Nel trentesimo della morte, molto opportunamente l’Ana di Pordenone e di Ampezzo hanno ricordato Mario Candotti, di Ampezzo, poi emigrato a Pordenone. (Giovanni Martinis, Ampezzo. Gli alpini pordenonesi e ampezzani ricordano Mario Candotti nel 30° della morte, in: Carnia alpina, 15 ottobre 2015, p. 37). Avrebbero potuto farlo pure assieme all’Anpi, dico io, ma sarà per la prossima volta.
Voglio anch’io ricordare Mario Candotti, riproponendo, dopo le righe da me scritte come biografia, in Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, pp. 382-383), le parole scritte da Romano Marchetti, l’osovano Cino Da Monte, dopo la sua morte e pubblicate su Nort, giornale della Carnia e della montagna friulana, n. 8, gennaio/febbraio 1986, p.7.

Di chi si parla. Scheda biografica di Mario Candotti.

Mario Candotti, ufficiale e comandante partigiano, nomi di battaglia Barbatoni (riportato anche come Barba Toni),  Mario, (secondo Romano Marchetti anche Candioli), nacque ad Ampezzo (Udine) il 16 ottobre 1915. Chiamato alle armi nel 1939, prese parte, come ufficiale di artiglieria della Divisione Alpina Julia, alle operazioni di guerra sul fronte greco – albanese e su quello russo, da cui riuscì ad uscire vivo, portando a casa pure molti dei suoi soldati. L’8 settembre 1943 si trovava a Nimis, in transito verso Montespino di Gorizia, ove avrebbe dovuto esser impiegato contro i partigiani dell’esercito di Liberazione Jugoslavo ed apprese, dalla gente del luogo, dell’avvenuto armistizio. Nei giorni successivi continuò la ridda di notizie finché, già raggiunto dall’ordine di sgombero, decise di portarsi in bicicletta ad Ampezzo. Ed ad Ampezzo incontrò, il 15 aprile 1944, i partigiani garibaldini comandati da Tredici. Nel giugno 1944 entrò a far parte del btg. Carnico della Divisione Garibaldi – Friuli, che comandò dopo il 23 luglio dello stesso anno. Successivamente, dal novembre del 1944, rivestì la carica di comandante della Divisione Garibaldi Carnia Nassivera, di cui fu Capo di Stato Maggiore il suo amico Ciro Nigris, Marco. Non apertamente comunista, come precisa nel suo diario, nel dopoguerra insegnò, in un primo tempo, come maestro elementare, diventando, poi, direttore didattico ed infine ispettore scolastico a Spilimbergo. Morì a Pordenone l’11 maggio 1985, a causa di un incidente stradale. E’ autore di diversi articoli sul periodo della resistenza. Il suo diario fu pubblicato, postumo, in un primo tempo, nell’ottobre – novembre 1985, a puntate sul quotidiano “Il Piccolo”, edizione del Friuli Venezia Giulia, in un secondo tempo come volume: Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa, naia, guerra, resistenza, ed. I.F.S.M.L., 1986». (Scheda di Laura Matelda Puppini, in Romano Marchetti, op. cit., pp. 382-383. Per una scheda più approfondita, consiglio quella pubblicata in: www.anapncentro.it/StorieVecchiAlpini/CandottiMario.htm).

Così ricordava Romano Marchetti, partigiano osovano, l’amico partigiano garibaldino dopo la sua morte. (Romano Marchetti, a cura di Laura Matelda Puppini, ivi solo L. Puppini , Mario Candotti “Barba Toni”, comandante partigiano, insegnate, storico, in Nort, op. cit., p.7).

Romano Marchetti: «Mario Candotti “Barba Toni”, comandante partigiano, insegnante, storico».

Al telefono la voce triste di Ciro Nigris: «Mario Candotti è morto, Barba Toni è morto, travolto da una macchina.
Due giorni dopo, in una luminosa giornata di maggio, Ciro rievoca, nel cimitero di Ampezzo, l’esemplarità e la vita eroica di Mario, combattente, insegnante, storico. Davanti a lui la bara: sotto i brevi scalini di marmo il popolo di Ampezzo e molti pordenonesi immobili, ad ascoltare, sentire. Tra loro Andrea, Gianna, molti garibaldini ed osovani convenuti per dare l’ultimo saluto al compagno di lotta. Chi rimediti sulle parole di Andrea nel duomo pordenonese o su quelle di Marco che rievoca la figura di Barba Toni, chi ripensa agli incontri avuti con lui, giunge, a ritroso, a molti quadri di cui Candotti fu massimo attore.

La guerra è finita da tempo: egli è maestro a Forni di Sotto. Il paese è tutto un cantiere di ricostruzione: le affumicate macerie, retaggio della rappresaglia nazista, non hanno più la forza di scoraggiare la gente. Soltanto la sera un po’ di relax: circondato dai suoi paesani più o meno autorevoli, Mario non si fa pregare a lungo ed inizia a suonare, con trasporto e sensibilità la sua fisarmonica. Motivi tradizionali onesti e ladins, talvolta allegri, talvolta dolenti, riempiono gli animi. Ha imparato a suonare da ragazzo, forse quando, piccolo commesso di negozio presso i Pezza ad Ampezzo, allora qualificato centro turistico, si adoperava come suonatore nella banda comunale esprimendo così, nel relax, con il piacere per l’espressione più amata, l’attaccamento al proprio paese. Forse prima ancora. Che soffocasse così l’amarezza di aver lasciato lo studio?

Ma non si era arreso ed in segreto qualcosa faceva. Penso si fosse confidato con il vecchio maestro Benedetti, che lo ricorda come il miglior allievo, che commosso si era deciso, dopo aver spolverato le sue vecchie cognizioni, di fargli ripetizioni gratuite di latino.

La musica, comunque, sembra quasi il motivo di fondo della vita di Candotti. Quella sera, a Forni di Sotto, mentre suona, credo rievochi allo stesso tempo lo strano periodo di ansiosa calma che seguì l’8 settembre, quando, dopo lo sbandamento generale, aveva istituito ad Ampezzo, non ancora capitale della Repubblica partigiana, una scuola di musica dai molti allievi che talvolta lo costringevano ad esibirsi in serate danzanti nei vari paesi del mandamento ora soppresso.

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Il mio ricordo arretra ancora: va al funerale di Tita, Battista Candotti, assassinato dai fascisti senza ragione, a cui Mario partecipò come tanti altri, all’abbracciamento di Forni di Sotto, alla scelta da lui fatta di prendere la via della montagna, al suo crescere da semplice partigiano a comandante di compagnia prima, brigata e divisione poi, alle frequenti e fruttuose azioni, da lui dirette, contro la ferrovia pontebbana, nodo vitale per le truppe tedesche in Italia.
E sono ancora le note del Gloria, suonato dalla fisarmonica di Barba Toni, che sanciscono, dopo il suo preziosissimo intervento all’albergo Nord di Ovaro, di ridosso alla tragedia autunnale dell’invasione cosacca, l’unificazione del Comando Brigata Garibaldi/Osoppo-Carnia.

Due mesi dopo la scena è molto diversa: ecco il miracoloso salvataggio di Andrea e Gianna. Il primo, con sette denti scardinati in un tremendo ruzzolone da una motocicletta senza freni mentre infuria la battaglia di Tramonti, la seconda con i piedi semi-congelati dal freddo. Mario li aveva condotti tra le maglie nemiche sino ad un rifugio sicuro sul Pura, alimentando Lizzero tramite un culmo d’erba fistoloso così sottile da poter passare tra le bende ma di sufficiente calibro per consentire ai fagioli sciolti in acqua, o forse altro, rimediato non si sa come, di pervenire alla sua bocca e ripristinando a Gianna la circolazione, grazie ad un estenuante massaggio con la neve, praticato sui piedi già avvolti da stracci (gli scarponi servivano di più ad un combattente garibaldino). In questo caso Mario si era certamente servito dell’esperienza russa e di quella accumunata come alpinista e boscaiolo nell’ impresa del padre.

Si dice che proprio lui, tenente di artiglieria, abbia salvato i suoi a Nowo Georgewskji, dirigendo la ritirata di quel gruppo di larve umane barcollanti, distrutte dalla fame, dal sonno, dalla fatica e dal gelo, gettate qua e là dal tuonare delle artiglierie e dal crepitare delle mitraglie in quella tragica notte, con l’intero paese ridotto ad un cumulo di macerie, ed i carri armati che turbinavano come potrebbe testimoniare mio fratello, Baldo Marchetti, che rammenta: «fratello cordialissimo come sempre, Mario mi accolse, illuminandosi, pochi minuti prima della mezzanotte, passata la quale secondo l’ ordine, doveva rientrare; si frugò anche nelle tasche per dare a me ed agli uomini che mi seguivano in quell’incubo interminabile della ritirata, in Russia, della cioccolata e del cognac, rimediati non so come: furono preziosi per la nostra vita. Poi risalì sul camion, e noi dietro, faticosamente».
Di ciò furono testimoni anche Lampo e Lupo, che nulla obiettò su quanto riferito in proposito da Giovanni Bergagnini in “Nie Ponimaiu”.

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Risalendo i ricordi, lo vedo comandare la pattuglia di osservazione e collegamento presso il battaglione Gemona, sul Golico. Sono appena arrivato, pulito pulito, con altri complementi ufficiali dall’Italia, a sostituire morti e feriti. Il tenente Candotti è là, all’entrata della caverna che ospita il comando del Btg. Gemona: sorride, quasi quasi, nel sentir parlare un dialetto simile a quello di Ampezzo. Ci presentiamo: Giovanni Del Negro, maestro, di Paularo, Tomasin di Subit, maestro pure lui, Romano Marchetti, di Tolmezzo.
Mario fa un gesto fuggevole al suo attendente, mentre con qualche battuta umoristica tenta di coprire gli schianti delle bombe da mortaio greche. Quest’ultimo estrae furtivamente dalla tasca una leggera camicia metallica, una di quelle delle bombe a mano Balilla, color rosso. Non c’è alpino, laggiù, che ne difetti: protegge le sigarette dall’umidità.

È questa certamente un’esperienza istruttiva per chi, come me, borghese, da un lustro non aveva avuto il piacere di conoscere tali bombe, nemmeno durate l’ultimo addestramento.
Parigi val bene una messa”, con buona pace della gerarchia di quel tempo, che pretendeva una concezione quasi religiosa del “dovere” e verso le armi.

È bene chiarire che nelle scuole allievi ufficiali di allora la disciplina era praticamente ferrea, e che scienza ed industria marciavano su binari ben distinti. Il più sprovveduto dei soldati poteva verificare come, ai fini della vittoria, non risultasse importante dar peso ad ordini dalla conseguenza pratica nulla o quasi.

Guardando dall’alto alla nostra vicenda, non si può evitare di pensare ad Eraclito ed al suo “Il demone dell’uomo è il suo destino”, se ci si sofferma sulle prove che Mario Candotti dovette affrontare.
Un grosso scontro, in ambito morale, fece stravolgere l’indirizzo che Candotti aveva scelto per sé.
Seminarista, all’esame più importante, quello che lo doveva introdurre allo studio della teologia, fu colto da un’epistassi incontenibile, che lo portò ai limiti della resistenza e sofferenza.
Per più di un anno, dopo il fatto, continuò a portare la veste, ed a dedicarsi, quando il male non glielo impediva, ai bimbi ed ai giovani studenti del collegio salesiano di Tolmezzo. E pur debole ancora, impacciato nella tonaca, si lanciava nelle acque rapide del Lumiei a salvare un giovane amico. Ma infine anche Mario deve cedere: la vita dello studente collegiale non è adatta a lui.

Interviene il padre, rude boscaiolo fra i suoi boscaioli, lo strappa dagli studi e lo costringe alla vita stressante ma sana della montagna. Formaggio, ricotta, polenta, carne, fagioli, diventano gli alimenti base della sua dieta. In montagna non muore, anzi, rinasce, diventa una dura roccia. Così a 22, 23 anni il fato finisce per strappargli la tonaca, ma non la volontà di fare l’educatore.

Rinato fisicamente, supera a Trieste l’esame magistrale, e si iscrive alla Facoltà di Lingue a Venezia. Supera anche l’esame di maturità scientifica. Ma fa a tempo a superare solo qualche esame che Lucca lo chiama: così diventa allievo ufficiale di artiglieria. Prima che inizi la seconda guerra mondiale è in Grecia: è il 1940, Mario ha quasi 25 anni.
Qualche mese dopo ecco il nostro incontro sulla bocca della caverna: egli sorride ai paesani un po’ stralunati dall’inconsueto ruolo di apprendisti guerrieri.
Lo ritroviamo quindi in Russia ed infine a trascorrere il tremendo inverno 44/45 nel gelo e nella neve sulle alte quote dei monti del saurano e dell’ampezzano.

Possiamo affermare, senza tema di smentita, che molti garibaldini, giovani e non, devono esser grati anche a lui se superarono quell’inverno in montagna, e si deve anche alla sua azione di comando il merito di quella resistenza invernale durante la quale si prepararono le basi per la vittoria in arrivo.
E fu Barba Toni, aiutato da altri, per esempio da Ape, Marco, Augusto, che resse la Garibaldi/Carnia con efficienza e semplicità.

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Mario era nato nel 1915, anno in cui il padre, per la prima volta, era stato messo in ginocchio da fatti più grandi di lui. (Si rialzerà questa ed altre due volte). In Bosnia era titolare di un’impresa boschiva con una quarantina di dipendenti, e costruiva fascere per formaggi ed anche di dimensioni maggiori, che venivano usate in Tunisia e Turchia per colture pregiate in roti e giardini.
Aveva dovuto abbandonare tutto e fuggire con l’avvento della guerra, e sotto questi tristi segni Mario Candotti aveva visto la luce. Molto giovarono certamente, alla sua cultura, l’aver studiato a Torino, fuori dalla Carnia, ed aver frequentato, a Lucca, l’ambiente toscano.
E prima di concludere due parole ancora sul suo recente impegno come storico: collaborò attivamente con l’Istituto Friulano per la Storia del movimento di Liberazione: il contributo da lui fornito è di notevole importanza e qualità.

In Mario Candotti, Barba Toni, Candioli, la norma di vita furono la fedeltà e coerenza con il proprio cristianesimo, con il marxismo dei carissimi amici, con lo spirito ed il sentimento alpini anche quando la guerra manifestò maggior durezza come nei giorni che seguirono la Liberazione.
Questa vita, mi pare, suona ad ammonimento all’attuale società nel suo insieme, che non sembra notare il crescere delle ingiustizie sociali e pare andar sciogliendosi in un baillame rumoroso ed irresponsabile, quando non sanguinario, che mette in primo piano l’arricchimento a spese degli altri e tiene in così poco conto valori fondamentali come quell’onestà, coerenza, semplicità, altruismo, di cui Candotti fu portatore. Per questa strana conclusione verrà forse un ghigno ironico ed il tacito commento: «buoni per la prossima, sempre definita sacrosanta guerra». Anche se non difensiva? Pure se di forma del tutto nuova? Anche se con imperscrutabili confini sempre mutati?» Romano Marchetti ( A cura di Laura Matelda Puppini).

Nota 1. Persone descritte da Romano Marchetti con il solo nome di battaglia: Tredici: Angelo Cucito, garibaldino; Marco: Ciro Nigris, garibaldino ; Andrea:  Mario Lizzero, garibaldino; Gianna: Fidalma Garosi, garibaldina;  Lampo: Vittorio Della Schiava, di Salino di Paularo, poi partigiano osovano; Lupo: Giovanni De Mattia di Sutrio, poi partigiano osovano;  Ape: Tranquillo De Caneva, garibaldino;  Augusto: Carlo Bellina, garibaldino.

 Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è un particolare di una fotografia che fa parte del fondo fotografico Candotti Mario Barbatoni,  di proprietà dell’ Ifsml.

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