Ebbene sì! Anche quest’anno non ho saputo resistere alla tentazione di scrivere qualcosa sul terremoto, e questa volta ho deciso di riportare alcune descrizioni dal volume che si intitola: “Friuli, un popolo tra le macerie” edito da Borla, ed uscito nel 1977. Esso si presenta come una raccolta di scritti di vari autori e contiene una analisi di quanto accaduto tra un terremoto e l’altro. E per amore di verità, vi dico anche che non ho comperato io questo volume, ma mi è stato consegnato da mio fratello, insieme ad altri che non sapeva più dove mettere, ricevendo da me un coro di proteste perché non sapevo dove collocarli pure io.

Ma ritornando al dunque, vado a riportare, aggiungendo qualche informazione, cosa scrive Duilio Corgnali nel suo saggio intitolato: “Storia di popolo” contenuto nel volume, a perenne memoria dei fatti quando ormai la memoria del terremoto è spesso lasciata solo agli incontri dei cosiddetti sindaci della ricostruzione ancora viventi, stando attenti che, in alcuni casi, i sindaci del terremoto non furono quelli della ricostruzione. Così ormai anche il ricordo di quel tempo pare ingessarsi nel rito e nel mito.

L’articolo inizia con le parole di una donna «Fortunaz i muarz sot tiere», perché sulla terra pare sia scoppiato, quella sera, l’inferno.
«Era una magnifica sera di maggio calda e soprattutto afosa […]. Alle 21.01, preceduta da una più lieve, arriva una tremenda scossa di 59 secondi. Tra la prima e la seconda scossa pochi secondi per mettersi in salvo. Troppo pochi per chi si trova a letto […]. Pochi per poter uscire. Ma uscire dove? Chi l’ha fatto s’è visto la casa di fronte schiantarsi contro i cornicioni della propria, e piombargli addosso. (…). A Majano crollano condomini a seppellire nella fisarmonica delle scale centinaia di persone. Il terremoto viene avvertito a grandi distanze, a Venezia come a Milano, in Jugoslavia come in Austria». (AA.VV. ”Friuli, un popolo tra le macerie”, Borla ed., p.47).

Siamo nel 1976, e le informazioni viaggiano a rilento, non come ora, e così, in un primo tempo, nemmeno la radio regionale si rende conto di quella tragedia, e colloca l’epicentro del terremoto al mar Tirreno, invitando i friulani a ritornare nelle case, che però per molti non esistono più. Solo alle 22 la televisione italiana dà l’annuncio di un terremoto in Friuli. Allora i parenti e gli amici si precipitano al telefono ma con il Friuli non si comunica. E, in un primo momento, le macerie chiudono ogni passaggio. «Infine le sirene, l’urlo straziante, l’altro Friuli, quello risparmiato, che corre su ad aiutare, nonostante le scosse che si susseguono. (Ivi, p. 48).
Nelle zone ferocemente colpite abitano 137.457 persone, nel territorio complessivo interessato dal sisma 500mila.

Mentre le scosse continuano, in alcuni paesi si tirano le prime somme, in altri è impossibile farlo. Bisognerà scavare giorni e giorni per capire chi è vivo e chi è morto. Soltanto il 9 maggio si riesce a fare un primo bilancio provvisorio: a causa di quel terribile terremoto sono morte 781 persone e ne sono rimaste ferite 2.218, ma poi si vedrà che questi dati sono in difetto. (Ivi, p. 50).

Riavutisi dallo stupore, i comuni, che si trovano di fronte ad una situazione mai vista prima e più grande di loro, si rendono conto che servono viveri, tende, indumenti, coperte, sapone, acqua potabile ed un po’ di tutto, mentre i militari passano a far assumere l’antitifica a tutti indistintamente, prima che scoppi qualche epidemia per i cadaveri di animali e cristiani in quel caldo assurdo. Le piazze dei paesi ben presto si trasformano in ambulatorio medico, spaccio viveri ed indumenti, in centri organizzativi, mentre alcuni paesi resteranno isolati per un po’. Ma basta essere vivi, il resto passa in secondo piano. Ci si lava come si può, si vive come si può, mentre obitori ed ospedali vanno riempiendosi.

Servono tende, ma ne arrivano con il contagocce, e successivamente pare non bastino mai. I senzatetto sono 70.000, le case, i focolari, non esistono più. Ormai il Friuli vive all’aperto, mentre la terra continua a tremare. Per la verità la disorganizzazione, all’inizio, è grande: 200 tende vengono scaricate dai militari ad Artegna ma poi vengono ritirate perché destinate ad un altro paese. Comunque sono i militari i primi ad accorrere, ed i primi che portano soccorso alle popolazioni stremate: sono i soldati dell’Esercito Italiano, della Marina, dell’Aeronautica.
Il quindicinale ‘Il Punto’, n. 9, del 15 maggio 1976, pubblica il primo impegno dei militari sul territorio colpito dal sisma: «Sono presenti 5.500 militari con 848 automezzi, 58 autobotti, 85 mezzi speciali del genio tra cui fotoelettriche, ribaltabili, escavatori, apripiste. Sono soldati dell’Esercito italiano, carabinieri, poliziotti e poliziotte, agenti della Polfer. (Ivi, p. 53 e p. 60).

Ma ben preso le incomprensioni tra la gente e il comando dell’esercito si fanno sentire, in una situazione sempre più tesa. Per esempio ad Artegna il generale Sandro Azais vorrebbe accentrare tutti i campi esistenti in zona in un’unica grande tendopoli, su modello militare e sul tipo degli accampamenti romani. Ma la gente del campo quattro, per esempio, non ci sta e torna di nuovo al luogo di partenza.

Infatti le tendopoli vengono assegnate a nuclei familiari della stessa borgata e frazione, che desiderano ricostruire le loro piccole comunità e che, piano piano, si organizzano in comitati di tendopoli. E le varie mansioni all’interno delle tendopoli vengono suddivise tra persone che ne diventano i responsabili: nascono così i referenti per il rifornimento viveri e generi di prima necessità, quelli per la mensa, quelli per la pulizia, e via dicendo. (Ivi, p. 54). Un grosso sforzo comunitario e di reciproca solidarietà segna questo periodo, ed esso non avrebbe potuto prendere forma nel grande campo che avrebbe voluto il generale Azais. Come si può notare, due mentalità, due modi di vedere si scontrano.

I capi-tendopoli, poi, iniziano a riunirsi in un consiglio delle tendopoli per studiare come coordinare gli interventi necessari e promuovere un’azione collettiva in sintonia con le amministrazioni comunali. Sorge così il Coordinamento delle tendopoli e dei paesi terremotati la cui azione è caratterizzata «da mille piccoli episodi, interventi, prese di posizione fino a proteste esemplari». (Ivi, p. 57). E così va a finire, che, per aver chiesto e parlato, il popolo delle tendopoli viene accusato di essere extra- parlamentare (Ivi, p. 59).

Ma pare proprio non fosse formato da extraparlamentari di sinistra quel gruppo che si presenta come “squadra antisciacalli”  e che vorrebbe presidiare l’accesso alla tendopoli. Ma scatta un esposto e il popolo delle tendopoli dice un no deciso alle guardie armate che si intrufolano. (Ivi, p. 59). E nel corso di una assemblea indetta dal Coordinamento delle tendopoli di Gemona, il 23 maggio 1976, la gente vota il suo no “alle squadracce armate”, e chiede che la ricostruzione sia gestita, in accordo, tra comuni e popolazioni. (Ibid.).

Inoltre inizialmente vi sono, per esempio nel caso di Artegna, conflitti di competenza tra i comandanti dell’ Esercito, che tendono a militarizzare il territorio, ed il sindaco. E le autorità non sempre vedono di buon occhio l’organizzazione nata dal popolo delle tende, preferendo la via burocratica. (Ivi, p. 55). In compenso il tipo di struttura popolare permette alle persone di vivere una quasi normalità nei rapporti, venendosi così a lenire il peso della situazione creatasi. E la tenda diventa la casa, la tendopoli si trasforma nel borgo.

Qualcuno incomincia di nuovo ad andare a lavorare, muovendosi dalla tenda alla fabbrica, e nel frattempo Giuseppe Zamberletti viene nominato dal Governo Commissario incaricato del coordinamento dei soccorsi. Egli, il 7 giugno 1976, emette un’ordinanza che ritira le mense gestite dai militari, mentre non si sa dove ospitare i feriti e contusi dimessi dagli ospedali. (Ivi, pp. 60-61). Alcune tende di fortuna incominciano a mostrare le loro falle, e si inizia a vedere, nei paesi, un carosello di commissioni per la valutazione edilizia «ufficiali e non ufficiali, pagate dalla Regione oppure volontarie». (Ivi, p. 63). Ed il Sindaco di Artagna denuncia il passaggio di ben 11 commissioni, che pare non abbiano criteri precisissimi per giudicare cosa mantenere eretto e cosa demolire. 

Infine i terremotati indicono una manifestazione a Trieste per il 16 luglio 1976, perché «le popolazioni friulane non vogliono morire sotto le tende o, anche se a questo sono abituate, emigrare […]». (Ivi, p.65). E si comprende bene che la normalità, tanto agognata in particolare dai vertici dello stato, potrebbe voler dire: “Dalle tende al deserto” e che “le parole non sono mattoni”. Ed uno dei motti più urlati è «La terra trema, la casa manca, a Trieste dorme la giunta bianca», con riferimento a quella regionale guidata dal presidente Antonio Comelli, democristiano. (Ivi, pp. 66-67).
Successivamente, un’altra manifestazione, organizzata da partiti e sindacati, si svolge ad Udine. Infine tremila lavoratori del pordenonese, di Spilimbergo e Maniago, scendono in piazza per denunciare una comune situazione caratterizzata da: lentezza, inefficienza, burocrazia e accentramento nel procedere nel post terremoto. (Ivi, p. 68).

La Regione ha fretta di ritornare alla normalità, di dare un tetto a chi non ce l’ha più, e sceglie otto ditte per ricostruire. Sono: la Della Valentina di Sacile Cordigliano; la Volani di Rovereto; le Industrie Carniche di Comeglians; la Pittini di Udine; la Presmont Vega di Villa Santina; la Sicel di Perugia; la Tacchino di Gorizia; la Tecna di Milano. Otto imprese per 298.700 mq di coperto. Ma c’è chi si chiede quanto dovranno attendere bimbi e vecchi nelle tende prima di avere una nuova sistemazione. (Ivi, p. 69). La Regione dice che potrebbero momentaneamente esser ospitati a Lignano, ma la gente vive la legge che lo permette come la “legge della deportazione”. (Ivi, p. 70). Ma prima di deportare, si giunge a cercare di applicare il “piano baracche”.

Nel frattempo politici vari accorrono in visita ai paesi del terremoto; il 10 agosto 1976 il senato approva la legge sugli espropri per l’acquisizione delle aree edificabili; il Coordinamento delle tendopoli di Gemona agonizza, mentre quello di Artegna diventa più vivace.

Il 6 agosto vi è una assemblea a cui partecipano più di venti paesi terremotati. Vengono trattati, in quella sede, diversi problemi: da quelli legati alla ricostruzione a quello più banale di dove mettere tante macerie, che spesso non sono ancora state rimosse. E la popolazione inizia ad unire alla domanda di una soluzione degna per i propri problemi di senzacasa, le richieste di: una Università ad Udine, il tempo pieno nella scuola, una riforma dell’agricoltura, la promozione dei servizi socio-sanitari, sposando un’idea di ricostruzione del Friuli che viaggia pari passo con quella di rinascita friulana. (Ivi, p. 74).

Quindi il 3-4 settembre giunge in visita, nel Friuli terremotato, Giulio Andreotti, ed alla fine di settembre ha luogo l’occupazione simbolica, da parte dei terremotati, delle sedi del Messaggero Veneto e della Regione, mentre si susseguono blocchi stradali.
Così Giulio Andreotti, il 4 settembre, si trova in una situazione dove 4000 persone sono uscite da tende e prefabbricati per recarsi in strada ed attuare il blocco viario dei nodi stradali più importanti deciso dal Coordinamento dei Comitati delle tendopoli, e, che, dopo un giorno di pioggia e di fango, si trovano a dover subire pure le cariche della polizia. (Ivi, p. 78). Piove e nevica quando giunge Andreotti, ed il popolo del Friuli gli dice: «Non occorrono discorsi. Qui fa freddo. I vecchi li facciamo dormire vicino ai forni. Non resistono più al gelo ed all’acqua». Ed un anziano dice ad Andreotti che si sta recando in cimitero, «Venga a trovare i vivi non i morti». (Ivi, p. 79).

E più l’inverno si avvicina più incomincia a far capolino una vera e propria “psicosi da tenda”, mentre i prefabbricati sono pochissimi, ed i terremotati iniziano ad ammalarsi di nevrosi, di bronchite, di artrite, e tutti hanno in corpo quelle 186 scosse pesanti che hanno rappresentato quella che viene chiamata ‘la coda del terremoto’. Così chi cerca rifugio in un box in lamiera, chi nel proprio garage, chi in un ex- porcile di proprietà.

Poi l’11 settembre: gli alpini giunti in soccorso delle popolazioni friulane, ritenendo terminato il loro compito, dopo aver rabberciato almeno i tetti, se ne vanno, mentre improvvisamente l’”orcolàt” si torna a far prepotentemente sentire. In 20 secondi cancella tutto il lavoro fatto dopo il 6 maggio 1976, e quello che era rimasto in piedi crolla definitivamente nei centri di Venzone, Gemona, Ospedaletto, Artegna, Magnano in Riviera, mentre quelli che avevano tentato di rientrare nelle case devono tornare precipitosamente ad uscire ed a cercare una tenda.  (Ivi,p. 81).  Siamo alla catastrofe. Ritornerà in Friuli, in fretta e furia, l’esercito, e la gente verrà incanalata verso il mare. Mio padre, assieme ad altri, organizza le scuole a Grado in tempo da record, mentre una lunga fila di friulani, con le poche cose che ha, si incammina verso una camera ed un piatto caldo.

E per ora io mi fermo qui, ringraziando Mons Duilio Corgnali per il suo testo, di cui io ho preso solo una parte, e che prosegue. 

Laura Matelda Puppini

Ricordo qui gli articoli già pubblicati sul terremoto e sui terremoti su: nonsolocarnia.info:

-Quei terremoti del 1976, che cambiarono il Friuli

-Il mio ricordo dei terremoti del 1976.

-Terremoti del 1976, ricostruzione museo Gortani e campi di prigionieri militari alleati a Sauris ed Ampezzo, uniti in un’unica storia.

-1976. Dopo i terremoti del 6 maggio e del 15 settembre, la gente abbandona i paesi. L’esperienza del Centro Operativo Scolastico Scuola Elementare per sfollati di Grado.

-Bruno Mongiat, “1976. Terremotati sfollati a Grado. Un’esperienza dall’alto valore umano”. Intervista di Laura Matelda Puppini, 19 settembre 2016.

-Giuseppe Craighero (Sef Craigher). 1976 sfollati a Grado. Primo racconto. Il pranzo dell’Ispettore in missione.

-Agra (Varese), Natale 1976, immagini post- terremoto del Friuli: ultimi aneliti di grande solidarietà collettiva. Poi l’individualismo.

-Terremoto del Friuli e ricostruzione. Esiste un “modello Friuli” e cosa si dovrebbe imparare da questa esperienza?

-Serena Pellegrino. Esame del D.L. relativo a nuovi interventi per le popolazioni terremotate. Problemi sul tappeto…

-Il terremoto in Lazio Marche ed Umbria. Il prevedibile e la messa in sicurezza degli abitati. Ma … Per quei morti nel 2016. Aggiornamento il 26/8/ c.a.

Per terminare riporto due righe biografiche su don Duilio Corgnali: nato il 26 marzo 1946, ed ordinato sacerdote il 9 ottobre 1971. È attualmente parroco a Sedilis di Tarcento e svolge anche altri compiti in paesetti limitrofi ed a Tarcento stesso. È stato pure per anni noto e stimato direttore di La Vita Cattolica.

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta un particolare della vita in tendopoli a Cavazzo Carnico, ed è tratta da: AA.VV., Immagini nel tempo. Persone, luoghi, eventi di Cavazzo Carnico, Cesclans, Mena, Somplago. Toso ed., 1996. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

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