi dal vicino castello Švarcnek […] mentre sulla rupe sovrastante la stretta vallata del fiume, i conti Rossetti avevano una base nel maniero Scoglio». (http://www.elamit.net/depot/skocjan/). “Škocjan ([… ] in italiano San Canziano, è un piccolo villaggio sito nel Litorale Sloveno in comune di Divača, e posto nelle vicinanze delle grotte di San Canziano, che da esso prendono il nome. La chiesa del piccolo paese è dedicata a San Canziano” si legge su: https://en.wikipedia.org/wiki/Škocjan,_Divača.

E mi pare anche interessante far notare come detto villaggio si chiami solo San Canziano, mentre quello nel goriziano si chiama San Canzian d’Isonzo. Bisognerebbe sapere da quanto tempo il paese si chiami così perchè prima sappiamo che si chiamava Aquas Gradatas.  

Inoltre si sa che sopra Mezzana e Vernassino, ora in comune di San Pietro al Natisone, vi è una chiesetta, dedicata a ‘Svet Kocjàn’, cioè a San Canziano, presumibilmente eretta nel 1400 e dipendente, sin dalla sua origine, dalla parrocchiale di Vernassino dedicata ai Santi Primo e Feliciano. Ma San Canziano è anche il compatrono del paese. (http://www.lintver.it/storia-vicendestoriche-sancanziano.html). E detta chiesetta sorge sul monte di San Canziano. (Ivi).

La storia dei i Santi Canziano, Canzio e Canzianilla è riportata su più fonti e così riassunta sulla fonte appena citata: «I tre martiri, che la tradi­zione vuole fratelli, caddero sotto Diocleziano agli inizi del sec. IV. La loro «historia» è riferita da Massimo di Torino (sec. V). Furono sepolti ad Aquas Gradatas che corrisponde all’odierna S. Canzian d’Isonzo […]. La venerazione è attestata anche […]  da Venanzio Fortunato (fine sec. VI)». (Ivi).
Il culto di San Canziano e dei Santi Canziani «era diffuso nell’Italia set­tentrionale (Milano), in Francia e in Germania (ma soprattutto sul territorio che un tempo era soggetto al patriarcato di Aquileja e in modo par­ticolare nella attuale Slovenia dove esistono numerose loca­lità denominate Kocjàn, Svet Kocjàn in Skocjàn)» (Ivi). Ma vi è anche a Padova una famosa chiesa di San Canziano, di epoca medioevale, che venne pure lesionata dal terremoto del 1117, e quindi costruita antecedentemente, ove si ricordano i martiri Canziano Canzio e Canzianilla assieme a Proto (http://www.padovanet.it/informazione/chiesa-di-san-canziano) ed a quest’ ultimo è dedicata pure una chiesetta a San Canzian d’Isonzo. Ma attenzione perché esistono anche i Santi Proto e Giacinto martiri a Roma (http://www.santiebeati.it/dettaglio/69800). E come dimenticare le grotte di San Canziano, ora al di là del confine?  Comunque in: https://it.wikipedia.org/wiki/Canzio,_Canziano_e_Canzianilla, si trova l’elenco delle chiese dedicate ai Santi Canziani, di origine romana e non aquileiese, ma giunti ad Aquileia, ove la loro famiglia aveva possedimenti, in fuga da Roma, e talvolta venerati assieme a San Proto, attualmente site in Croazia, Austria, Italia, Slovenia, dove il culto di San Canziano pare molto diffuso.

Non solo: sempre da http://www.lintver.it/storia-vicendestoriche-sancanziano.html veniamo a sapere che la devozione a San Canziano / svét Kocjàn, aveva favorito la nascita del cogno­me sloveno Coceànig anche Kocjànič o Kočjanič (= il figlio di Canziano), un cognome che si trova sia a Vernassino che a Cepletischis, Pechinie, Sorzento e nella pianura friulana. Nella parte orientale del Friuli, poi, dove la devozione al santo era ed è più viva e più sentita, è presente pure il patronimico: Cocean, Coceani,  Coceano, di analoga derivazione.  (Ivi).

Ed a questo punto, secondo me sarebbe interessante indagare pure, ammesso non sia già stato fatto, sulla diffusione del culto di San Canziano o dei Santi Canziani, e se esso fu per così dire sponsorizzato da qualcuno, per esempio da uno o più Metropoliti di Aquileia o da qualche Imperatore, se ebbe un centro da cui si irradiò, e se detta diffusione avvenne in un periodo dato o per tappe successive. Ma sulla stessa fonte si legge pure che nelle valli del Natisone la prima intitolazione delle chiese fu, come spesso accadde, a S. Lorenzo, S. Michele, S. Martino, S. Giovanni Battista, S. Pietro e S. Andrea, e solo successivamente si trovano intitolazioni a S. Bartolomeo, S. Giacomo, S. Canziano, S. Maria Mad­dalena, S. Antonio Abate, S. Daniele e S. Leonardo.  Un altro problema per me è perché si parli solo di San Canziano, per poi ricordare pure Canzio e Canzianilla, ammesso che vengano venerati tutti e tre ovunque.

Capsella ovale d’argento del V secolo, destinata a custodire le reliquie dei santi Canziani (Grado, Tesoro della basilica di S. Eufemia). Da: http://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/canziani/

MONASTERO MAGGIORE E DI SANTA MARIA IN VALLE A FORUM JULII SONO LA STESSA COSA? PARE PROPRIO DI SÌ.

Sempre da: http://www.lintver.it/storia-vicendestoriche-sancanziano.html, si viene a sapere che la chiesa principale di Vernassino doveva poi pagare «”ogni anno alle monache del monasterio Maggiore (di Civi­dale) for(men)to stari 3, soldi L. 6, galline n° 3, un polastro et una grauernata così detta in nostra lingua fatta di latti, coa­gulati”, dato che il Monastero di S. Maria in Valle vantava dei diritti su alcuni terreni piantati a vite». E a chi scrive appare chiaro che il Monastero Maggiore e quello di Santa Maria in Valle sono la stessa cosa. Peccato che non si conosca l’anno di riferimento per detto censo, a meno che non sia sempre il 1601 precedentemente citato.

Il Monastero Maggiore benedettino femminile, sito in Cividale, era stato creato nell’Ottavo secolo d.C., e si riteneva fosse il “Monastero della Regina”. E «Nell’ambito degli stessi possedimenti del re, (longobardo? ndr) si colloca l’origine del Monastero […] che venne probabilmente creato nella tarda epoca longobarda e che appare ricordato per la prima volta nelle fonti scritte nell’830 in un diploma di Lotario e Lodovico con cui gli imperatori carolingi concedevano al Patriarca di Aquileia la giurisdizione del monastero femminile benedettino di Santa Maria, situato entro le mura cittadine e confinante con la chiesa di San Giovanni, non compresa a quel tempo nella donazione».  Inoltre si sa che detto Monastero di Santa Maria in Valle rimase per lungo tempo tra i beni concessi dall’impero al Patriarca di Aquileia, come attesta un diploma di Ottone III del 986, dove il cenobio compare sempre tra i possedimenti del patriarcato. (http://www.monasterodisantamariainvalle.it/_it/monastero).  Ed «In epoca medievale la rilevanza del monastero nel panorama delle istituzioni ecclesiastiche fu tale da divenire sempre più oggetto di privilegi e donazioni che contribuirono ad accrescerne il potere ed il prestigio». (Ivi). Ora si dice che la prima citazione del Monastero Maggiore Cividalese è quella sul diploma dell’830, ma può darsi sia solo la più antica sinora a noi nota.

Non da ultimo, prendendo da queste fonti non scientifiche, si viene a sapere che il Monastero femminile di Santa Maria in Cividale era detto “Monasterio Maggiore”, il che poteva significare, molto probabilmente, che era un grande monastero, ma anche che ne esisteva uno minore allo stesso collegato, ma non vi è riscontro a meno che non si tratti di quello dedicato a San Giorgio anch’ esso femminile, e una via, vicino al “ponte del diavolo”, si chiama anche ora “Via Monastero Maggiore”e conduce a Santa Maria in Valle.  Comunque a me pare, senza fare ulteriori approfondimenti, che il “Monastero Maggiore” e quello chiamato “Santa Maria in Valle” siano la stessa cosa, come del resto pensano i soci di Lintver. (http://www.lintver.it/storia-vicendestoriche-sancanziano.html).

Le teche rettangolari sull’altar maggiore della parrocchiale di San Canzian d’Isonzo dove sono stati posti i resti ritrovati nella basilica paleocristiana ed attribuiti, da alcuni, a quelli di San  Canziano, San Canzio e Santa Canzianilla. Da: https://www.parrocchiagradisca.it/site/index.php?area=4&subarea=1&formato=scheda&id=1053&titolo_pagina=La-Passio-dei-Santi-Canziani&k_tema=eventi.

LA POLITICA DI LUDOVICO IL PIO DI CONTROLLO SUI MONASTERI OBBLIGANDOLI TUTTI AD UNA REGOLA BENEDETTINA NUOVA.

Non si deve dimenticare che Ludovico il Pio Imperatore perseguiva la politica del padre atta a mantenere il potere temporale grazie ad un ferreo accordo con la chiesa, tale da comportare una religione “di stato” e la lotta a qualsiasi fosse apparso eretico od infedele.
Inoltre, dato che esistevano sia i monasteri che seguivano la regola benedettina, sia i monasteri che seguivano la regola irlandese colombaniana, meno legata alle tradizioni dell’Occidente latino, poi già trasformatasi in mista colombaniana/benedettina, Ludovico detto il Pio decretò, ai fini di un ferreo controllo del settore monastico in ogni suo aspetto, di imporre ai  Monasteri del suo Impero una nuova regola di San Benedetto stesa da Benedetto d’Aniane. (Paolo Cammarosano, Il precetto di Ludovico il Pio del 17 febbraio 819, intervento a San Canzian d’Isonzo, 5 ottobre 2019; https://it.wikipedia.org/wiki/Alto_Medioevo; https://it.wikipedia.org/wiki/Ludovico_il_Pio). Allora i cistercensi non esistevano ancora. Infatti la nascita del loro ordine data 1098; è successiva a Ludovico il Pio e fu voluta anche da monaci benedettini desiderosi di ritornare alla stretta osservanza della regola dettata da San Benedetto, che prevedeva oltre la preghiera il lavoro manuale, e una vita nel segno dell’austerità. (https://it.wikipedia.org/wiki/Ordine_cistercense).

Pertanto sotto Ludovico il Pio, ove tutto doveva seguire i dettami imperiali, credo proprio che non potessero esistere Monasteri non benedettini, come ipotizzava qualcuno nell’incontro del 5 ottobre 2019, mai citati in documenti ed elenchi, e Ludovico il Pio non si sarebbe mai sognato di fare la concessione di un bene a un gruppo di monaci non intruppati ed inquadrati. Inoltre in epoca carolingia esistevano anche abbazie imperiali, che dipendevano solo dall’Imperatore, tanto per rendere a tutti chiaro che Stato e potere ecclesiale erano saldamente uniti da un patto d’acciaio. Esse potevano avere un territorio da loro dipendente, ed erano guidate da un abate o da una badessa imperiali, mentre le più grandi, come quella di San Gallo in Svizzera, avevano il ruolo di principati ecclesiastici ed erano guidate da un principe abate o da un principe prevosto. (https://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_imperiale).

SU DI UN DIPLOMA DI LUDOVICO IL PIO, DATATO 17 FEBBRAIO 819 ED UN MONASTERO IN TERRITORIO CIVIDALESE.

Ma, fatta questa premessa, ritorno alla giornata di studi che ho citato all’inizio.
Dopo i saluti ed interventi di rito, ha preso la parola Paolo Cammarosano, per anni apprezzato docente di Storia Medioevale all’Università di Trieste, ed ancor oggi insegnante di paleografia diplomatica presso l’Archivio di Stato di Trieste. Egli si è soffermato sul diploma che ho già citato in questo articolo, datato 17 febbraio 819, che tratta, secondo me, della cessione al Monastero di Santa Maria, sito in territorio cividalese e costruito in onore dei Santi Canziani, di un villaggio dei Santi Canziani stessi, che pare l’oggetto della concessione al Monastero, nel contesto di una serie di largizioni fatte da Ludovico il Pio.

Inoltre, sempre per quanto riguarda il diploma del 17 febbraio 819 che ci interessa, secondo Paolo Cammarosano l’originale è andato perduto e così quello che conosciamo è una «copia tardiva quattrocentesca o cinquecentesca. Ed uno che abbia un po’ studiato la materia capisce subito che questa non è una scrittura del IX° secolo, si vede che è una scrittura moderna, molto nitida, molto chiara». (Paolo Cammarosano, cit.). Quindi, non esistendo più l’originale, si potrebbe ipotizzare che la copia possa aver subito qualche problema di trascrizione, come accaduto per esempio, nel caso di uno scritto su Ermanno di Luincis, poi diventato, nella copia per mano di Giovanni Battista Lupieri, Ermanno di Luint. Inoltre non sappiamo chi abbia portato a termine la copiatura del documento, in che stato egli avesse trovato l’originale e quando esattamente e dove la trascrizione ebbe luogo.

Il prof. Cammarosano, poi, ci ha detto che i diplomi sono documenti relativi «ad un trasferimento di un bene fisico o di un diritto, un censo, una rendita, un diritto pubblico, alla riscossione di una tassa, all’autorità a batter moneta, e altre cose del genere» (Paolo Cammarosano, cit.). E «l’oggetto del trasferimento può essere molto vario: può essere un campicello, un campo grande, una corte, un castello, una mucca» (Ibid.).  L’autore di un diploma, cioè chi promuove l’atto, «può essere una autorità pubblica: può essere l’imperatore, come nel nostro caso, oppure un arcivescovo, un vescovo, un conte, ma può essere anche una privata persona». (Ibid.). E sotto il termine “diploma” viene posta una immensa varietà di documenti. «Infatti i diplomi, in questa accezione generica ma corretta che vi ho detto, compongono una classe che contiene milioni di documenti medievali […].» (Ibid).

Ma per ritornare al diploma in esame, esso è datato «13 giorni prima delle calende di marzo, sesto anno dell’Impero del Signore Ludovico, piissimo augusto, indizione 13a», per noi tradotto in: 17 febbraio 819; ed era stato redatto nella reggia di Aquisgrana, luogo di residenza dell’Imperatore figlio di Carlo Magno; era composto, come tutti i diplomi, sia quelli relativi alla vendita di una pecora, sia quello imperiale che riguardava la cessione del potere politico sul Patriarcato di Aquileia, da un ‘protocollo’ e da un ‘testo’, come allora si usava. (Paolo Cammarosano, cit.).
Esso fa parte di una serie di diplomi siglati da Ludovico il Pio, ben 417, di cui questo è il 145esimo. Però, ci ha detto il prof. Cammarosano, non tutti i diplomi rinvenuti sono ritenuti originali, ma ci sono anche dei falsi, un quarto di quelli di Ludovico il Pio è ritenuto tale, ma ben il 50% di quelli di Carlo Magno non sono suoi. (Idib.).
Questo è sempre stato considerato, secondo Cammarosano, un documento originale ma però non è l’originale e pertanto, dico io, non sappiamo se è documento correttamente trascritto. Ma anche «il documento del 1077 con cui l’imperatore Enrico IV fece come regalo al Patriarca di Aquileia la giurisdizione sul territorio del Friuli, sull’Istria e su altri territori, è copia. Anche questo documento importantissimo, del 1077 anno di nascita del Patriarcato di Aquileia, ci è giunto in una copia molto tardiva, ma nessuno ha mai dubitato che si tratti di un documento originale». (Ibid.). Ma «è tipico che la copia uccida l’originale, almeno molto spesso» – ricorda il docente universitario di storia medievale. (Ibid.).

Copia del XV, XVI secolo del diploma di Ludovico il Pio, Imperatore, datato 17 febbraio 819, conservata presso l’Archivio di Stato di Venezia. (Dalla locandina di presentazione della giornata di studi “In vico Sanctorum Cantianorum, San Canzian d’ Isonzo, 5 ottobre 2019.

Inoltre il professor Cammarosano ci ha detto che, normalmente, allora, una donazione pubblica ad un Monastero veniva ricevuta dall’Abate del Monastero, mentre in questo caso della presenza dell’Abate non vi è traccia. (Paolo Cammarosano, cit.).  Ma, per inciso, si sarebbe potuto trattare di una badessa, anche se gli esperti riconoscono il Monastero citato come maschile. Ma forse per un abate od una badessa il viaggio da un Monastero posto nel nord est della penisola italica, per portarsi ad Aquisgrana il 17 febbraio 819, si presentava lungo e difficile, d’inverno e con i monti pieni di neve, ed uno spostamento del genere avrebbe privato della sua guida non solo spirituale il Monastero per un lungo periodo, il che non era cosa di poco conto. Inoltre si era già presentato come intermediario il metropolita di Aquileia Massenzio, e forse questo bastava, essendo ben più potente di un abate o badessa. Ed a questo punto permettetemi questa considerazione: spesso quando si studia sia la storia antica che quella contemporanea resistenziale, ci si dimentica di alcuni aspetti legati alle stagioni ed alla viabilità.

Per quanto riguarda chi riceve la concessione e l’oggetto della stessa, le frasi di riferimento nel documento sono, a mio avviso, le seguenti: la donazione è fatta «Ad monasterium Sancte Mariae, quod est situm in territorio Foroiuliensi, constructum in honorem sanctorum Cantianorum» e il dono potrebbe consistere nel «vico Sanctorum Cantianorum», che era stato di Ardulfo figlio di Erico e dei suoi discendenti. Ma avendo ritenuto Ludovico il Pio Ardulfo infedele, aveva fatto passare sotto la propria giurisdizione i suoi beni, in sintesi li aveva confiscati e li stava dando in concessione ad altri, affinchè i beneficiari ne potessero trarre profitto subito ed in futuro.
E l’imperatore aveva concesso detto ‘vico’ dei Santi Canziani, «con le sue case, i suoi edifici, le sue proprietà, le terre, le vigne, i prati, i pascoli, l’acqua ed i corsi d’acqua, le cose mobili ed immobili, il colto e l’incolto e quanto si vede essere in possesso, per diritto, di detto luogo» (Diploma di Ludovico il Pio, datato 17 febbraio 819, in: AA.VV. “Monumenta Germaniae Historica – Diplomata karolinorum”, Impensis Harraassowitz Wisibsdae, 2016, pp. 373-374, traduzione di Laura Matelda Puppini).  E se non fosse così non si capisce il perché di questa minuziosa specifica.

Potrebbe trattarsi, quindi, forse e secondo me, della concessione del villaggio dei Santi Canziani al Monastero maggiore o di Santa Maria in valle cividalese, benedettino e femminile. Infatti il Monastero citato è quello di Santa Maria, che si trova nel territorio cividalese, e che forse fu costruito in onore dei Santi Canziani, anche se questo dato non è noto. Questa però è una ipotesi mia, buttata là, mentre più esperti di me, parlano di un monastero maschile dedicato a Santa Maria, sito in San Canzian d’Isonzo. E così dice il prof. Cammarosano: «Di questi beni donati al Monastero di San Canziano noi non sappiamo niente, ma soprattutto non sappiamo niente di cosa è stato di questo Monastero […]». (Paolo Cammarosano, cit.). Ma poi ha aggiunto che certamente gli archeologi potranno venire in aiuto. E potrebbe essere così, ma forse neppure gli archeologi, penso io in base a quanto ascoltato poi negli altri interventi, potranno risolvere il problema, anche perché spesso pietre e elementi di costruzioni furono riutilizzati, scomparendo agli occhi venendo inseriti in altre realtà architettoniche, o furono limati da costruzioni più recenti, togliendo i contesti, tanto da lasciare di ciò che era stato solo una flebile traccia: un muro, i resti di un incendio, qualche oggetto, qualche pezzo di vetro. Inoltre per ora gli archeologi, da che si legge ed ho sentito all’incontro, non hanno trovato traccia alcuna di un monastero in territorio di San Canzian d’Isonzo.

Ma è anche vero che la storia antica spesso deficia di fonti sia archeologiche che scritte per vari motivi, in particolare per l’azione del tempo e degli uomini. Può darsi che in Friuli alcuni documenti originali anche in latino siano stati consegnati da parroci ed addetti a volonterosi perché li traducessero e li rendessero comprensibili, e che poi siano andati persi magari per morte del soggetto a cui erano stati dati, come accadde quando morì Giovanni Gortani;  che altri siano finiti, come il quaderno dei camerari della chiesa di San Martino di Tolmezzo, sul florido mercato illegale che non è solo di opere d’arte; che altri ancora siano stati buttati via magari perché deteriorati o da persone che non ne capivano il valore, o siano andati distrutti a causa di terremoti, inondazioni , nubifragi, incendi e guerre. Pensate solo che per un banale cortocircuito è andato perduto l’intero archivio della “telleria” di Jacopo Linussio.

Ritratto di Ludovico il Pio nelle vesti di miles Christi, in un codice contemporaneo dell’826 (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Codex Reg. lat 124, f.4v.) Da: https://it.wikipedia.org/wiki/Ludovico_il_Pio

Inoltre San Canziano d’Isonzo, dal punto di vista delle decime che pagava, era sede di una chiesa pievana – come ci ricorda sempre Cammarosano – ma non si parla in detto contesto di un Monastero a San Canziano d’Isonzo. Potrebbe darsi che non si parlasse dello stesso forse perché non è mai esistito, e trattasi qui, invece dell’altro Monastero, di quello “Maggiore” benedettino cividalese.  Perché a mio avviso, se vi fosse stato un Monastero dedicato a Santa Maria locato in San Canzian d’Isonzo che però, allora, avrebbe dovuto essere in qualche modo sotto Cividale, ma in ogni caso non poteva trovarsi entro la ‘terra’ di Forum Julii, a cui Ludovico il Pio aveva fatto una concessione, era sicuramente un Monastero Benedettino di una certa entità, ed è strano che non vi resti alcuna traccia non solo archeologica ma neppure scritta, neppure in un elenco di possedimenti, di Monasteri da cui esigere e che esigevano, nulla di nulla. In particolare è difficile che manchino tracce in un contesto in cui i luoghi di culto erano anche luoghi di potere temporale legati in un modo o nell’altro, all’Imperatore.

Secondo Cammarosano, bisognerebbe cercare di collocare un Monastero a San Canziano nel contesto del monachesimo friulano, ma se, invece, si dovesse cercar di rileggere il documento con altra chiave di lettura? Inoltre come fa Mario Mirabella Roberti, che ha scavato San Canzian, ad essere così sicuro che il “vicus Sanctorum Canzianorum” sul diploma imperiale dell’819 sia San Canzian d’Isonzo, solo su detta citazione? (Mario Mirabella Roberti, I musaici di San Canzian d’ Isonzo, in: https://www.openstarts.units.it › bitstream › 12-Roberti_235-244, p. 235).

Immagine di una parte della pavimentazione in mosaico della basilica paleocristiana a San Canzian d’Isonzo, che si trova ivi nell’Antiquarium cantianese. (Foto di Laura Matelda Puppini, dopo aver chiesto il permesso).

REPERTI ARCHEOLOGICI MUSIVI E NON A SAN CANZIAN D’ISONZO.

Maria Mirabella Roberti, archeologo, che ha scavato a San Canzian d’ Isonzo, scrive che il culto dei santi Canziani è ancor vivo nell’attuale parrocchiale e che grazie alla sua indagine archeologica, si è rinvenuta ivi la tomba dei fratelli Canziani, «in cui le ossa venerate erano raccolte, proprio nell’area dell’altare di una basilica paleocristiana» (Ivi, p. 235).  Inoltre il Mirabella Roberti scrive anche che nella chiesetta di San Proto sempre in Comune di San Canzian d’Isonzo, erano stati rinvenuti «due sarcofagi con i nomi di Proto e di Crisogono, che dal ductus delle iscrizioni possono risalire anche al IV secolo». (Ivi, p. 236).

Per quanto riguarda quanto reperito nella chiesetta San Proto, Mirabella Roberti così scriveva: «Lo scavo riconosceva meglio i frammenti del Iilusaico quasi affiorante e i muri dell’aula che lo accoglieva, orientata sui punti intermedi. Un’aula di m. 8 X 14, il cui pavimento appariva diviso in tre corsie, di cui si era rinvenuta solo una piccola parte della corsia meridionale. Si trattava di un modesto disegno ad ottagoni e quadrati nei colori grigio, bianco, giallo e rosso. Ma un saggio condotto in profondità ci dava la sorpresa di trovare a – 4 5 cm. da quel pavimento un nuovo pavimento musivo, appartenente a una più piccola aula rettangolare (m.4 X 6, 30) con muri di 45 cm., che, anche se in vari punti guastato, costituiva un più antico insediamento nel luogo, e forse proprio il primo. Una «memoria», abbiamo pensato, connessa col culto di San Proto, a giudicare dal titolo della cappella attuale.

Questo più antico pavimento presenta uno dei motivi più tipici dell’ambiente aquileiese. Sul fondo giallino si dispongono, in doppi filari di tessere nere, grandi ottagoni collegati da rettangoli e disposti fra esagoni schiacciati, che cingono piccoli quadrati. Entro gli elementi minori sono disposte «crocette» fatte di filari di tessere nere e rosse per quincunx. Degli ottagoni, quasi ovunque dispersi, restano solo due, dimezzati, presso il lato occidentale e questi contengono due pesci, affrontati, eseguiti con attenzioni naturalistiche, nei colori tipici dei pesci di Aquileia». (Ivi, pp. 236-237). «In una zona rettangolare verso oriente, dove il musaico manca, sembra si possa pensare all’area di un sarcofago, che fosse sotto terra e poi fosse stato estratto. In un tratto della cornice bianca a occidente si notano i resti di una tabula ansata: un’iscrizione evidentemente, chissà quando volutamente distrutta». (Ivi, p. 237). Il mosaico è a partizione geometrica, i colori elementari, ed è databile intorno al IV secolo. (Ibid).

Immagine di una parte della pavimentazione in mosaico della basilica paleocristiana a San Canzian d’Isonzo, che si trova ivi nell’Antiquarium cantianese. (Foto di Laura Matelda Puppini, dopo aver chiesto il permesso).

I RESTI DELLA BASILICA PAELOCRISTIANA DI SAN CANZIAN D’ISONZO.

Quindi il gruppo di studenti diretti da Mario Mirabella Roberti faceva un ‘altra scoperta di enorme valore, vicino alla chiesa parrocchiale di San Canzian d’Isonzo: «Una basilica di m. 16 X 32, orientata anch’essa sui punti intermedi preceduta da un nartece, in cui i resti musivi erano presenti in modo discontinuo, ma sufficiente a darci una larga idea degli aspetti decorativi del pavimento dell’aula. Esso era diviso anche qui in tre corsie nel senso longitudinale, mentre in senso trasversale erano riconoscibili due partizioni, almeno nelle due corsie esterne. Tutto il pavimento era cinto da una treccia multipla.

Il musaico era in gravissime condizioni non solo per notevoli asportazioni […], ma anche annerito spesso da incendi». (Ivi, p. 238). Pertanto ricostruirne la pianta non fu cosa semplice. Il mosaico presenta grandi esagoni bitessellari rossi un po’ schiacciati che accolgono altri esagoni a fasce con lati inflessi legati fra loro da vari avvolgimenti, ornati di fiori di loto e altri motivi vegetali. (Ivi, pp. 238-239). Inoltre venivano rinvenuti, nel lato meridionale, molti frammenti di un mosaico chele o a cerchi di foglie di acanto stilizzate, intrecciati sui diametri ortogonali. Al centro dei cerchi si trovano quadratini con apici agli spigoli o piccole scacchiere. Detti mosaici sono databili dal IV al V secolo. Nell’ asse centrale è stato ritrovato un pavimento musivo a cerchi, che forse accoglieva il nome del costruttore dell’aula o il titolo della sua dedicazione. Ma al momento del rinvenimento restava solo: «sopra il motivo a cerchi, e sempre frammentaria, l’epigrafe con l’attestazione del dono del diacono Honorius». (Ivi, p. 241).

Ma successivamente a 10-13 cm. sotto la superficie musiva trovata per prima, venivano alla luce, qua e là, tracce di un altro pavimento musivo. «Esso appariva come eraso, sconvolto, ma non disperso, quasi che l’opera fosse stata resa rugosa per far aderire meglio la preparazione del nuovo musaico. Un piccolo frammento era intatto e il motivo rappresentato era quello degli esagoni schiacciati composto con tessere […]  con un elemento interno sfumato di rosso e di giallo e cinto di nero». (Ivi, p. 242). Il disegno e gusto del modesto frammento riportavano ad un’epoca precedente i mosaici sino allora reperiti, potevano esser datati IV secolo, ed erano simili a quelli reperiti a San Proto. (Ibid). Infine, ad oriente del muro della basilica, a 50 cm dal livello attuale, «appariva, isolato, un festoso girale di vite che accoglie un grappolo d’uva di sei acini rossi e una foglia verde scura su fondo bianco». (Ivi, p. 243). Così, con l’ultimo ritrovamento, la basilica si presentava come rivista in tre diverse epoche. (Ibid.).

Immagine di una parte della pavimentazione in mosaico della basilica paleocristiana a San Canzian d’Isonzo, che si trova ivi nell’Antiquarium cantianese. (Foto di Laura Matelda Puppini, dopo aver chiesto il permesso).

MA A SAN CANZIAN D’ ISONZO VENIVA TROVATA ANCHE UNA TOMBA CON RESTI DI TRE CORPI.

Nel 1964, sempre grazie al lavoro di Mario Mirabella Roberti, all’interno dell’area della basilica paleocristiana di notevoli dimensioni, «vennero alla luce un vano quadrato, inserito, sembra, successivamente e così pure, sempre lungo l’asse longitudinale, una fossa che forse sottostava all’altare: qui si sono trovate alcune monete, di cui una argentea di Arlongo, vescovo di Trieste del sec. XIII, mentre nel vano quadrato sono stati trovati numerosissimi frammenti di vetro, tra cui alcuni di pregevoli ampolle. La «fossa» sottostante all’altare era stata scoperta l’ultimo giorno di lavoro, il primo luglio 1964. Da lì iniziarono gli scavi dell’anno successivo. Ci si accorse che si trattava di una tomba, la quale, il 23 giugno 1965, restituì alcuni resti ossei. In un primo momento si pensò ad «almeno due scheletri»,32 si comprese poi che le ossa appartenevano a tre persone». (Andrea Tilatti, Le ossa dei santi Canziani, «Cristianesimo nella storia», 35 (2014)3, p. 765-786 (ISSN 0393-3598) in: https://www.academia.edu/10299149/, p. 772).

Le ossa rinvenute nella tomba furono sottoposte al vaglio medico-antropologico. Sia pure tra molte espressioni prudentemente dubitative, il referto stabilì che nella tomba si erano rinvenuti non meno di tre inumati e, con ogni verosimiglianza, non più di tre. Di essi uno è sicuramente maschile ed uno sicuramente femminile; di un terzo restano dubbi sulla diagnosi del sesso maschile. Nel complesso è abbastanza probabile che si tratti di due uomini e di una donna adulti. Dei due maschi uno è di età giovanile: sui 20 anni. I tre inumati presentano alcuni caratteri di somiglianza […] Non è il caso di badare a singole differenze, ma al fatto che queste interessano tutti, o quasi, i dati confrontati. Si può avanzare un’ipotesi di parentela tra gli inumati della tomba. (Ivi, pp. 772-773). E il passo per unire la scoperta archeologica, all’analisi medico-scientifica, al racconto della tradizione agiografica fu brevissimo, e ci si convinse di aver trovato ossa dei tre martiri Canziano, Canzio e Canzianilla. C’erano troppe coincidenze per dubitarne. Ma dato che i corpi reperiti non erano completi, si pensò subito, con zelo ed ardore, a realizzare una sorta di ‘gemellaggio reliquiale’ tra i corpi rinvenuti e i frammenti che si pensavano tesaurizzati a Milano, a Sens, a Seriate in provincia di Bergamo, nella parrocchia di S. Canciano di Venezia (Ivi, p. 773), dimenticando i reliquiari reperiti a Grado pieni di una sostanza acquosa mista a fango di origine sconosciuta.

E così «Le ossa reperite con gli scavi, […]  trovarono i santi, nel senso che fu naturale collegarle e interpretarle al lume di una vetusta tradizione agiografica e attribuire loro, proprio grazie a tale auctoritas agiografica, un nome, un’epoca, una fama. Per converso, nessuno osò dubitarne, i santi trovarono le ossa e beneficiarono della loro essenza materiale, tangibile, che li affermava, quasi li imponeva, insieme con la loro ‘storia’ (ancora nella versione agiografica), alla realtà obiettiva di quell’altra ‘storia’, intesa come res gestae. Il moto era simultaneo, talmente coincidente da rendere difficile comprendere quanto la leggenda abbia contribuito alla distinzione e al riconoscimento dell’ossame e quanto l’ossame abbia invece, motu proprio o auctoritate sua, come direbbe il giurista Odofredo, recuperato valore effettuale all’agiografia. A ben guardare, questo problema resta tutto interno a un orizzonte di interpretazione del ‘dato’, sia esso scritto sulla pergamena di antichi codici, sia esso rinvenuto nel sottosuolo. Si tratta, in altre parole, di una questione di metodo e di certificazione della verità, o attendibilità, delle fonti». (Ivi, pp. 775-776).

E con queste note metodologiche chiudo queste mie considerazioni, speranzosa che qualcuno le legga, le commenti, e magari le critichi a ragion veduta. Un sincero grazie a Remo Cacitti, per due veloci telefonate. Ringrazio pure gli organizzatori del convegno ed i relatori perchè mi hanno permesso di approfondire un argomento che non conoscevo e di scrivere questo mio.

P.S. 23/10/2019. Toponimo in Carnia. 

Il dott. Rolando Marini di Tolmezzo mi ha ricordato stasera che in Carnia un tempo la Val Pesarina, che unisce la Carnia al Comelico, si chiamava Canale di San Canciano. Questo nome della Val Pesarina è ricordato anche in: Giovanni Marinelli, (a cura di Michele Gortani) Guida della Carnia e del Canal del Ferro, Stabilimento Tip. “Carnia”,  1924-1925, p. 587. Detta valle era un tempo un asse viario importante perchè porta a Sella Lavardet, e quindi al Cadore, e vi è chi pensa che a Pesaris vi fosse la dogana detta allora muda. (Ibid.). La parrocchiale di Prato Carnico è dedicata a San Canziano, ma l’edificio è recente, e fu costruito nel 1868 per sostituire il precedente, lesionato. La chiesa ha un altare ligneo raffigurate i Santi Canziano, Canzio e Canzianilla. «Un documento del 1316 attesta l’esistenza della chiesa di San Canciano, molto più piccola, che venne ampliata nei primi anni del 1400. Il terremoto del 28 luglio 1700 danneggiava la chiesa che già minacciava di rovina e rese necessari lavori di restauro anche per il campanile “diroccato per il passato terremoto, et fare l’ottagono con la cuba”. Ma – scrive don A. Roia – a quanto pare non si fece altro che coprirlo alla schietta, e lasciarlo come cedere nel terreno sottostante avealo ridotto, cioè pendente». (http://www.comune.prato-carnico.ud.it/index.php?id=3090). La chiesa di San Canciano, secondo la guida del Marinelli curata dal Gortani, divenne curaziale nel 1340. (Giovanni Marinelli, op. cit., p. 589). In detta valle non risulta siano mai state trovate reliquie ma vi era il Castello di Pradumbli, che alcune fonti ritengono del Patriarca di Aquileia. (Ibid.). Anche in Carnia si trova il cognome Canciani, non si sa se importato o meno.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

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