Vorrei scrivere solo due righe sulle molestie, fisiche e verbali, a sfondo sessuale, denunciate da più donne, ben oltre il centinaio, a Rimini, da parte di soggetti iscritti all’Ana nel corso del raduno degli alpini, come nipote di Emidio Plozzer, reduce dell’Ortigara, ferito in combattimento, che orgoglioso portava il cappello con la piuma bianca alle adunate, essendo ufficiale di grado superiore. E vorrei incominciare parlando dell’Ana.  

L’Ana è la Associazione Nazionale Alpini, ma se un tempo, in particolare ai tempi in cui il servizio militare era obbligatorio, poteva farne parte solo chi aveva fatto la naja che non durava certo due mesi, ora, per rimpolpare le file, detta associazione privata permette di partecipare alle attività delle sezioni sia persone che abbiano compiuti due mesi di servizio militare nel corpo degli alpini, il che però non è così semplice in un esercito ormai superspecialistico, che nulla ha a che fare con quello di un tempo, o aggregati, che però non possono avere per i primi due anni la tessera né portare il cappello alpino. Ma dopo un paio di anni gli aggregati, se hanno collaborato con la Sezione o con il Gruppo nelle attività associative, possono ottenere la qualifica di “Amico degli Alpini”, potendosi fregiare del copricapo (di tipo “simile alla norvegese” con un fregio raffigurante un’aquila nera che sostiene il logo dell’Ana) e degli altri segni distintivi appositamente previsti. E gli “Amici degli Alpini” possono sfilare alle manifestazioni nazionali, sezionali e di Gruppo, inquadrati in un unico blocco nelle rispettive Sezioni o Gruppi, indossando il copricapo previsto. (https://www.ana.it/iscriviti-allana/). Inoltre ora qualsiasi può acquistare per l’occasione un cappello alpino in una bancarella ed aggregarsi.

Pertanto l’Ana dei tempi di mio nonno Emidio, che aveva partecipato alla grande guerra ed era stato militare anche nella seconda, e che andava alle adunate per incontrare altri che avevano combattuto con lui, per ritrovarsi e, forse, per superare la tragedia di certi ricordi, e l’Ana di Mario Candotti, reduce di Grecia e Russia e poi comandante partigiano, nulla hanno a che fare con l’Ana attuale, e ritengo che sempre più iscritti, per questioni di età, non possano rappresentare quella solidarietà e quello spirito di amicizia che univa chi aveva visto la guerra con i propri occhi, e che mai si rivestì del mito pagano dell’ ‘Alpino’ con la ‘A’ maiuscola. Non mancò certo negli alpini allora, forse più nella truppa e fra i sottoufficiali che fra gli ufficiali, lo spirito di corpo, necessario anche per andare a combattere vincendo la paura. Ma questo è accaduto ed accade anche per altri corpi militari che formano le Forze Armate Italiane.

Emidio Plozzer, forse già colonnello degli alpini, sfila all’adunata tenutasi nel 1965 a Trieste.

Vi è un libro, che non ho letto, che tratta del mito dell’Alpino superiore a tutti, che ha più a che fare con il mito del superuomo, a mio avviso, che altro. Il volume scritto da Claudia De Marco, si intitola proprio “il mito degli alpini”, ed è stato edito da Gaspari nel 2004.

Il mito degli alpini- secondo Marco Mondini, rientra nei processi di «creazione dei miti guerrieri e delle comunità immaginate createsi attorno ad essi», ed a suo avviso l’epos alpino trova la sua cristallizzazione negli avvenimenti della prima guerra mondiale, allorché le pratiche discorsive erano, come ora del resto  secondo me, alimentate da codici retorici ormai ben definiti: nello specifico il legame intimo e profondo tra battaglione-famiglia-piccola patria;  la montagna vissuta come  luogo di selezione ma anche, a mio avviso, di superiorità a causa dell’ asprezza delle difficoltà da affrontare, e l’alpino veniva visto, da certa retorica, come prototipo del popolo dabbene, socialmente integro e politicamente affidabile e come espressione di comunità immaginate. (https://www.sissco.it/recensione-annale/claudia-de-marco-il-mito-degli-alpini-introduzione-di-mario-isnenghi-2004/).

E, nella presentazione della casa editrice, si legge: «Dalla conquista del Montenero ai massacri dell’Ortigara, si identificano i luoghi, le circostanze e i personaggi del costituirsi della vera e propria epopea degli Alpini. In questo viaggio della e nella memoria l’Alpino-tipo si concretizza e si racconta non come un qualunque contadino-soldato pieno di disciplina, passività e rassegnazione, anzi un buon montanaro e un buon alpino sono pieni di intraprendenza, sanno arrangiarsi in qualunque circostanza, sono dei cento-mestieri allevati dalla vita ad affrontare le situazioni e a cavarsela. Questi risvolti comportamentali danno origine a tutta un’aneddotica, un colore e anche a una letteratura che mostra come si alimenti il mito che intanto vien formandosi di questo soldato e uomo del popolo in divisa, fante, ma fante con la penna assolutamente speciale e con una sua pronunciata identità». (https://www.gasparieditore.it/il-mito-degli-alpini).

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Ed il mito degli alpini, secondo me, si inserisce in quello di una società ideale ma immobile, ove la perfezione è tale da non richiedere alcun mutamento, ove l’essere stato o l’essere soldato è la cosa più importante della vita, quella che plasma l’esistenza.  Ed a mio avviso, il mito dell’Alpino ha a che fare con il mito fascista dell’alpinista superuomo, appartenente ad una visione assolutistica della realtà, che viola le montagne e si irrobustisce nell’aria tersa, che mette costantemente in attività i muscoli, e viene temprato fisicamente e moralmente dalla fatica, dai pasti frugali, dalle privazioni.

Miti come questo, ove pure una sconfitta come quella di Adua si trasforma, nell’immaginario collettivo, in un evento glorioso (https://www.sissco.it/recensione-annale/claudia-de-marco-il-mito-degli-alpini-introduzione-di-mario-isnenghi-2004/) si sposano con la celebrazione del ‘Milite ‘ignoto’, con l’esaltazione dei caduti per la Patria e della sua difesa, (anche se la prima guerra mondiale fu combattuta dall’Italia per annettere Trento e Trieste, non essendo stati violati i suoi confini nel 1915), ed alcune guerre furono di mera conquista) e con la mistica fascista.

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E detto mito Alpino è stato ripreso nel secondo dopoguerra, in un clima di guerra fredda, come sostegno ad una visione anticomunista e di destra della società che non era presente in forma così marcata in precedenza, fino a far coniare l’’alpinità’ come valore. Non solo: attualmente l’essere cattolico, ed il sostenere ‘valori tradizionali’ cioè contrari ad ogni cambiamento, e la famiglia tradizionale caratterizzano l’Ana, quando, per inciso, è noto che l’omosessualità maschile è sempre stata diffusa negli eserciti e nei seminari, in assenza di donne.

«Nei nostri scritti e discorsi infiliamo tranquillamente termini quali spirito alpino piuttosto che valori alpini e poi quando il momento è propizio sventoliamo l’alpinità. In più di un’occasione ho discusso con amici alpini circa il reale significato di questi vocaboli, le risposte sono state le più disparate e qualche volta ho visto anche degli imbarazzati silenzi.» – scrive Alberto Pieropan. (https://www.anavicenza.it/sito/nostre-prigioni-02.php).

E Pieropan continua la sua riflessione, dicendo che l’ ‘Alpinità’ è la categoria metafisica, l’idea filosofica astratta di riferimento essenziale e quotidiano per gli alpini dell’ANA, per quelli in armi, per gli amici degli alpini, per l’Associazione, mentre il concetto di valori alpini ha a che fare con il patrimonio morale di ciascun alpino e quindi dell’Associazione. «Se ne fa un gran parlare – scrive Pieropan –  e, anche se non se ne parla, i valori alpini sono continuamente sottintesi; in realtà vengono poco o per niente citate le loro realizzazioni concettuali. Vogliamo provare a citarne qualcun altro: la Patria, la memoria dei Caduti, l’onore, la famiglia, la conoscenza della storia come maestra di vita, la trasmissione della cultura della montagna, l’amicizia disinteressata, la disciplina, ecc.  Valori conosciuti da tutti, ma quanti li perseguono con la dovuta fermezza?» (https://www.anavicenza.it/sito/nostre-prigioni-02.php).

Inoltre chi unisce gli alpini al vino, non sa che gli alpini che combatterono, per esempio, nella prima guerra mondiale, spesso soffrirono fame, sete, e che se veniva loro data della grappa era per mandarli avanti a morire, quasi intontiti, magari con le baionette dei carabinieri alle spalle. Ma pare che gli Usa, mandassero in Vietnam a morire i loro marines, ed a superare l’orrore che ogni guerra comporta, fornendoli di droga, la ‘nuova grappa’ per i combattenti.

Tessera di riconoscimento dell’allora Maggiore Emidio Plozzer, 1941, forse.

A questo punto si impone una riflessione. Le adunate alpine non possono diventare dei quasi ‘baccanali’, delle feste dove proprio quei valori alpini che si dice di rappresentare vengono disattesi, e fra questi il rispetto dell’onore delle donne, che per uomini come mio nonno e Mario Candotti, ufficiali degli alpini, era sacro E io sono una di quelle persone, definite ‘stupidine’ dal giornalista friulano Toni Capuozzo, che ha firmato una petizione su change.org per lo stop alle adunate alpine, almeno per ora, perché l’Ana deve riprendere in mano la situazione, deve evitare che le sfilate ed i raduni si riempiano di oltraggi a persone che lavorano e non, deve chiarire che partecipare ad una festa alpina non è fare un baccanale, senza se e senza ma … Ed a nulla vale nascondere qualcosa sotto il tappeto: non è la prima volta che accadono fatti spiacevoli a donne in questi raduni, da che si sa.

Io conosco persone degne di indossare il cappello alpino, e tra questi coloro che si dedicano a raccolte di cibo per poveri o per rifugiati o, ora, per l’Ucraina, ed ero contenta di vedere il mio nipotino Andrea su di una foto in braccio al nonno Marino sulla rivista della sezione Ana locale. E non vorrei che tanti piccoli ‘scarponcini’ dovessero vergognarsi di quelle foto a causa di alcuni, che non sanno assolutamente comportarsi civilmente, ma si dedicano invece, sicuri magari dell’impunità data da un cappello alpino, a quelle che qualcuno definirebbe, bonariamente, goliardate, ma che sono vere e proprie molestie all’ onore delle donne, non accettabili, e giustamente denunciate.  E spero che, al di là della giustizia, l’Ana sappia prendere provvedimenti, altrimenti può chiudere.

Senza offesa per alcuno,

Laura Matelda Puppini – nipote di Emidio Plozzer.

L’immagine è quella già utilizzata per presentare l’articolo ‘Perché no all’ANA in sanità. Problemi e perplessità’, (http://www.nonsolocarnia.info/perche-no-all-ana-in-sanita-problemi-e-perplessita/) che vi invito a leggere. L.M.P. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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