Ero a Roma il 25 aprile 2015, anche se Roma fu liberata il 4 giugno 1944,

• per sentir parlare di fascismo, nazismo e liberazione, non di titini e confini;

• per trovarmi in un incontro invece che in un corteo come avrei desiderato;

• per imparare tante cose.

Ero a Roma il 25 aprile per sentir ricordare i militari italiani, circa 20.000, che, sorpresi dall’ 8 settembre 1943 in Montenegro, non esitarono a prendere le armi contro tedeschi e fascisti, al fianco dei partigiani jugoslavi.

« 25 aprile. Intere divisioni del “ regio esercito” passarono ai partigiani, migliaia di soldati italiani morti per la libertà della Jugoslavia», intitola Patria Indipendente.
Sottotitolo: La scelta nell’ottobre del 1943. La decisione del Generale Oxilia e dei suoi 12 mila soldati. Anche la divisione “Taurinense” decise di battersi contro i nazisti. Via via la scelta giusta di tanti altri. I partigiani della “Garibaldi”. La bandiera italiana a Belgrado liberata.

«Secondo me, – scrive l’autore del pezzo, Giacomo Scotti- la vera data di nascita del nuovo esercito italiano inteso come esercito democratico, antifascista e parte integrante della coalizione antihitleriana nella seconda guerra mondiale dovrebbe essere anticipata al 9 ottobre 1943, giorno in cui il generale Giovanni Battista Oxilia, comandante della Divisione di fanteria da montagna “Venezia”, firmò a Berane, in Montenegro, un documento con il quale dichiarava che la Divisione “Venezia”, 12.000 uomini, “al completo, con tutte le armi, equipaggiamenti, vettovagliamenti e magazzini di cui dispone” restava nel territorio jugoslavo per combattere contro i tedeschi al fianco dei partigiani, coordinando le azioni militari con il comando del II Korpus dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (EPLJ), i cui uomini entrarono a Barane il mattino del 10 ottobre.

Quasi contemporaneamente, nel settore di Nikšić, sempre in Montenegro, l’esempio della “Venezia” venne seguito dalla Divisione alpina “Taurinense” al comando del generale Giovanni Vivalda. Questa Divisione, nel frattempo, era stata più che dimezzata in una serie di combattimenti contro i tedeschi, contro i filofascisti cetnici e contro gli stessi partigiani, nell’inutile tentativo di raggiungere la costa per l’imbarco, ma al tempo stesso nel generoso sforzo di portare aiuto alla Divisione “Marche” in Erzegovina e alla Divisione “Emilia” nelle Bocche di Cattaro.

Gli uomini della “Marche” furono quasi completamente catturati dai tedeschi; gli uomini dell’«Emilia» riuscirono in parte a raggiungere l’Italia. I superstiti della “Taurinense” – che erano stati attaccati perfino da reparti della Divisione “Ferrara” passata ai tedeschi – divennero tuttavia la punta di diamante della nuova unità di combattimento affiancatasi all’esercito di Tito.
Il 12 ottobre, quasi a inaugurare il nuovo capitolo della storia dell’esercito italiano, due aerei Macchi 205 partiti dalle Puglie raggiunsero il cielo di Berane, lanciarono il cifrario e stabilirono un collegamento adio regolare fra le due Divisioni e il Comando Italiano insediato a Brindisi. Questo nuovo esercito regolare italiano affiancatosi ai partigiani jugoslavi contava circa 14.000 uomini.

Alcune altre migliaia di soldati italiani, tuttavia, inseriti direttamente in varie Brigate jugoslave, già combattevano da un mese contro i tedeschi nel vasto scacchiere del Montenegro, delle Bocche di Cattaro e del Sangiaccato, avendo compiuto autonomamente e con notevole anticipo sulle decisioni dei generali Oxilia e Vivalda, la scelta della lotta partigiana. Mi riferisco, – sc orve sempre Giacomo Scotti – in particolare, al Battaglione “Italia” comandato dal capitano Mario Riva della “Venezia” e alla Brigata di artiglieria alpina “Aosta”, comandata dal maggiore Carlo Ravnich, il quale diventerà poi comandante della Divisione partigiana “Garibaldi” sorta nel dicembre dalla fusione delle Divisioni “Venezia” e “Taurinense” e dalla loro ristrutturazione secondo le norme dell’esercito partigiano jugoslavo. Erano stati proprio gli uomini di una batteria del Gruppo “Aosta”, la sesta batteria del tenente Francesco Perello, a impegnare i tedeschi nel primo scontro in terra jugoslava. (…).

L’8 maggio 1945 i combattenti dell’«Italia», dopo altri duri combattimenti sostenuti a Tovarnik, a Pleternica, sul monte Slijem, entravano vittoriosi a Zagabria. Erano circa 5.000 uomini ormai, strutturati su 12 Battaglioni, al comando di Giuseppe Maras, ex sottotenente dei bersaglieri; commissario politico Carlo Cutolo, ex tenente di fanteria; vice comandante e capo di stato maggiore il tenente Aldo Parmeggiani; vice commissario Attilio Mario Ceccarelli, ex soldato semplice; capo dei servizi stampa, cultura e propaganda Innocente Cozzolino, ex sottotenente; commissario di collegamento l’ex sergente Mario Gatani Tindari, siciliano, il quale era passato ai partigiani fin dal 1942. Nel cimitero di Zagabria, dove riposano le ossa degli ultimi caduti della Divisione “Italia”, sorge un monumento sul quale si leggono queste parole:

“Compagno, quando vedrai mia madre
dille di non piangere.
Non sono solo.
Giace al mio fianco
un compagno jugoslavo.
-Che nessuno ardisca
gettare fango sul sangue sparso
nella lotta comune.
Trovammo qui
fede – mare – pane – fucile.
I morti lo sanno.
I vivi – non lo dimenticheranno. –
Fiumi di sangue divisero
due popoli.
Li unisce oggi
il sacrificio
dei
compagni migliori.”

Non furono gli unici militari italiani a lottare in Jugoslavia per la libertà dei popoli e nche slavi dal nazismo e dal fascismo, ricorderà tito il loro sacrificio, nel lontano 1969, in quanto «Gli italiani per il loro numero, superarono la metà degli effettivi totali di tutte le formazioni volontarie composte da non jugoslavi. Il contributo è evidenziato anche dal fatto che ben ventimila sacrificarono la vita in terra jugoslava, praticamente la metà di tutti i combattenti.»
(Giacomo Scotti, Migliaia i soldati italiani morti per la libertà della Jugoslavia, in: Patria Indipendente, aprile 2013 a cui si rimanda, essendo articolo lungo per riportarlo integralmente).

Ero a Roma il 25 aprile per sentir parlare del sacrificio di moltissimi carabinieri accorsi ad arginare l’ entrata dei tedeschi a Roma.

C’era anche mio padre, fra quei 1100 carabinieri – narrava uno degli intervenuti – era giovane mio padre, era dell’arma dei carabinieri mio padre.

«La divisione paracadutisti del Generale Heindrich, muovendo dalla zona tra Pratica di Mare ed Ostia, investì quella parte di Roma, compresa tra i quartieri della Magliana e di Tor Sapienza, che era tenuta dalla divisione Granatieri di Sardegna, schierata a difesa sin dalle ore 20.30 dell’8 settembre. L’impegno profuso dai Granatieri di Sardegna, sebbene avesse bloccato i paracadutisti tedeschi, non era sufficiente a contenerli e sconfiggerli; così, attorno alle 23.00, su richiesta dello Stato Maggiore Regio Esercito, venne disposto l’invio di Unità di rinforzo (un reparto della Polizia dell’Africa Italiana, unità minori dell’8° Reggimento Lancieri di Montebello e un Battaglione Allievi Carabinieri).

Alle ore 23.30, il 2° Battaglione Allievi Carabinieri – composto da giovani allievi, carabinieri neopromossi e dagli ufficiali e sottufficiali d’inquadramento – strutturato su 3 compagnie, era pronto. Alle 23.45 era in movimento verso la Basilica di San Paolo, alla cui destra si attestò alle ore 00.30 del 9 settembre.
Il caposaldo n. 5, dislocato sulla via Ostiense, ponte della Magliana, era stato occupato dai tedeschi con uno stratagemma e la conseguente cattura della maggior parte dei Granatieri di Sardegna; se i tedeschi avessero conservato il controllo del caposaldo, sarebbero potuti entrare agevolmente nella città.
Il comandante del settore dispose lo spostamento del Battaglione Allievi Carabinieri nella zona della Magliana, per partecipare alla riconquista del caposaldo. Alle ore 05.00, il battaglione giunse al completo nella zona d’operazioni, e, unitamente ad un battaglione della Polizia dell’Africa Italiana ed al Reparto Esplorante Corazzato del Reggimento Lancieri di Montebello, attorno alle ore 06.00, iniziò l’attacco con i reparti sopraindicati insieme ad elementi del I e II battaglione Granatieri di Sardegna.
L’azione fu condotta con grande capacità, tanto che la massa nemica di 2.500/3.000 uomini fu costretta a spingersi verso il Tevere abbandonando il caposaldo n. 5 occupato alle ore 10.00. Quest’azione è stata ricordata così da un avversario: “ore 11 del giorno 9: un distaccamento di paracadutisti si trovava in seria difficoltà. I granatieri combattono splendidamente”.

Le unità impiegate rimasero nel settore di competenza a difesa del caposaldo, che veniva mantenuto anche dai Granatieri che erano stati liberati durante l’azione precedente. Allo stesso modo i Carabinieri continuarono a combattere riconquistando altro terreno e facendo numerosi prigionieri. La presenza in zona d’operazioni del 2° Battaglione Allievi durò sino alle 19.30 del 9 settembre, quando venne rilevato da un contingente di 200 Carabinieri del Gruppo Squadroni “Pastrengo”, appiedato, che rimase impegnato in numerosi scontri sino alla mattinata del 10 settembre, riuscendo a far desistere e ripiegare le unità paracadutiste tedesche.
Successivamente, giunse l’ordine di cessare il fuoco e lentamente i reparti italiani iniziarono a ripiegare verso la Capitale, sia pur a contatto con i tedeschi che continuavano a far fuoco, penetrando così nella Città Eterna.

Il Generale Carboni, “responsabile” della difesa di Roma, aveva, infatti, fatto sottoscrivere un accordo con le forze armate tedesche con il quale veniva mantenuta in servizio solamente una Divisione, la Piave, forte di non più di 4.000 uomini, con lo scopo di garantire l’esecuzione di servizi indispensabili all’interno della Capitale che veniva dichiarata “città aperta”.
L’accordo, siglato alle ore sedici del 10 settembre 1943, prevedeva appunto la cessazione delle ostilità.» (Flavio Carbone, La partecipazione dei Carabinieri alla Difesa di Roma – 8-10 Settembre 1943, in: http://www.carabinieri.it/editoria/rassegna-dell-arma/anno-2002/n-4—ottobre-dicembre/studi/la-partecipazione-dei-carabinieri-alla-difesa-di-roma—8-10-settembre-1943).

Ero a Roma il 25 aprile, per ascoltare Franco Marini parlare del campo di concentramento fascista di Sulmona, ove erano rinchiusi migliaia di prigionieri alleati. Scapparono dopo l’8 settembre, e furono accolti dai pastori abruzzesi che li rifocillarono dividendo “quel pane che  non avevano”, andando poi ad ingrossare le file dei partigiani.

Era siglato Campo P.G. n. 078 di Sulmona, che si trovava a circa 5 chilometri dalla città, il campo per prigionieri di guerra, creato dai fascisti fin dal 1940. Vi alloggiarono, fin al 1942 o 1943, un numero variabile di alleati e jugoslavi, in sintesi di nemici dell’ Italia fascista, fra i 2000 ed i 3000, ed erano francesi, inglesi, jugoslavi, australiani, sudafricani, neozelandesi, americani, canadesi, mediorientali.
Quei prigionieri, come tanti altri partigiani e non partigiani, non avrebbero potuto mai lottare e sopravvivere senza l’aiuto di tanti uomini e donne della popolazione, che rischiarono per nutrili, nasconderli, informarli. Ed i tedeschi non avevano pietà per nessuno, neppure per coloro che venivano definiti collaborazionisti della resistenza. L’esempio dei morti carnici a malga Pramosio ne è un esempio.

E non lasciarono passare quegli alleati in fuga, dopo l’ 8 settembre, tedeschi ed R.S.I.

«Era l’8 settembre 1943, il Maresciallo Badoglio comunicava alla radio la firma dell’armistizio con le truppe anglo-americane che, già sbarcate in Sicilia e ad Anzio, stavano risalendo l’Italia per liberarla dai fascisti e dai tedeschi. Liberare l’Italia dai tedeschi: quelli che fino a poche ore prima erano gli alleati diventavano di colpo i nemici. (…).
All’interno di questo spaventoso scenario di caos si venne a trovare la Valle Peligna nel settembre del 1943. A Sulmona, nei pressi di Fonte D’Amore era presente un vecchio campo di concentramento fatto costruire per i prigionieri della prima guerra mondiale; durante la seconda fu utilizzato dalle truppe italo-tedesche per i prigionieri alleati. Alla notizia dell’armistizio i comandi italiani del campo, meglio noto come campo n. 78 (dalla numerazione che i tedeschi diedero a tutti i campi di concentramento sul territorio italiano), furono colti dal dubbio di lasciare fuggire i prigionieri ora alleati o consegnarli ai tedeschi ora nemici-invasori.
Nella totale indecisione molti prigionieri si diedero alla fuga scappando attraverso le montagne col fine ultimo di passare il fronte e ricongiungersi alle truppe alleate che risalivano l’Italia. I giovani prigionieri si rifugiarono, per trovare un primo soccorso, nei paesi che circondano la Valle Peligna. In tutti i paesi erano presenti decine di prigionieri che ricevettero aiuto disinteressato dalle popolazioni. Intanto i comandi tedeschi iniziarono i rastrellamenti, e venivano affissi manifesti in cui si intimava, pena la morte, di non dare aiuto ai prigionieri e di consegnarli. (…).

Dopo la fuga dei prigionieri dal campo n. 78, le truppe tedesche si misero sulle tracce dei fuggiaschi. Il 17 ottobre venne cannoneggiato l’eremo di San Pietro Celestino sul Morrone in quanto si riteneva che ivi fossero nascosti. Nello stesso giorno i tedeschi setacciarono la zona morronese alla ricerca dei prigionieri, arrivarono fino alla zona del Castel D’Orsa, dove abitava la famiglia D’Eliseo, vivendo di pastorizia e agricoltura.

I fratelli D’Eliseo furono sorpresi con delle armi e furono condannati a morte come capi ribelli. Insieme a Giuseppe D’Eliseo e Antonio D’Eliseo, entrambi di Roccacasale, furono fucilati anche Antonio Taddei e Giuseppe De Simone, il primo di Roccacasale e il secondo di Pratola Peligna. La condanna fu eseguita il 20 ottobre alle ore 8 del mattino, all’entrata del cimitero di Sulmona […].
Il manifesto affisso il giorno 21 ottobre, in cui si annunciava la fucilazione, giustificava tale atto dicendo che i 4 italiani erano stati trovati in possesso di rivoltelle, bombe a mano e altri arnesi proibiti.

La verità sul vero motivo della fucilazione dei quattro ancora non è stata trovata, data la scarsa possibilità di reperire fonti documentali certe. Per saperne di più ci si è basati su fonti orali, dalle quali risulta che i quattro erano solo povera gente che non aveva nulla a che fare con i movimenti partigiani, che aveva aiutato qualche prigioniero per semplice carità cristiana, e il possesso delle armi viene giustificato come un mezzo di difesa e non di offesa. (…).“[…] tale uccisione rappresenta il primo vero crimine contro la dignità umana perpetrata nella Valle Peligna, [… ] da allora la ferocia nazista non sembra aver limiti[…] ”». ( “L’eccidio al cimitero di Sulmona”, in: http://www.roccacasale.it/eccidio-sulmona.html).

Ero a Roma il 25 aprile, per ascoltare della resistenza abruzzese, per sentir parlare una compagna comunista 90enne piena di orgoglio, presa di mira sin dalle elementari dalla maestra fascista; ero a Roma il 25 aprile per veder sventolare insieme bandiere rosse, di partiti, sindacati, emergency ed altre ancora; ero a Roma il 25 aprile per sentir parlare di costituzione in pericolo e di lavoro per i giovani e meno giovani che manca. Ero a Roma ad ascoltare, nuovamente, Sara Modigliani, e per sentire del grande impegno della brigata ebraica e del rabbino Elio Toaff, partigiano, morto a Roma a 99 anni, il 19 aprile. Ero a Roma il 25 aprile…

( L’ immagine in evidenza è quella dell’istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, per i 70 anni della resistenza e  liberazione).

Laura Matelda Puppini

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