Terremoti del 1976, ricostruzione museo Gortani e campi di prigionieri militari alleati a Sauris ed Ampezzo, uniti in un’unica storia.
In Carnia molti conoscono la diga di Sauris, ma forse pochi sanno chi fece, per tre mesi, il lavoro più duro.
Correva l’anno 1940 e l’Italia era entrata in guerra, una guerra per “il dominio del mondo”, secondo Hitler con al seguito Mussolini, che ebbe gli Anglo-Americani schierati sul fronte opposto. Ed anche in Italia vi furono dei campi di concentramento sia per civili che per militari prigionieri di guerra.
Due campi per Pow (Prisoners of war) si trovavano in Carnia e le poche notizie che abbiamo su di loro si devono a Libero Martinis, Neozelandesi nella valle del Lumiei, singolari esperienze di un campo di prigionia italiano, La Nuova Base ed. 1999 ed ad un articolo scritto dallo stesso autore.
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Nel lontano 1976, quarant’anni fa, il terremoto scuoteva violentemente le terre ed i monti del Friuli, lasciando dietro di sé morti, feriti, desolazione e distruzione.
La notizia corse nel mondo e molti furono gli attestati di sostegno e generosità. Ed un giorno giunse anche quello del governo della Nuova Zelanda, che offrì oltre quaranta milioni di lire alla Carnia, che vennero utilizzati per la ricostruzione del museo Etnografico, ora Museo Carnico delle Arti e Tradizioni Popolari Luigi e Michele Gortani, di Tolmezzo. Esso fu inaugurato, nel 1984, dall’ambasciatore neozelandese in Italia, ed in tale occasione fu concordata la futura visita dei signori: Carlton, allora impresario edile e pastore evangelico, e George Lockhead, industriale, pensionato, che erano stati prigionieri militari nei due campi allestiti fra i monti della Carnia, svolgendo mansioni di responsabili dei campi stessi verso il comando italiano.
La loro è «una storia che val la pena di conoscere perché è una scheggia di tempo che riguarda la popolazione dell’Alta Val Tagliamento» – scrive Libero Martinis su Friuli nel Mondo, novembre 1987, e non fu solo storia loro. (Libero Martinis, Ritorno di due neozelandesi nel campo di prigionia, in: http://www.friulinelmondo.com/assets/files/anni_80/397-11-1987.pdf).
In particolare George Lockhead fu il comandante del gruppo di prigionieri che si trovavano nel campo di Plan dal Sach in comune di Ampezzo, che vennero impiegati presso i cantieri per la costruzione della centrale, mentre Carlton, presumibilmente, comandò il gruppo del campo di La Maina, che venne utilizzato per lavori per la diga. Di George Lockhead si narra, pure, che conoscesse bene diritti e doveri secondo le convenzioni internazionali, e ne pretendesse la rigida applicazione.
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I prigionieri non lavorarono per lungo periodo, perché giunsero in zona il 9 maggio 1943 e se ne andarono il 9 settembre dello stesso anno, dopo l’armistizio di Cassibile. Secondo Arthur Douglas, che ci ha lasciato dei disegni che rappresentano la vita al campo di Ampezzo, la permanenza dei prigionieri fu favorita da buone condizioni di vita (se rapportate ad altre situazioni n.d.r.), da un abile capo campo e da un Comandante Italiano comprensivo, e dal fatto che nei due campi di prigionia giungevano gli aiuti della Croce Rossa Internazionale. (Libero Martinis, Neozelandesi nella valle del Lumiei, op. cit., p. 54). Inoltre furono concessi scambi con la popolazione di sigarette e scatolame in cambio di cibi freschi. (Ivi).
I prigionieri neozelandesi (circa 280) furono impiegati come scavatori, minatori, meccanici e carpentieri e nel corso della loro permanenza ebbero problemi per la lingua, l’eccesso di lavoro, il fatto di non essere esperti nel mestiere, il che poteva creare situazioni di rischio.
Poi, alle ore 7 del 9 settembre 1943, venne improvvisamente ordinato ai prigionieri di «mettersi in strada per Treviso». Alla notizia seguì «un selvaggio parapiglia. Mezz’ora durò il caos: imballare, mangiare, impacchettare masse di fagotti e pubblicazioni […]. (…). Carrettate di vestiti, tabacco, sigarette e tutto l’assortimento dei viveri inviati dalla Croce Rossa dovettero essere buttati via ed alcuni civili ci fecero fortuna». (Ivi, p. 46).
I campi per prigionieri di guerra si trovavano, come già precisato, uno alla Maina di Sauris, l’altro a Plan da Sach, in comune di Ampezzo. Essi vennero allestiti nel febbraio del 1943, dopo il permesso, giunto da parte del Ten. Col. Battaglia, di utilizzare 280 prigionieri neozelandesi in “opere” civili.
I campi erano composti da 12 baracche, 6x 24 in legno, costruite dalla ditta Mangiarotti di Ponte delle Alpi e da docce e latrine in calcestruzzo. 5 baracche vennero poste a Plan dal Sach, e ospitarono 100 prigionieri, le altre alla Maina di Sauris. Le prime baracche furono consegnate il 6 di aprile, ed il 29 aprile il Tenente Bert, designato come comandante italiano dei campi, si recò a vedere come procedevano i lavori di allestimento degli stessi; il 23 maggio arrivò il primo contingente di 100 prigionieri che si installò a Plan dal Sac; il 27 maggio giunse il secondo contingente, che venne alloggiato alla Maina di Sauris. (Ivi, p. 52).
I problemi principali, secondo l’ing. Luciano Di Brai, vicedirettore dei lavori dell’impianto idroelettrico del Lumiei, furono l’imperizia della manodopera nei lavori richiesti e la carenza di acqua potabile per tutti. (Ivi, p. 54), mentre Claudio Troiero, allora bambino, ricorda la scarsa propensione dei neozelandesi a lavorare per gli italiani, nonostante il capo cantiere Crosilla tenesse la situazione sotto controllo. (Ivi, pp. 63-64). Ed i disegni di Arthur Douglas mostrano pure un tentativo di sabotaggio dei lavori, pagato a caro prezzo. (Ivi, p. 42).
L’assistenza religiosa venne garantita da don Giacomo Fabris, a cui venne indirizzata pure, da parte dei prigionieri, corrispondenza, finita bruciata dai parenti del sacerdote, dopo la sua morte. (Ivi, p. 50).
Il 9 settembre l’abbandono dei campi. L’ing. Di Brai afferma che i prigionieri, si avviarono verso la vecchia strada per il Passo della Mauria, per raggiungere Treviso, e che si diceva fossero stati catturati dai Tedeschi ed internati in Germania, ma altra versione dice che invece riuscirono ad unirsi agli Alleati, dopo periglioso cammino. (Ivi, p. 10 e p. 56). Forse alcuni finirono in un modo altri nell’altro.
Anche l’ing. Di Brai testimonia il saccheggio de campi da parte di civili, dopo la dipartita dei prigionieri. (Ivi, p. 56).
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Il campo della Maina era il P.G. n.103/VII di lavoro obbligatorio alle dipendenze del Regio Esercito, come da: Libero Martinis e http://www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=1126, quello di Plan dal Sach, con le stesse caratteristiche, era il P.G. n. 103/VI, come da: http://www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=1125.
Faccio presente di aver io segnalato ad Andrea Giuseppini, curatore del sito www.campifascisti.it, a cui va il mio plauso per la meritoria opera, con altri, di classificazione dei campi fascisti di concentramento e per prigionieri militari in Italia, i campi di Ampezzo e Sauris ed il volume di Libero Martinis.
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E ritorniamo così al post- terremoto ed agli anni ’80.
Due neozelandesi, di antiche origini scozzesi, che erano stati prigionieri di quei campi, raggiungevano la Carnia ed il Friuli, all’interno di un vasto tour europeo, a fine luglio 1987, e vi si fermarono qualche giorno. E visitarono non solo Sauris ed Ampezzo, ove i luoghi “delle baracche” del campo non erano stati cancellati, come invece è accaduto a La Maina, coperta dal lago, ma anche Porpetto e San Giorgio di Nogaro, che furono tappe della loro lunga odissea prima di ricongiungersi con le truppe alleate.
Erano passati 44 anni da quella prigionia e da quei lavori forzati, quando essi ritornarono in Carnia, in quella terra dove il denaro donato dalla loro Patria, la Nuova Zelanda, aveva permesso di riaprire il museo Etnografico, ora delle Arti e Tradizioni Popolari, L. ed M. Gortani.
Avevano raggiunto Sauris, Ampezzo e la nostra Carnia nel lontano 1943, con altri duecentosettantotto neozelandesi, sudditi come loro di sua Maestà britannica, che avevano combattuto nella seconda guerra mondiale con le truppe inglesi, ed erano stati presi prigionieri il 21 novembre 1941 a Tobruk, in Egitto. (Libero Martinis, Ritorno di due neozelandesi, op. cit.). Erano quindi stati trasferiti qui e là in Italia, e dopo un lungo peregrinare, erano giunti a Udine.
Ad Udine, con dei treni speciali, avevano raggiunto Villa Santina ed, infine, a piedi, ordinati ed a passo di marcia, erano giunti chi ad Ampezzo, coprendo una distanza di 13 chilometri, chi a La Maina di Sauris, coprendone una di 25, ove erano stati alloggiati nei campi, circondati da filo spinato.
E nel 1987 erano ritornati, da graditi ospiti, anche per non dimenticare e per fare in modo che noi ricordassimo.
Laura Matelda Puppini
L’immagine che correda l’articolo, che ritrae le baracche del campo di Sauris, è tratta dal volume di Libero Martinis, solo per questo uso. Laura Matelda Puppini
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