Ricominciamo dai beni comuni

«A poco più di un anno dalla scomparsa di un gigante del diritto come Stefano Rodotà, il suo nome torna al centro di una iniziativa che riprende uno dei suoi ultimi progetti professionali e che sicuramente, se fosse ancora con noi, lui sosterrebbe con il suo proverbiale vigore e la sua estrema gentilezza.

Tra il 2007 e il 2008, infatti, una commissione presieduta proprio da Stefano Rodotà aveva lavorato a un disegno di legge per riformare tutta la disciplina del codice di civile in materia di beni pubblici, che era (e purtroppo è) invariata dal 1942. L’intento era quello di dare allo Stato uno strumento attuale e adeguato per evitare future nuove ondate di privatizzazioni selvagge come quelle che negli anni ’90 avevano svenduto grandi pezzi di patrimonio pubblico a favore di privati, anche abusando della pratica delle concessioni.

Quel disegno di legge, presentato nel 2008 alla conclusione dei lavori della commissione, non è mai stato discusso in Parlamento (con governi e maggioranze di ogni colore) nonostante sia stato il principale motore del successo del referendum del 2011 sull’acqua pubblica e abbia ispirato una stagione di movimenti per la tutela e la riappropriazione dei beni comuni che è tutt’altro che esaurita, ancorché troppo spesso inascoltata. Un segnale, l’ennesimo, che spesso la sensibilità dei cittadini anticipa la politica del palazzo anche nelle scelte apparentemente più tecniche.

Parlare di beni comuni e porre al centro una nuova gestione del patrimonio pubblico significa proprio costruire una nuova visione politica, vuol dire guardare oltre la ristrettezza delle scadenze elettorali per provare a disegnare traiettorie che realmente possono rappresentare un futuro promettente per il paese. In un momento in cui sta già partendo la campagna elettorale per le elezioni Europee di primavera, sarebbe bello poter pensare che il focus non siano le solite scaramucce di piccolo cabotaggio quanto piuttosto prospettive di senso ampio, esattamente quello che una teoria dei beni comuni può rappresentare.

Anche per questo oggi quella commissione vuole ripartire, grazie allo sforzo di due giuristi che facevano parte della squadra di Rodotà, Ugo Mattei e Alberto Lucarelli. Si è partiti da un convegno all’Accademia dei Lincei venerdì 30 novembre scorso, da cui si lancerà una sfida vera e propria: una legge di iniziativa popolare che raccolga le 50.000 firme previste dalla Costituzione affinché il Parlamento sia spinto a discuterla.

Mai come oggi abbiamo un disperato bisogno di strumenti giuridici che tutelino quei beni comuni continuamente minacciati da un modello neoliberista basato sulla massimizzazione dei profitti di pochi e sulla socializzazione delle perdite tra molti. Siamo il paese europeo con il più alto tasso di consumo di suolo agricolo, abbiamo visto lo stato delle nostre autostrade (tutte affidate ai privati tramite concessioni), conosciamo bene la situazione degli acquedotti (e dei relativi servizi) laddove la gestione non è ancora stata ripubblicizzata in ottemperanza al referendum, abbiamo chiaro lo stato del dissesto idrogeologico che colpisce tutte le regioni della penisola.

La proposta Rodotà, poi, include anche i cosiddetti beni pubblici sociali quali il sapere, la salute e la previdenza, che come tali sono intrinsecamente pubblici e dunque vanno messi al riparo da possibili gestioni spregiudicate da parte dei privati.

La vecchia e un po’ frusta dicotomia tra Stato e Mercato, tra pubblico e privato, può essere superata solo ricorrendo a nuove categorie del pensiero e della legge. I beni comuni rappresentano questa nuova via e ci richiamano a un modo completamente differente di relazionarci, da cittadini, con ciò che è di tutti. Non è più ammissibile scadere in atteggiamenti deresponsabilizzati o peggio irresponsabili, al contrario siamo chiamati a farci carico di partecipare e di esigere una gestione ecologista e realmente democratica del pubblico.

Se andrà in porto una legge di iniziativa popolare sui beni comuni che porterà il nome di uno dei più grandi giuristi della storia del nostro paese, avremo di che festeggiare. (Ricominciamo dai beni comuni

(04/12/2018 – http://www.slowfood.it/ricominciamo-dai-beni-comuni/ da Luca Nazzi).

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Ma cosa dice la proposta della Commissione Rodotà, che ha terminato i suoi lavori nel 2008?

Io ho trovato questo su: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=0_10&facetNode_2=0_10_21&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS47617.

«Commissione Rodotà – per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007) – Relazione.  (…).

La genesi del progetto
La Commissione sui Beni Pubblici, presieduta da Stefano Rodotà, è stata istituita presso il Ministero della Giustizia, con Decreto del Ministro, il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.
Una simile iniziativa era stata proposta già nel 2003 da un gruppo di studiosi presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze. L’idea era nata in seguito al lavoro che era stato avviato in quella sede per la costruzione di un Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità internazionale. Nello svolgimento di tale compito, e alla luce dei primi processi di valorizzazione e privatizzazione di alcuni gruppi di cespiti pubblici (immobili e crediti), era emersa la necessità di poter contare su un contesto giuridico dei beni che fosse più al passo con i tempi ed in grado di definire criteri generali e direttive sulla gestione e sulla eventuale dismissione di beni in eccesso delle funzioni pubbliche, e soprattutto sulla possibilità che tali dismissioni (ed eventuali operazioni di vendita e riaffitto dei beni) fossero realizzate nell’ interesse generale della collettività facendo salvo un orizzonte di medio e lungo periodo.
Inoltre, era emersa la necessità di azioni concrete per una migliore gestione di particolari tipologie di utilità pubbliche che scaturiscono da beni disciplinati ad oggi in modo frastagliato e poco organico. È il caso delle concessioni del demanio dello Stato, degli Enti territoriali e delle concessioni sullo spettro delle frequenze; ed anche di una serie di beni finanziari (crediti pubblici, partecipazioni) ed immateriali (marchi, brevetti, opere dell’ingegno, informazioni pubbliche, e altri diritti) su cui sembrava necessario agire attraverso una riforma generale del regime proprietario di riferimento. L’iniziativa, in una prima fase, fu accolta positivamente dall’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze. Essa, tuttavia, con il cambio di Ministro, avvenuto nel mese di luglio del 2005, non fu ulteriormente perseguita.
Nel Giugno del 2006 i lavori del Conto Patrimoniale sono stati presentati in una Giornata di studio che si è svolta presso l’Accademia Nazionale dei Lincei dal titolo “Patrimonio Pubblico, proprietà pubblica e proprietà privata”. In quella sede un autorevole gruppo di studiosi (giuristi ed economisti), era giunti unanimemente alla conclusione che fosse opportuno proseguire nel lavoro sui beni pubblici tramite due iniziative fra loro sicuramente collegate. La prima, una revisione del contesto giuridico dei beni pubblici contenuti nel Codice civile attraverso l’istituzione di una apposita Commissione ministeriale. La seconda, il proseguimento del lavoro conoscitivo avviato con il progetto sperimentale del Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche per rafforzare il contesto della conoscenza dei beni del patrimonio. Sul primo fronte la proposta è stata accolta dal Ministro della Giustizia. I lavori della Commissione sono stati avviati con la prima riunione plenaria che si è tenuta presso il Ministero il 4 di luglio 2007. I lavori della Commissione Rodotà, coadiuvata con notevole efficienza dalla Segreteria Scientifica e dal personale dell’ Ufficio Legislativo del Ministero della Giustiza, diretto dal compianto Consigliere Gianfranco Manzo, che molto aveva creduto in questo progetto, si sono articolati per complessive 11 riunioni plenarie e 5 riunioni speciali della Segreteria Scientifica in tre fasi : a) la raccolta degli elementi conoscitivi-normativi indispensabili; b) l’ audizione di alcune fra le più rilevanti personalità del mondo accademico, professionale ed altri soggetti a vario titolo direttamente interessati dal progetto di riforma; c) la discussione teorica e la stesura dei principi fondamentali della legge delega.

I presupposti del lavoro.
Meritano di essere brevemente ripercorse talune delle ragioni che hanno suggerito al Ministero della Giustizia di metter mano alla riforma del Titolo II del Libro III del Codice Civile del 1942 e di altre parti dello stesso rilevanti al fine di recuperare portata ordinante alla Codificazione in questa materia.
In primo luogo, i cambiamenti tecnologici ed economici verificatisi fra il 1942 ed oggi hanno reso particolarmente obsoleta la parte del Codice Civile relativa ai beni pubblici. Alcune importanti tipologie di beni sono assenti. Tale assenza ad oggi non è più giustificabile. In primo luogo i beni immateriali, divenuta oggi nozione chiave per ogni avanzata economia. Altre tipologie di beni pubblici sono profondamente cambiate negli anni: si pensi ai beni necessari a svolgere servizi pubblici, come le c.d. “reti”, sempre più variabili, articolate e complesse. I beni finanziari, tradizionalmente obliterati a causa della logica “fisicistica” del libro III, ancora legato ad una idea obsoleta della proprietà inscindibilmente collegata a quella fondiaria, andavano recuperati al Codice civile. Inoltre, le risorse naturali, come le acque, l’ aria respirabile, le foreste, i ghiacciai, la fauna e la flora tutelata, che stanno attraversando una drammatica fase di progressiva scarsità, oggi devono poter fare riferimento su di una più forte protezione di lungo periodo da parte dell’ ordinamento giuridico. Infine, le infrastrutture necessitano di investimenti e di una gestione sostenibile per tutte le classi di cittadini.
In secondo luogo, una nuova filosofia nella gestione del patrimonio pubblico, ispirata a criteri di efficienza, che si è sviluppata anche a causa delle difficoltà e degli squilibri in cui si trovano gran parte dei bilanci pubblici europei, richiede, da una parte, un contesto normativo che favorisca una migliore gestione dei beni che rimangono nella proprietà pubblica, e dall’altra, la garanzia che il governo pro tempore non ceda alla tentazione di vendere beni del patrimonio pubblico, per ragioni diverse da quelle strutturali o strategiche, legate alla necessaria riqualificazione della dotazione patrimoniale dei beni pubblici del Paese, ma per finanziare spese correnti.

Le opzioni ed il mandato della commissione.
La Commissione ha cominciato i propri lavori con un approfondito studio della letteratura più autorevole consacrata negli anni alla materia dei beni pubblici, nell’ambito della quale importanza cruciale riveste tradizionalmente la nozione di demanialità. La matrice della moderna dottrina del demanio nasce da una distinzione nell’ambito dei beni (soggettivamente) pubblici, tendente ad individuare alcune categorie di beni da tenersi fuori dall’applicazione del diritto comune perché strettamente destinati ad una funzione di pubblico interesse. La dottrina ha da tempo dimostrato che l’impianto contenuto nel Codice civile del 1942, presenta più ombre che luci.
L’insoddisfazione per l’assetto dato dal Codice Civile ha prodotto una vasta letteratura nella quale vengono avanzate diverse proposte di soluzioni alternative. La più autorevole dottrina cerca di scomporre le categorie tradizionali attraverso un’analisi storica dell’istituto della proprietà, condotta sia con riferimento alla scienza giuridica privatistica che a quella pubblicistica. Tale opera influenzerà tutta la scienza giuridica successiva sviluppatasi sulla natura e sulla tassonomia dei beni pubblici contenuta nel Codice civile.
Sulla base di questi presupposti, anche corroborati da una indagine comparatistica condotta dalla Segreteria scientifica che ha documentato a fondo i sistemi francese, tedesco, spagnolo, canadese, belga e statunitense, la Commissione ha accolto l’ idea di porsi alla ricerca di una tassonomia dei beni pubblici che riflettesse la realtà economica e sociale delle diverse tipologie di beni, nella convinzione che il mero statuto giuridico delle singole tipologie, consegnato al diritto italiano vigente, costituisse un criterio arbitrario. Massimo Severo Giannini ha scritto a più riprese che la disciplina dei beni pubblici contenuta nel codice è meramente formale, a partire dalla distinzione fra demanio e patrimonio. Per questa ragione, la Commissione ha voluto seguire la via delle scelte sostanziali.

Le linee generali della riforma proposta
Dal punto di vista dei fondamenti, la riforma si propone di operare un’inversione concettuale rispetto alle tradizioni giuridiche del passato. Invece del percorso classico che va “dai regimi ai beni”, l’indirizzo della Commissione procede all’inverso, ovvero “dai beni ai regimi”. L’analisi della rilevanza economica e sociale dei beni individua i beni medesimi come oggetti, materiali o immateriali, che esprimono diversi “fasci di utilità”.
Di qui la scelta della Commissione di classificare i beni in base alle utilità prodotte, tenendo in alta considerazione i principi e le norme costituzionali – sopravvenuti al codice civile – e collegando le utilità dei beni alla tutela dei diritti della persona e di interessi pubblici essenziali.
Preliminarmente, si è proposto di innovare la stessa definizione di bene, ora contenuta nell’art. 810 Codice civile, ricomprendendovi anche le cose immateriali, le cui utilità possono essere oggetto di diritti: si pensi ai beni finanziari, o allo spettro delle frequenze.
Si è poi delineata la classificazione sostanziale dei beni. Si è prevista, anzitutto, una nuova fondamentale categoria, quella dei beni comuni, che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. Ne fanno parte, essenzialmente, le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate. Vi rientrano, altresì, i beni archeologici, culturali, ambientali.
Sono beni che – come si è anticipato – soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche. La Commissione li ha definiti come cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità.
Per tali ragioni, si è ritenuto di prevedere una disciplina particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a rafforzarne la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future. In particolare, la possibilità di loro concessione a privati è limitata. La tutela risarcitoria e la tutela restitutoria spettano allo Stato. La tutela inibitoria spetta a chiunque possa fruire delle utilità dei beni comuni in quanto titolare del corrispondente diritto soggettivo alla loro fruizione.
Per quel che riguarda propriamente i beni pubblici, appartenenti a soggetti pubblici, si è abbandonata la distinzione formalistica fra demanio e patrimonio, introducendosi una partizione sostanzialistica.
Si è proposto di distinguere i beni pubblici, a seconda delle esigenze sostanziali che le loro utilità sono idonee a soddisfare, in tre categorie: beni ad appartenenza pubblica necessaria; beni pubblici sociali; beni fruttiferi. I beni ad appartenenza pubblica necessaria si sono definiti come beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Si tratta di interessi quali, ad esempio, la sicurezza, l’ordine pubblico, la libera circolazione. Si pensi, fra l’altro, alle opere destinate alla difesa, alla rete viaria stradale, autostradale e ferroviaria nazionale, ai porti e agli aeroporti di rilevanza nazionale e internazionale. In ragione della rilevanza degli interessi pubblici connessi a tali beni, per essi si è prevista una disciplina rafforzata rispetto a quella oggi stabilita per i beni demaniali: restano ferme inusucapibilità, inalienabilità, autotutela amministrativa, alle quali si aggiungono garanzie esplicite in materia di tutela sia risarcitoria che inibitoria.
I beni pubblici sociali soddisfano esigenze della persona particolarmente rilevanti nella società dei servizi, cioè le esigenze corrispondenti ai diritti civili e sociali. Ne fanno parte, fra l’altro, le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli ospedali, gli edifici pubblici adibiti a istituti di istruzione, le reti locali di pubblico servizio. Se ne è configurata una disciplina basata su di un vincolo di destinazione qualificato. Il vincolo di destinazione può cessare solo se venga assicurato il mantenimento o il miglioramento della qualità dei servizi sociali erogati. La tutela amministrativa è affidata allo Stato e ad enti pubblici anche non territoriali.
La terza categoria, dei beni pubblici fruttiferi, tenta di rispondere ai problemi a più riprese emersi in questi ultimi tempi, che sottolineano la necessità di utilizzare in modo più efficiente il patrimonio pubblico, con benefici per l’erario. Spesso i beni pubblici, oltre a non essere pienamente valorizzati sul piano economico, non vengono neppure percepiti come potenziali fonti di ricchezza da parte delle amministrazioni pubbliche interessate. I beni pubblici fruttiferi costituiscono una categoria residuale rispetto alle altre due. Sono sostanzialmente beni privati in appartenenza pubblica, alienabili e gestibili con strumenti di diritto privato. Si sono però previsti limiti all’alienazione, al fine di evitare politiche troppo aperte alle dismissioni e di privilegiare comunque la loro amministrazione efficiente da parte di soggetti pubblici.
Si sono individuati, infine, criteri per garantire al meglio la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. Per l’uso di beni pubblici si è previsto, fra l’altro, il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che può trarne l’utilizzatore; si sono stabiliti meccanismi di gara fra più offerenti e strumenti di tutela in ordine all’impatto sociale e ambientale dell’utilizzazione dei beni e in ordine alla loro manutenzione e sviluppo.

Le singole disposizioni del disegno di legge delega.
Veniamo all’illustrazione delle singole disposizioni contenute nel disegno di legge delega predisposto dalla Commissione, che consta di un unico articolo.
Il comma 1 prevede un termine di dieci mesi per l’adozione di un solo decreto delegato avente ad oggetto la modifica del Capo II del Titolo I del Libro II del Codice Civile nonché di altre norme strettamente connesse.
Il comma 2 sottolinea che le norme di delega attuano direttamente i principi di cui agli articoli 1, 2, 3, 5, 9, 41, 42, 43, 97, 117 della Costituzione e tende ad assicurare particolare resistenza alle norme di delega e a quelle delegate, prevedendo limiti per eventuali modifiche disposte tramite leggi di settore concernenti singoli tipi di beni. Il comma 3 detta i principi e i criteri direttivi generali:
    a) La revisione dell’art. 810 cod. civ., al fine di includervi, come beni, anche le cose immateriali.
    b) La distinzione dei beni in comuni, pubblici e privati.
    c) La previsione della categoria dei beni comuni, cioè delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. La norma precisa la titolarità dei beni comuni, le condizioni per la loro fruizione collettiva, gli strumenti di tutela amministrativa e giurisdizionale. Viene fornito un elenco esemplificativo di tali beni. Si prevede il coordinamento fra disciplina dei beni comuni e disciplina degli usi civici.
    d) La classificazione dei beni pubblici, appartenenti a persone pubbliche, in tre categorie:
    1) Beni ad appartenenza pubblica necessaria, cioè quei beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. La norma fornisce un elenco esemplificativo di tali beni. Ne prevede la non usucapibilità, la non alienabilità e le forme di tutela amministrativa e giudiziale.
    2) Beni pubblici sociali, cioè quei beni le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona. Anche in tal caso, l’elenco è esemplificativo. La norma prevede un vincolo di destinazione pubblica e ne limita i casi di cessazione.
    3) Beni pubblici fruttiferi, che non rientrano nelle categorie precedenti e sono alienabili e gestibili dai titolari pubblici con strumenti di diritto privato. La norma regola i casi e le procedure di alienazione.
    e) La definizione di parametri per la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. La norma prevede i criteri per il giusto corrispettivo dell’uso di beni pubblici, il confronto fra più offerte, la tutela dell’impatto ambientale e sociale dell’uso e le garanzie di manutenzione e sviluppo.

I commi 4 e 5 regolano le procedure di adozione del decreto legislativo.
Il comma 6 prevede la possibilità di decreti integrativi e correttivi, nel rispetto dei principi e dei criteri di delega.
Il comma 7 sottolinea l’assenza di nuovi oneri a carico della finanza pubblica.

Conclusioni
Il disegno di legge proposto ha tre caratteristiche innovative.
In primo luogo, contiene una disciplina di riferimento per i beni pubblici idonea a recuperare una dimensione ordinante e razionalizzatrice di una realtà normativa quanto mai farraginosa. Essa presenta i tratti di una riforma strutturale e non contingente.
In secondo luogo, il disegno offre una classificazione dei beni legata alla loro natura economico-sociale, che appare sufficientemente agevole da cogliere, a differenza di quella tradizionale fra demanio e patrimonio indisponibile, che, come abbiamo visto, è meramente formalistica.
Infine, la proposta che qui si presenta riconduce la parte del Codice civile che riguarda i beni pubblici – ed in generale la proprietà pubblica – ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale, collegando le utilità dei beni alla soddisfazione dei diritti della persona e al perseguimento di interessi pubblici essenziali.
L’auspicio è che ne possano derivare risultati costruttivi».

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Ugo Mattei ci ricorda, nel suo: ” Legge Popolare per difendere i “beni comuni”, in: http://valderasolidale.it/legge-popolare-per-difendere-i-beni-comuni/, che: «Dieci anni fa la Commissione presieduta dal compianto Stefano Rodotà spiegò che esisteva una terza via, costituzionalmente sancita, tra “pubblico” e “privato”: la via dei “beni comuni”, priva di fini di lucro, collettiva, partecipata, ecologica e nell’ interesse delle generazioni future»

Io credo che si debba leggere attentamente il testo della Commissione, si debbano creare i comitati proposti e racogliere e firme e firmare, per portarlo all’attenzione della politica attraverso una legge di iniziativa popolare che raccolga le 50.000 firme previste dalla Costituzione affinché il Parlamento sia spinto a discuterlo.

E mi permetto di chiudere queste mie righe, che provengono da uno spunto ed un testo speditomi da Luca Nazzi, e da una mia breve ricerca, rubando una frase ad Angelo Branduardi. “Si può fare, si può fare/…/Si può crescere, cambiare/”. (Angelo Branduardi, Si può fare).

Laura Matelda Puppini

L‘immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://valderasolidale.it/legge-popolare-per-difendere-i-beni-comuni/. Laura Matelda Puppini

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