Questo articolo contiene la trascrizione dell’incontro con il Magistrato Gian Carlo Caselli, avvenuto a San Daniele del Friuli il 16 dicembre 2016, organizzato da Festival Costituzione, e condotto da Marco Belviso. Nel leggerla dovete ricordarvi che Gian Carlo Caselli parla ad un pubblico vario, ed utilizza un linguaggio divulgativo. Le note da me poste in calce possono aiutare chi lo desideri ad approfondire gli argomenti ed i personaggi descritti dal giudice, che ringrazio per questi spunti interessanti di riflessione.

Chi è Gian Carlo Caselli, per chi non lo conoscesse …

Così inizia la serata Gian Carlo Caselli: «Innanzitutto buonasera a tutti e grazie per la vostra presenza. Può essere difficile credere a quanto vi dico: ma 46 anni a servizio delle legalità sono tanti, 46 anni ricchi, pieni di esperienza, ma  anche difficili: prima l’antiterrorismo, poi il Consiglio Superiore della Magistratura: quattro anni duri anche quelli; poi la Presidenza della Corte d’Assise a Torino, quindi la domanda di trasferimento da Torino a Palermo dopo le stragi, dopo la morte di Falcone e Borsellino e i  quasi sette anni di antimafia a Palermo; ed ancora: la Direzione delle carceri, poi un’esperienza in Europa come rappresentate italiano in una struttura che si chiama Eurojust (1), di coordinamento delle inchieste giudiziarie transnazionali. Infine il rientro a Torino, prima come procuratore generale ed infine, quando mi sono retrocesso, caso quasi unico nella Magistratura italiana, e sono sceso, su mia domanda, a Procuratore della Repubblica, come Procuratore. E da Procuratore ho chiuso la mia carriera, con varie inchieste sulla criminalità in Piemonte, in particolare sulle presenze n’dranghetiste in Piemonte, operazione, la prima di tante, denominata Minotauro.

Sapete che c’è il vezzo di chiamare le operazioni investigative giudiziarie con questo o quell’altro nome: questa si chiamava Minotauro: 150 arresti di colpo in provincia di Torino; e non cito questo numero per il gusto di fare il ragioniere o lo statistico del crimine, ma perché 150 arresti sono un pacchetto, e rivelano una presenza massiccia, preoccupante, della ‘ndrangheta in provincia di Torino. E posso fare questo numero perché le persone coinvolte sono state tutte giudicate fino al livello ultimo della corte di Cassazione, che ha confermato la condanna praticamente di tutti questi 150 soggetti».

Fare il Magistrato non è tutto rose e fiori

Marco Belviso, intervistatore, conferma che il curriculum di Caselli è vastissimo, e gli chiede se abbia dei rimpianti per la scelta lavorativa fatta, e se vi sia stata un’operazione di cattura che non gli hanno lasciato portare a termine.

Gian Carlo Caselli: «Nel libro che ho scritto racconto anche i momenti di difficoltà, momenti decisamente antipatici e momenti in salita, ma la domanda se abbia dei rimpianti forse a qualcuno può apparire retorica. Ed a qualcuno sembrerà che vi sia anche un po’ di arroganza, e, per carità, non lo escludo, da parte mia nel rispondere che, indipendentemente da quale fosse stata l’esperienza che stavo, in quella o quell’altra fase della mia carriera, vivendo contingentemente, ho sempre cercato di fare il mio dovere. Ed ho cercato di farlo ubbidendo unicamente alla legge, alla mia coscienza, ed alla ricerca, nei limiti della legge che dovevo applicare, dell’utilità generale, mai seguendo od assecondando l’interesse particolare di questo o di quello, anche se era uno del palazzo, o un potentato economico. Ho sempre seguito la legge, la mia coscienza, l’interesse della collettività.

E dato che la legge, la mia coscienza e l’interesse della collettività sono stati i miei fari di riferimento, senza mai cambiarli, rimpianti non ne ho, forse sono riuscito più o meno a realizzare i miei progetti. Nel momento in cui qualsiasi cosa abbia fatto, qualsiasi cosa sia successa, ho continuato a muovermi lungo questa strada, non ho rimpianti».

Marco Belviso domanda al Magistrato se la politica lo abbia aiutato o ostacolato nelle sue scelte.
Per quanto riguarda la politica, è difficile rispondere in maniera breve ed omogenea a questa domanda. La politica a volte mi ha sostenuto – ma la politica, quella seria, quella vera, quella del buon governo, non può non sostenere l’azione della Magistratura, in particolare contro il terrorismo e contro la mafia – altre volte, invece, mi ha ostacolato, ed ostacolato anche pesantemente.

Dato che non vorrei che pensaste che tutto è stato “rose e fiori”, vi racconto che io, come Procuratore capo di Palermo, mi sono occupato non solo dei mafiosi cosiddetti di strada, di Riina (2), Brusca (3), quello del “tasto”, che ha fatto polverizzare un chilometro e mezzo di autostrada a Capaci: un chilometro e mezzo di autostrada, immaginatevi, questa è stata la potenza micidiale, feroce, spietata di Cosa Nostra, quel 23 settembre di quasi 25 anni fa. Reina, Brusca, Bagarella, Aglieri, Vito Vitale, Gaspare Spatuzza, Maria Loturio Troìa (4) e via seguitando, una infinità di mafiosi “di strada” arrestati, ma finché ti occupi di questi vai bene.

Ma poi, quando ti occupi dell’altra faccia del pianeta mafia, perché la mafia non è soltanto gangster, non è soltanto “mafiosi di strada”, la mafia è anche coperture, collusioni, alleanze torbide, con pezzi anche consistenti, a volte, della politica, della finanza, dell’economia, della cultura, dell’informazione, delle stesse istituzioni della società civile, pezzi che dovrebbero essere dalla parte della legalità assieme ai Magistrati ed alle le forze dell’ordine, ed invece ce li ritroviamo dall’altra parte, allora… Cercano di non farsene accorgere, cercano di fare queste cose con il massimo segreto per rimanere impuniti, ma se ne trovano molti. (Attenzione, però, a non generalizzare, non tutta la politica è così).

Ecco: io a Palermo ho indagato a 360 gradi: non solo mafiosi di strada, ma anche questi imputati che si chiamano eccellenti, gli alleati occulti della mafia. Anche qui molti nomi: i due principali sono Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri, ma, come vi ho detto, finché ti occupi di mafiosi di strada va tutto bene, quando, facendo il tuo dovere, ti occupi anche di imputati eccellenti, apriti cielo!

Devi mettere in conto – questa è una specie di regola dei rapporti fra politica e giustizia, fra potere e giustizia nel nostro paese –  che sarai attaccato, che ti metteranno i bastoni fra le ruote, ti aggrediranno in tutti i modi.

La legge contra Caselli

Ecco, potrei raccontarne tante, di vicende di questo genere. Cito quella che mi dà ancora fastidio adesso: io sono l’unico Magistrato al mondo, e dico al mondo –  e sarò anche vanaglorioso ma è la verità, anche se non c’è tanto da gloriarsi questa volta – per cui hanno fatto, (ed hanno fatto per lui, proprio per lui, specificatamente per lui), una legge contro, contro la sua persona (5).

La legge che è stata fatta specificatamente contro la mia persona, la legge contra Caselli, è quella che mi ha tagliato fuori dal concorso per diventare, eventualmente, Procuratore Nazionale Antimafia, dopo la fine del mandato di Pier Luigi Vigna, impedendomi di partecipare fino in fondo allo stesso.

Io faccio la mia domanda, come me la fanno altri Magistrati, il C.S.M. isola due pretendenti, per così dire, il sottoscritto e Pietro Grasso. La Commissione competente, Commissione Uffici Direttivi, vota, prima di andare al plenum, dove si deciderà in via definitiva. La decisione della Commissione Uffici Direttivi è: 3 voti a Grasso, tre voti a me, parità 3 a 3. In questa posizione di parità si va al plenum, e lì … Erano in 36, 36 componenti del C.S.M…, e decidono che io avrei dovuto essere il nuovo Procuratore Nazionale Antimafia. Solo che, la sera prima, praticamente, alla vigilia del plenum, in fretta e furia, “dalla sera alla mattina”, come si suol dire, viene approvata una leggina contra personam, la mia persona, la quale dice che non può fare il Procuratore Nazionale Antimafia chi ha già compiuto 65 anni. Noi andavamo ed andiamo in pensione a 70 – 75 anni, questa cifra 65 anni era una cosa così, un “uovo fuori dalla cesta”: ma guarda caso erano gli anni che avevo appena compiuto io! Pertanto il Consiglio Superiore della Magistratura mi cancella, mi esclude dal concorso, e l’unico che va davanti al plenum è Grasso che viene, ovviamente, era rimasto solo più lui, nominato Procuratore Nazionale Antimafia.

Questa legge contro la mia persona, che, attenzione, due anni dopo sarà dichiarata illegittima, incostituzionale, e quindi non esiste più nel nostro ordinamento, era un’aberrazione, una stortura. Ed era una aberrazione se non altro perché, se un concorso è in atto, le regole di quel concorso non si possono cambiare. Quando si sta giocando la partita, l’arbitro non può dire: “Adesso io cambio le regole”, è una vergogna in uno stato democratico. E quindi ecco un torto che mi è stato fatto, un torto clamoroso. Ma perché? È ben documentato, nomi, cognomi, indirizzi, anche nel libro, perché, come scritto e proclamato pubblicamente, eccetera, non ero degno di fare il Procuratore Nazionale Antimafia perché dovevo “pagare” il processo Andreotti. Avevo osato processare un signore sette volte Presidente del Consiglio, una trentina di volte forse, ma non ricordo più quante, Ministro, e dovevo “pagarlo” questo coraggio.

Per chiarire … Andreotti non fu assolto

Ma secondo loro non era stato coraggio ma era stata una prevaricazione, perché, e molti lo pensano ancora oggi, e chi vede soltanto “Porta a Porta” ne è assolutamente convinto, Andreotti è stato assolto, ma non solo assolto. Andreotti è stato perseguitato da questo “fottutissimo” e scusatemi la parolaccia, giustizialista, che lo ha costretto a percorrere un calvario dolorosissimo, durato quasi 10 anni.

Peccato che – e basterebbe leggere le sentenze, in particolare l’ultima, quella della Corte di Cassazione per capire –  la verità è tutt’altra. Andreotti, dalla Corte d’Appello di Palermo, è stato dichiarato responsabile, fino al 1980, per aver commesso …  beh basta leggere il dispositivo personale scritto per capire, non serve leggere tutte le pagine della sentenza, basta leggere le “ultime cinque righe”, quelle che costituiscono il cosiddetto “dispositivo”. Dopo prove, racconto di vicende ed ancora prove, prove, alla fine si giunge al p.c.m. cioè a il: “Per questi motivi si dichiara innocente o colpevole, e si condanna o non condanna, ecc.”, basta leggere questo. Nel caso di Andreotti non è una assoluzione nemmeno per la Corte di Cassazione (6). Si assolve chi non ha fatto niente. Se uno ha fatto qualcosa, come in questo caso, viene dichiarato responsabile per aver commesso il reato. (…).

Beh, allora la legge contra personam, è stata forse creata perchè io avevo fatto il mio dovere, perchè avevo avuto ragione addirittura in Cassazione, l’ultimo grado di giudizio. Dovevano farmela pagare, me l’hanno fatta pagare, ma attenzione!

Un mio collega, Marcello Maddalena (7) , quando ero diventato, ormai, Procuratore della Repubblica a Torino, in occasione di una inaugurazione di un anno giudiziario, che allora non era cosa di poco conto, perché l’allora il Procuratore Generale pronunciava il discorso inaugurale con tanto di toga rossa, ermellino, e via seguitando – dice, a tutti i colleghi della Corte d’Appello di Torino, riuniti nell’aula magna del Tribunale, che quel provvedimento era sì contra Caselli, ma non era soltanto contro di lui, ed era anche e soprattutto contro tutti quelli, fra i novemila magistrati o quanti erano allora, che volevano, come lui, essere indipendenti, autonomi, non obbedire a niente ed a nessuno, se non alla legge ed alla loro coscienza.
E la cosa mi dà ancora fastidio, tanto che anche oggi, quando ne parlo, mi “gira lo stomaco”, ecco, perché, parliamoci chiaro, non è bello essere cacciato, tagliato da un concorso perché ti modificano le regole sotto il naso mentre stai giocando la partita, è una cosa indegna.

Ma vi è anche un aspetto positivo, perché quanto accadutomi è una sorta di premio, una sorta di fiore all’occhiello, perverso, maligno finché volete, ma tale, un ringraziamento alla mia autonomia, alla mia indipendenza.
E per un Magistrato, io credo, questo è il regalo più bello che gli si possa fare.  Me l’hanno fatto in una maniera perfida, questo omaggio, ma me l’hanno fatto. …

Scusatemi, arrivo da Trieste, ho fatto le capriole ed i salti mortali, e permettetemi un caffè».

Finita la brevissima pausa l’incontro/chiacchierata, riprende.

Marco Belviso chiede al giudice Caselli se abbia mai aderito ad un partito politico e sottolinea, pure, come Pietro Grasso sia, ora, il Presidente del Senato. Ma su questo aspetto Caselli non ha nulla da dire. Conferma solo che si tratta della stessa persona. E continua dicendo che «Grasso è uno che ha i suoi meriti, le sue qualità, è un professionista. Però quello che gli rimprovero, – aggiunge – e lo scrivo anche nel libro, è che, soltanto due anni dopo, in un’intervista sulla Stampa di Torino, il giornale della mia città fra l’altro, se ne vien fuori dicendo che gli dispiace di avere vinto con uno strappo alle regole che ha danneggiato Caselli e che, essendo uno sportivo, avrebbe voluto vincere senza strappi, senza violazione delle regole. Beh, io ho scritto al giornale una lettera dicendo, in sintesi, “Ma ti svegli due anni dopo? Subito dopo non avete avuto niente da dire tu e il Consiglio Superiore della Magistratura: andava bene, allora, prima Grassi e poi Caselli?” Il che non vuol dire che Grasso non abbia fatto bene il Procuratore Nazionale Antimafia, o che non stia facendo bene il presidente del Senato e che magari non farà bene il Presidente della Repubblica, o altro, è che in quella situazione … Ed io sono stato vittima di un’ingiustizia ed il beneficiario di quell’ingiustizia si chiama Pietro Grasso».

La lotta alle Brigate Rosse e Prima linea.

Marco Belviso dice poi che Caselli, negli anni ’70, prima addirittura del ‘74-’76, è stato “protagonista di un film molto importante”, nel corso dei cosiddetti “anni di piombo del terrorismo”. Infatti egli ha effettuato anche degli arresti molto importanti, e chiede al giudice quale sia stato il suo approccio al terrorismo.

Gian Carlo Caselli: «Durante gli anni di lotta, di contrasto alla criminalità terroristica, Brigate Rosse e Prima Linea,  – un’altra banda armata altrettanto pericolosa, altrettanto sanguinaria, di cui si parla un po’ meno, perché la più famosa, fra queste bande terroristiche, è stata, sicuramente, quella denominata “Brigate Rosse” –  io ho avuto la fortuna di avere a disposizione, come tutti i Magistrati che si occupavano di antiterrorismo, due nuclei operativi: uno dei Carabinieri, e l’altro della Polizia Giudiziaria speciali, nel senso che erano stati costituiti ad hoc, con riferimento proprio al problema “Brigate Rosse”, formati da gente di primissimo ordine, specialisti preparati al massimo livello, ed ottimamente coordinati dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (8) e dal questore Emilio Santillo (9). E io ho avuto la fortuna di raccogliere, i frutti del loro lavoro. Di più: io ho incominciato ad occuparmi, sostanzialmente, di questi problemi quando le Brigate Rosse sequestrano un Magistrato: Mario Sossi (10). Siamo nel maggio 1974. Il processo andrà a Cassazione e verrà assegnato a Torino, e finirà sul mio tavolo. Da quel momento incomincio a vivere scortato, praticamente per sempre, fino ad oggi.

Ma l’altra mia, fra virgolette, fortuna, è che io ero giudice istruttore, una figura processuale che ora non esiste neanche più, infatti nel 1989, con il nuovo codice, il giudice istruttore venne cancellato.

Anche Falcone, Borsellino, Caponnetto, Chinnici (11) erano giudici istruttori e giudice istruttore ero io ma, in quanto giudice istruttore, dovevo avere accanto un Pubblico Ministero, un Magistrato rappresentante della pubblica accusa. Il giudice istruttore faceva di tutto e di più, ma doveva esserci per legge, per ordinamento giudiziario, accanto a lui insieme a lui, un Pubblico Ministero. Io ho avuto la fortuna, l’onore, di avere come pubblico ministero Bruno Caccia (12), Magistrato molto più anziano di me, ma anche, non solo perché più anziano di me, molto più preparato, molto più esperto, molto più bravo di me. Egli mi ha preso per mano, e avrebbe potuto guardarmi dall’alto in basso, perché io ero un pivellino rispetto a lui –  lui era uno dei sostituti della Procura generale di Torino – ma invece di guardarmi dall’alto in basso mi ha preso per mano e mi ha insegnato tutto quello che un Magistrato giovane poteva desiderare di apprendere.

Ecco, i risultati positivi, decisamente positivi, testimoniano anche una forte presenza e capacità di organizzarsi dello Stato. Io, all’inizio, ero solo giudice istruttore, poi, man mano, si sono formati i primi pool: il pool è un metodo di lavoro che poi divenne notissimo in Italia e nel mondo con Falcone e Borsellino, ma il primo pool si costituisce a Torino, ad opera dei Magistrati antiterrorismo. E vi voglio raccontare come si lavorava, e poi chiudo questa risposta – scusatemi ma se fosse qui mia moglie, che stasera non ha potuto venire, sarebbe già in prima fila che mi fa il segno di tagliare, e se qualcuno del pubblico vuole farlo lo faccia pure lui.

Per rendersi conto con che razza di Magistrati ho avuto l’avventura, la fortuna di lavorare, vi racconto questo fatto. Nel 1976 le Brigate Rosse uccisero, per la prima volta deliberatamente, – avevano già ucciso a Venezia, per la verità, ma, secondo il loro linguaggio poco piacevole, era stato un incidente sul lavoro più o meno –  a Genova, scendendo in strada, il Procuratore generale della città: Francesco Coco, e gli uomini della sua scorta, Giovanni Saponara e Antioco Deiana. È un vero e proprio attacco al cuore dello Stato. Coco avrebbe potuto essere ucciso in qualsiasi momento della giornata, era un uomo che amava girare per i quartieri genovesi intorno a casa sua senza scorta, e la scorta lo seguiva solo quando non se ne poteva fare a meno. E le Brigate Rosse sapevano benissimo che avrebbero potuto colpirlo in qualsiasi momento della giornata, senza accompagnamento, rischiando di meno e facendo due morti in meno, ed invece lo hanno colpito volutamente, deliberatamente, quando era con la scorta, per colpirlo, per così dire, “sul trono”, nell’esercizio delle sue funzioni, per colpire, attraverso lui, lo Stato.

Anche questo processo l’ho assegnato io, da giudice istruttore a Torino, alla Cassazione: voi sapete sicuramente – ma se qualcuno non lo sa o non lo ricorda mi permetto di accennarvi io – che quando un processo riguarda un Magistrato come presunta vittima o presunto autore di un reato, quel processo non si può fare nella città in cui il Magistrato interessato lavora. Il processo deve andare in un’altra città in modo che vi siano maggiori garanzie che, non essendoci “vicini di stanza”, i Magistrati che se ne occupano siano imparziali, siano terzi.
Ecco perché la Cassazione ha assegnato l’omicidio Sossi prima e quello Coco, Saponara, Deiana poi, a Torino, e, per connessione, dato che sempre io mi occupavo di Brigate Rosse, anche quest’ultimo è finito sul mio tavolo.

Solo che questa volta il mio capo, il giudice istruttore e grande, grandissimo magistrato anche lui, Mario Carrassi del Villar, mi chiama nel suo ufficio e mi dice: “Caselli, questo processo lo farai tu, perché di Brigate Rosse dovesti intendertene. Ma non lo farai tu da solo”. “Ma come, consigliere, perché?” “Perché le Brigate Rosse hanno incominciato ad uccidere, e noi abbiamo un compito fondamentale, principale, forse unico: i processi che ci vengono affidati dobbiamo condurli a termine. Se sei solo e t’ammazzano il processo è finito, se siete in tre, e io voglio che siate in tre, se ammazzano uno gli altri due possono andare avanti. Lui era molto più raffinato di me, un intellettuale sofisticato, e io ve l’ho raccontato per cercare di far capire come quel grandissimo Magistrato fosse animato dall’etica della responsabilità. E l’ha insegnata, l’ha inculcata, anche a noi, Magistrati del suo ufficio, ed a tanti altri Magistrati della mia generazione. L’etica della responsabilità: cioè fare il proprio mestiere non preoccupandosi soltanto di avere le carte a posto, per così dire, ma preoccupandosi del risultato, della responsabilità del risultato, mettendo in campo tutto e di più, nel rispetto delle regole, per arrivare al fine desiderato, non fregarsene se si trovano o non si trovano i responsabili, se si arrestano o non si arrestano i latitanti …  L’etica del risultato non è frequente nel nostro paese, non lo era allora e non lo è neppure oggi. Questo grande maestro ci ha insegnato l’etica del risultato, ed ha organizzato il primo pool: assieme a me, Luciano Violante, che dopo non molto lascerà la Magistratura per darsi alla politica, ed un altro Magistrato, Mario Griffey (14), molto, molto, molto bravo anche lui.

Mario Carrassi del Villar era un magistrato di casata di Magistrati, era un Magistrato di decima generazione: i suoi antenati erano stati certamente giudici per “biglietto” reale, perché quando c’era ancora la monarchia venivano nominati così dal re, con una sua semplice approvazione. Lui era di un’altra categoria sociale, rispetto a me, che sono figlio di un operaio, ma era, al contempo, un grande democratico, ed era stato un partigiano vero, autentico.

Marco Belviso chiede in che anno arresta Curcio.
Gian Carlo Caselli: «Nel 1976. Subito dopo l’omicidio Coco. Nel 1976.
Marco Belviso: «Ed è lì che conia il termine” sono alcuni compagni che sbagliano?»
Gian Carlo Caselli: «: «Compagni che sbagliano è un termine che hanno coniato alcuni pubblicisti ed alcuni intellettuali, molti pubblicisti e molti intellettuali. Per sconfiggere le Brigate Rosse quelle storiche, ci è voluto molto tempo; la battaglia, la guerra, il contrasto, chiamatelo come volete, è durato una decina d’anni, belli belli, tondi tondi».

Brigate Rosse, non compagni che sbagliano, ma persone che uccidono.

All’inizio la strada, per le Brigate Rosse, è in salita, perché prospera, molto diffusa, una corrente di pensiero, praticata da fior di intellettuali oltre che fior di sindacalisti, di politici, di “gente perbenissimo”: quella che parla di “compagni che sbagliano”, oppure utilizza la formula “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”, inventata da un grandissimo, un formidabile scrittore, uno di quelli che io amo di più, Leonardo Sciascia. Sono due formule micidiali per quanto riguarda le capacità di contrasto istituzionale, e “Compagni che sbagliano” implica che i Brigatisti Rossi possano continuare a sperare, dato che vengono considerati compagni che sbagliano ma compagni, che prima o poi gli altri compagni si riuniranno a loro e scatterà la rivoluzione: è benzina continua nel serbatoio dei terroristi questo “compagni che sbagliano”. Le Brigate Rosse sperano di crescere in proseliti, sperano di crescere in affiliati, sperano che le loro forze si accrescano progressivamente finché si scatenerà la rivoluzione vera e propria.

La stessa cosa, un po’ più sofisticata, e altrettanto, – e scusatemi l’espressione forte – idiota è sottesa in: “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Lo stato democratico ha tanti difetti, tante fragilità, tutto quello che volete, ma è pur sempre democratico. Le Brigate Rosse sono criminalità pura, uccidevano una persona dopo l’altra, o gambizzavano, cioè rendevano storpie e zoppe per tutta la vita persone che, però, erano state elette da loro, unilateralmente, a simboli del potere cattivo che doveva essere abbattuto svegliando la gente stupida, tutti quanti noi, tutta quanta la popolazione, in particolare il proletariato. Erano le Brigate Rosse che avevano dichiarato, unilateralmente, guerra allo Stato, al nostro Stato democratico visto da loro, sostanzialmente, come uno Stato autoritario, fascista, reazionario. Ammazzandone uno, poi un altro, poi un altro ancora, la gente si sarebbe svegliata e si sarebbe coagulata intorno alla Brigate Rosse, avanguardie organizzate, e la rivoluzione si sarebbe finalmente realizzata. Questo il loro pensiero.

Però queste storture: “Compagni che sbagliano”, “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”, non durarono indefinitivamente: ad un certo punto scompariranno, ma ci è voluta tanta tanta fatica. Ma si deve arrivare al 1977, all’omicidio a Torino dell’anziano avvocato ultrasettantenne, quasi settantacinquenne, Fulvio Croce, presidente dell’ordine degli avvocati procuratori di Torino, perchè inizi un’inversione di tendenza.

Si era, allora, all’epoca del processo ai capi storici delle Brigate Rosse, per impedire il quale le Brigate Rosse hanno seminato una quantità incredibile di morti e di gambizzati, ed hanno scaricato, su questo processo, una montagna di atti violenti perché non lo si doveva celebrare. La lotta armata non si processa, la rivoluzione non si condanna, e chi prova a fare ciò, a portare avanti i processi, avrà del piombo.

Fulvio Croce aveva, agli occhi criminali delle Brigate Rosse, il torto di fare il suo dovere. In democrazia un processo senza difesa è una barzelletta, è una farsa, è una cosa ridicola, Croce, il presidente dell’ordine degli avvocati, credeva alle regole democratiche del processo, e quindi faceva il suo dovere organizzando le difese d’ufficio, che, quando non esistono difese di fiducia, devono, per legge, intervenire. Beh, detto, fatto, lo hanno ammazzato, aspettandolo una sera nell’androne del suo ufficio, sparandogli praticamente alle spalle, dopo avergli gridato: “Avvocato” perché almeno si girasse un pochettino…

Ecco: in quel momento la città di Torino crolla. A Torino, la civilissima Torino, la coraggiosissima Torino, in prima linea sempre nella lotta antifascista, nella lotta operaia contro la dittatura, in prima linea per la ricostruzione, per l’affermazione dei diritti civili che il fascismo aveva cancellato, e che la Costituzione ci ha, per fortuna, restituito, in prima linea in generale per le lotte per la libertà, per lo Statuto dei Lavoratori, e via seguitando, la civilissima Torino, la coraggiosissima Torino, dopo l’omicidio Croce, crolla, è in ginocchio.

Il terrorismo ha vinto, la città è sconfitta. Perché crolla?

Perché, per il processo ai capi storici delle Brigate Rosse si doveva formare una giuria popolare. Il processo era di competenza della Corte d’Assise, e sapete che la Corte d’Assise è formata da due giudici professionisti in toga nera, e da sei giudici popolari, giurati con la fascia tricolore, che vengono estratti a sorte da apposite liste, e poi nominati giudici popolari se accettano.
Beh, sul tavolo del Presidente della Corte d’Assise, che allora era un grande Magistrato: Guido Barbaro (16), uno dopo l’altro, si accumula una catasta di certificati medici, una vera e propria pila, e ciascuno, con piccole variazioni, diceva: “Non posso fare il giudice popolare perché soffro di sindrome depressiva”.
La paura si era scatenata, cosa mai successa neanche in un processo di mafia! Succede soltanto questa volta nella storia giudiziaria italiana, per questo processo ai capi storici della Brigate Rosse, che non si formi la giuria e che il processo venga, per questo motivo, rinviato di un anno.

La stagione delle Assemblee.

Ma la città incomincia a riflettere. Che cosa fare perché questa sconfitta vergognosa possa essere ribaltata?

Ed incomincia la cosiddetta “stagione delle Assemblee”. Le assemblee, all’inizio faticano: c’ ero anch’io, vi partecipano anche Magistrati, poliziotti, che i Brigatisti chiamavano, per la loro partecipazione alle Assemblee: Magistrati e Poliziotti di guerra. E nasce allora il sindacato di Polizia.

All’inizio, però, non veniva nessuno. La paura era tale e tanta che ci si ritrovava due o tre relatori in prima fila due o tre organizzatori, e il resto della sala completamente vuota. Ma poi la gente incominciò a venire.
Però la paura è ancora fortissima, tanto è vero che nella civilissima Torino non si ha il coraggio di far la domanda al relatore perché risponda. Si fanno delle domande anonime, su dei fogliettini di carta, che, se non fosse un’offesa perché sono categorie diverse, potremmo definire “pizzini”, che vengono portati ai relatori che li leggono e poi rispondono.
Per poi si va in progress… tanto tempo, tanta fatica, ma alla fine si arriva alle assemblee oceaniche, di massa, per esempio in tutti i reparti della Fiat, dove c’erano i Brigatisti, non ancora individuati, o tanti aspiranti Brigatisti, ad ascoltare, come tutti gli altri.

Le Assemblee si sono fatte dappertutto: nelle fabbriche, nelle sedi di partito, di tutti i partiti, nelle sedi di sindacato, nelle parrocchie, nelle chiese, nei circoli culturali, nelle scuole, dovunque ci fosse la voglia di un certo numero di persone di ritrovarsi a parlare insieme usando le armi della democrazia: diritto di stare insieme, diritto di discutere diritto di parlare liberamente, diritto di confrontarsi, diritto di decidere con la propria testa, stabilendo così quale fosse la realtà effettiva, la realtà vera, obiettiva, della Brigate Rosse».

Marco Belviso chiede quale fosse la quantità numerica delle Brigate Rosse, su che forza potevano contare, e Gian Carlo Caselli risponde che si dovrebbe fare la loro storia per rispondere.

«C’erano i militanti regolari, – continua – che erano clandestini a tempo pieno, e facevano solo e soltanto i Brigatisti, e i militanti irregolari, quelli che erano personaggi che avevano un lavoro normale e che, nei ritagli di tempo del lavoro, nelle ore libere, facevano i Brigatisti. E c’erano in tante, tantissime città. Io un conto non l’ho mai fatto, ma erano, presumibilmente, un centinaio per città: il minimo totale poteva essere da 500 a 1000: erano un piccolo esercito. Prima Linea lo fu, forse, ancor di più.

Ma ritornando alla Assemblee, la loro importanza è stata questa: discutendo ci si accorge, ci si convince, tutti insieme, che il terrorismo non è soltanto nemico delle persone che ammazza o che gambizza, delle vittime che colpisce: il terrorismo nella realtà è nemico di tutti. Perché stava mettendo a rischio, stava stravolgendo i diritti e le libertà di tutti, stava imbarbarendo la vita civile, stava trascinando alla deriva la comunità verso soluzioni politiche per niente piacevoli, di carattere autoritario.

Figurarsi se le Brigate Rosse avrebbero governato, semmai fossero giunte al Governo, democraticamente. No. Sarebbe stato un fascismo rosso, sicuramente, senza dubbi. Quando ci si rende conto di tutto questo, allora, invece delle idiozie pericolose: “compagni che sbagliano”, “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”, incomincia l’isolamento politico delle Brigate Rosse e di Prima Linea. La comunità dice: “Io con questi non voglio avere a che fare. Questi sono nemici della Democrazia, miei nemici. Stiano al loro posto, che io sto lontano, al mio”. E quelli che ammazzavano e gambizzavano, convinti di essere l’avanguardia della collettività, del proletariato, quando constatano il crescente isolamento politico entrano in crisi, si accorgono di non essere l’avanguardia di niente e di nessuno, semmai l’avanguardia soltanto di loro stessi. Entrano in crisi e scoppiano, politicamente e psicologicamente, ed incomincia una slavina di pentiti che non ci credono più. Guardate, tutti i pentiti di terrorismo, da Pesci (17) ingiù, si pentono, collaborano, parlano, prima che sia approvata la legge che prevede, per i pentiti, misure di favore. Parlano perché non ci credono più, perché sono scoppiati, politicamente e psicologicamente, prima della legge, ma sono scoppiati per tanti motivi: fallimento politico del sequestro Moro, dieci, quindici anni di latitanza, che li stancano, li logorano, l’isolamento politico e soprattutto la conclusione, nel rispetto delle regole, di quel processo contro i capi storici che non si doveva fare, e su cui avevano scaricato un volume di fuoco spaventoso. Ecco: questi fattori insieme li hanno messi in crisi».

Gian Carlo Caselli, come Magistrato, incontra Franceschini in carcere.

Marco Belviso: «Ma è vero che durante l’incontro in carcere con uno degli arrestati eccellenti, con Franceschini, lo stesso Le chiede come la pensasse e si stupiva che Lei non fosse allineato sulle sue idee?»

Gian Carlo Caselli: «Allora, io sono un Magistrato che ha contribuito alla fondazione, e poi ha sempre fatto parte di Magistratura Democratica. Spesso si dice che è la corrente di sinistra della Magistratura, ma è sbagliato. È una corrente a sinistra, che culturalmente, per quanto riguarda soprattutto i problemi della giustizia, ha posizioni differenti da quelle di quei Magistrati, organizzati in altre correnti di centro o di destra, che vorrebbero soluzioni diverse. È la stagione dei compagni che sbagliano, a sinistra, e, onestamente, alcuni Magistrati non volevano fare questi processi, e non volevano neanche che altri li facessero».

Marco Belviso chiede il perché, se perché erano compagni, o perché sbagliavano.

Gian Carlo Caselli: «Perché la pensavano in una maniera sbagliata. Anche in Magistratura Democratica, molti ragionavano o sragionavano così. Ma per ritornare alla nostra storia, quando furono arrestati Renato Curcio e Alberto Franceschini (18), io e Caccia andammo ad interrogarli. Curcio cercava di catechizzare, diceva quali libri aveva letto, se li conoscevamo, e noi, ovviamente, non potevamo dirgli: «Stia zitto!». Se voleva parlare parlava, e noi registravamo per grandi linee le cose che ci diceva, perché potevano essere utili per ricostruire la personalità del soggetto che stavamo giudicando.

Franceschini, invece, la prima cosa che dice quando si siede davanti a Caccia ed a me, guardandomi, è: «È vero che Lei è di Magistratura Democratica?» E io, occhi negli occhi, non vedendo perché avrei dovuto rispondere diversamente: «Sì, perché?» Lui capisce, e non dice più niente. Ma lui voleva proprio farmi capire che io, in quanto Magistrato aderente ad una certa corrente a sinistra, lì ero nel posto sbagliato. Dovevo essere con le Brigate Rosse, non contro. L’ho mandato, con gli occhi e con la risposta, a stendere. Ora: Caccia era un conservatore illuminatissimo, quindi dopo questo episodio di me, scambiato per “toga rossa”, mi ha preso in giro per anni, mi ha tolto la pelle quanto mi prendeva in giro, affettuosamente, ma…
E poi, quando abbiamo iniziato a compilare la prima parte del verbale di interrogatorio, dato che bisognava sapere luogo, data di nascita, paternità e maternità, titolo di studio, precedenti penali ecc., professione, alla domanda: professione, Franceschini mi risponde: «Rivoluzionario».

Ma io di Franceschini, ricordo soprattutto quella volta che sono andato ad interrogarlo nel carcere di Cuneo o Fossano, comunque in un carcere del basso Piemonte. Siccome egli voleva, come ammetterà poi nei suoi libri, far saltare il processo facendo scadere i termini di carcerazione preventiva, – sapete che si può restare in regime di carcerazione preventiva per un certo tempo definito dalla legge, ed entro quel tempo uno deve essere rinviato a giudizio altrimenti esce automaticamente – mi aggredisce. Ero accompagnato, per fortuna, da un Maresciallo dei Carabinieri piuttosto, diciamo così, robusto, che lo fermò facilmente.

Però quando si tratta di un Magistrato aggredito nell’esercizio delle sue funzioni, egli poi si deve astenere dal continuare le indagini. Deve dire: Signor Consigliere, Istruttore, questo processo valutate voi se posso farlo ancora o meno, perché sono stato aggredito da uno degli imputati.
Ma i miei capi mi hanno risposto: “Ma non se ne parla neanche, perché altrimenti basterebbe prendere a pugni un giudice dopo l’altro, e così i processi non si fanno… E invece il nostro compito è quello di portarli a termine”, e mi hanno confermato per iscritto che potevo continuare.
Ma intanto ha fatto una denuncia nei confronti di Franceschini, sono andato a sostenere l’accusa, come persona danneggiata, a Milano, foro competente, e devo dire che Franceschini non me l’ha mai perdonata.

Franceschini è uno che poi si è avvalso della legge sulla dissociazione, e di quella sui pentiti. Non dimentichiamo, infatti, che c’è stata un’altra legge, oltre quella sui pentiti, quella sui dissociati. Bastava prendere un foglietto di carta e scrivere: “Io … delle Brigate Rosse o di Prima Linea, mi dissocio dalla formazione terroristica, Brigate Rosse o Prima Linea, di cui ho fatto parte” data, firma e stop.  Benefici di pena e trattamento carcerario diversificato, soltanto con questo foglietto di carta. Sostanzialmente una amnistia. Quando Cossiga ha detto e ripetuto che si doveva risolvere il problema della lotta politica in Italia con una forma di pacificazione, in particolare con l’amnistia, faceva finta di non sapere che l’amnistia di fatto c’era già stata con la dissociazione.

Comunque Franceschini è uno che, anche nei suoi libri, racconta pure cose che, se poi verificate, non risultano vere, ma è vero che si era informato da che parte stavo, è vero che, sapendo da che parte stavo, ha a voluto verificare se fosse vera quella balla dei Magistrati “toghe rosse”, che non li volevano processare, e non avrei avuto bisogno di dirglielo, se fosse stato solo un po’ più furbo od informato … E lui, almeno, avrebbe dovuto capirlo, e non avrebbe dovuto aggredirmi in carcere, fisicamente, per impedirmi di continuare ad andare avanti.

Altri focolai di violenza armata si potranno avere, di diversa matrice.

Marco Belviso chiede se, dato che si è poi parlato di nuove Brigate Rosse, il fenomeno Brigatista può tornare.

Gian Carlo Caselli: «(…). Altri focolai di violenza armata li abbiamo avuti: l’omicidio di Lando Conti, Sindaco di Firenze, (19) è il primo fatto eclatante che mi viene in mente, ma ce ne sono stati anche altri. Ma questi nuovi nuclei terroristici variano dalle Brigate Rosse storiche anche dal punto di vista organizzativo, numerico e quantitativo, perché sono poca cosa. È stato facile alle forze istituzionali, incaricate della repressione, del contrasto, venirne a capo. Le Brigate Rosse, quelle storiche, non torneranno sicuramente più.  Però focolai di infezione, personaggi di varia estrazione, niente di omogeneo, niente di compatto, niente di piramidale come erano le Brigate Rosse, ma personaggi di varia estrazione che, qua e là, hanno un po’ nostalgia della lotta armata e un po’ velleità di riproporla, ce ne sono, ce ne sono sicuramente.
Ed ancora una volta, quando se ne viene fuori, si registra una certa indulgenza, chiamiamola così, da parte dell’“intellighenzia”, da parte dell’intellettualismo nostrano, perché parlar male di chi vuol cambiare lo Stato, seppure usando la violenza contro persone innocenti, non è tanto bello, non “va di moda”, ecco.

Ma ripeto: questi sono focolai di violenza non omogenei. Pensate ai forconi, questi signori che due giorni fa hanno inscenato – e non c’ è niente da scherzare –  l’arresto simbolico di un ex- parlamentare, tra l’altro torinese, che conosco bene, Osvaldo Napoli (20), che è stato sindaco di Giaveno, un paesino alle porte della val di Susa, una persona presa a caso. E i forconi gli hanno letto un capo di accusa, poi lo hanno brutalmente preso sottobraccio e se lo volevano portare via. Se non intervenivano i poliziotti e se lui non fosse riuscito a scappare Dio solo sa …

Questo è un fatto di una gravità inaudita, questo è squadrismo. È il ritorno di fiammate, di bagliori di squadrismo, come intitola in modo molto azzeccato Repubblica. È così, attenzione a queste cosa qua! Attenzione a fatti di questo genere! E ripeto: con una sostanziale disomogeneità fra loro, persone tentate dalla violenza, che qualcosa di violento praticano ammantandosi di nobiltà eccetera, ce ne sono … Le Brigate Rosse, così com’erano strutturate, con la loro pericolosità terribile, cinica e spietata, con 15 anni di morti, di gambizzati, di lutti e di sofferenze, non possono più tornare, però focolai di infezione, di qua come di là, di sopra come di sotto, – ho fatto l’esempio dei forconi, ma potrei farne altri, – ce ne sono sicuramente.

Caselli sei un fascista, no un comunista, no un mafioso … no, uno juventino.

Nel nostro paese bisogna stare molto attenti, non sottovalutare nulla. E non bisogna dimenticare che le Brigate Rosse hanno incominciato ad imperversare quasi impunite, e ci sono voluti 10 anni per sconfiggerle, perché erano state sottovalutate, erano, appunto: “compagni che sbagliano”. E: “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”, rappresentava, quasi, una patente di legittimità. Io per esempio, in quel periodo, venivo regolarmente accusato anche pubblicamente, da persone che poi diventeranno mie amiche al mille per mille, come io amico loro al mille per mille, partigiani, uomini politici, ecc. di essere un fascista, un servo sciocco al servizio di quel bieco reazionario che era, secondo loro, il generale Carlo Alberto Della Chiesa. Un fascista! Finché durò la stagione dei “compagni che sbagliano”, chi si occupava dei “compagni che sbagliano” era un fascista.

Quando poi feci domanda per andare a lavorare a Palermo, un signore dal nome Salvatore Riina, inteso Totò, mentre eravamo nella Corte d’Assise di Reggio Calabria, dove celebravo un processo con il Magistrato Scopelliti (21), che doveva sostenere una accusa a Palermo contro le cosche mafiose facenti capo appunto al Riina, pubblicamente, cioè nel corso di una udienza pubblica in favore delle telecamere di tutto il mondo, dice al Governo di allora – che era un Governo Berlusconi, siamo infatti nel 1994 – che si deve guardare dal sottoscritto, da me Caselli, perché sono pericoloso, perché manipolo i pentiti per far del male agli altri. E tutto questo solo perché il signor Riina mi riteneva e definiva comunista.

Prima ero fascista, adesso vado a lavorare a Palermo e divento comunista, sono così cambiato? Ma io non me ne ero accorto per niente! Poi quando torno a Torino, per alcuni di coloro dei quali mi occupo sono anche e di nuovo un fascista. Non solo – e questo veramente non so se ridere o mettermi a piangere, si inventano pure: “Caselli mafioso”! E come non ricordare tutte quelle cose scritte sui muri di Torino: “Caselli boia”, “Caselli torturatore”, “Caselli farai la fine di Moro”, “Caselli come Rabelli”, e via dicendo.

Ora un poveretto che fa domanda di andare a lavorare a Palermo dopo due stragi, definirlo mafioso mi sembra un po’ troppo. Dico sempre, e spero di non urtare la suscettibilità di alcuno, che ci manca ancora solo che la mia città, e la dico come la penso, mi scriva “Caselli Juventino” ed è finita.  Questo non lo possono proprio scrivere!

I rapporti Stato mafia.

Marco Belviso chiede, da profano sulla mafia, se è vero che tanto Stato era nella mafia o meglio, tanta mafia era nello Stato.

Gian Carlo Caselli: «Nel modificare i termini della proposizione, lei fa un po’ di storia della mafia. Allora, la mafia è Stato, non lo Stato, naturalmente. Il comportamento mafioso lo ritroviamo anche in alcuni uomini dello Stato, che dovrebbero essere dalla parte della legalità ed invece stanno dall’altra parte, Andreotti, Dell’Utri, Bruno Contrada, e via seguitando, e questo è comportamento è nascosto, occulto: qualcuno ha scritto che questo è il lato osceno della mafia. Non osceno perché fa schifo, anche se fa schifo, ma perché è ob scenum, fuori scena, che rimane nascosto, non si deve sapere. Ma proprio perché è il lato nascosto, formato dalle alleanze, dalle collusioni, dalle coperture di gente che conta, è la spina dorsale del potere mafioso. Quindi questi rapporti fra mafia e Stato sono ontologici, o meglio non fra mafia e Stato – ho sbagliato anch’io – ma fra pezzi del mondo della legalità, fra cui alcuni dello Stato e mafia, sono ontologici. Finché c’è la mafia, la mafia ce li avrà sempre e finché riuscirà ad averli sopravvivrà. Però ecco l’inversione dei termini: una volta erano i mafiosi che cercavano i politici per averne l’alleanza: oggi sempre più frequentemente sono i politici che cercano i mafiosi, almeno pare. Comunque sia come sia, sempre più grazie ad alcuni politici, si verifica il concorso esterno della mafia nella politica.

E mettetela come volete, un rapporto torbido, perverso, maleodorante, tra mafia e pezzi della politica, dell’economia, della finanza, della cultura, dell’informazione, dell’istituzione, della società civile, esiste da sempre. La mafia ha 200 anni! Tutte le mafie: Cosa Nostra, Camorra, Sacra Corona Unita, ‘ndrangheta, e via seguitando esistono, ed è storicamente dimostrato, da almeno 200 anni, da due secoli. Vuol dire che i loro componenti sono sì criminali in senso stretto, gangsters, che fanno attività gangsteristiche di ogni tipo, in particolare traffico di droga, di armi, di rifiuti tossici, oggi anche di esseri umani, gioco d’azzardo, prostituzione, usura, appalti truccati, tutte cose che rendono fior di quattrini, e sono gangsters, ma diversamente collocati, infatti non c’è banda di gangsters al mondo che sia durata più di quaranta, cinquant’anni. Dopo quaranta, cinquant’ anni le bande di gangsters scompaiono, se non altro per motivi di carattere generazionale, i mafiosi no: 200 anni, due secoli e sono ancora qui. Vuol dire che sono sì gangsters, e quali gangsters, pericolosi, ma sono anche qualche cos’altro, ed è ciò di cui abbiamo parlato più di una volta stasera: sono: “relazioni esterne”, “la zona grigia”,  “rapporti torbidi” da tenersi con pezzi di questo o quell’altro mondo, che dovrebbe appartenere alla legalità ed invece ce lo ritroviamo dall’altra parte.»

Marco Belviso dice che la mafia non è più solo in Sicilia, ma anche al Nord …

Gian Carlo Caselli: «Che la mafia ci sia al centro ed al nord del nostro paese è una realtà indiscutibile da oltre cinquant’anni. Leonardo Sciascia era un grande scrittore, era un grande letterato che sapeva forgiare delle immagini che chiarivano subito i concetti, le idee, ed egli ha coniato la formula: “Innalzamento della linea della palma”, circa sessant’anni fa. Era un’immagine figurata, letteraria, per dire che la mafia rimaneva ferma dentro i confini del Mezzogiorno, ma la sua linea di presenza, di intervento, di azione, come la linea della palma, tendeva ad innalzarsi e si innalzava verso il centro, il nord del nostro paese.

C’è un’intervista, che mi permetto di raccomandarvi, e se avete voglia di cercarla nella sua versione integrale, su internet, digitate: Repubblica – Bocca, che è il giornalista che ha fatto l’intervista – Dalla Chiesa, che è la persona intervistata quando era Prefetto di Palermo, e questa meravigliosa intervista vi uscirà in tutta la sua tragicità e cupezza. Perché dico tragicità? Perché l’intervista è del 10 agosto 1982, pochi giorni prima della strage di Carini, che è del 3 settembre dello stesso anno, strage in cui la mafia uccide il generale Dalla Chiesa, la moglie e il loro autista. Questa bellissima intervista, tragica, cupa, terribile, è una sorta di testamento spirituale del Generale, in quel momento Prefetto di Palermo, per anni e anni Capitano dei Carabinieri che aveva lottato contro la mafia in Sicilia, uomo che se ne intendeva. Ecco che, rispondendo alla domanda di Giorgio Bocca che gli chiede di fare il punto sulla situazione della mafia sull’intero territorio nazionale, risponde testualmente con queste parole: “La mafia ormai è nelle maggiori città italiane”. Nel 1982, dice “Ormai è”, il che vuol dire che vi era già da chissà quanti anni prima di quella data.  “È ormai nelle maggiori città italiane, dove ha fatto grandi investimenti edilizi o commerciali, o magari industriali. A noi interessa conoscere questa accumulazione primitiva del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio di denaro sporco, queste lire rubate, estorte, che architetti e grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne, oppure in ristoranti a la page, oppure in alberghi, ma ancora di più ci interessa la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, imprese, commerci, magari passati a mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.

La parola chiave è riciclaggio.

I mafiosi – e veniamo subito all’oggi – con le loro attività illecite, accumulano, con un calcolo sicuramente per difetto, qualcosa come 150 miliardi di euro all’anno. Più dell’evasione fiscale che è pari a 120 miliardi, più della corruzione che è di 60 miliardi. Accumulano, però, 150 miliardi all’anno di soldi sporchi, che in quanto tali, non possono esser goduti dal mafioso senza ripulirli, senza riciclarli. Ed arriviamo subito all’oggi. Saltiamo pari pari questi 50 anni e oltre.

Oggi come oggi, io mafioso, che voglio ripulire, riciclare il mio denaro sporco, investendo in attività commerciali, industriali e via seguitando, case, ristoranti a la page, stabilimenti ecc. apparentemente regolari, ineccepibili, oggi come oggi dove vado a fare riciclaggio? Non in un deserto, perché mi beccano subito, non sono stupido, se fossi stupido non sarei mafioso, i mafiosi tutto sono meno che stupidi. Quando li vedete in televisione, Reina, Provenzano, (quando era vivo naturalmente) con aria dimessa, contadinotti semplici, rozzi, ignoranti … Non è vero! Sanno quale atteggiamento assumere davanti alla televisione, per sembrare quello che vogliono far credere. No, non sono così, sono furbi ed intelligenti e se non lo sono abbastanza, hanno tanti di quei soldi che possono comprarsi i migliori cervelli che la piazza sporca offre. Che ci pensino questi cervelli a ragionare per loro. Ma comunque il mafioso non va a riciclare in un deserto, perché lo beccano subito, sarebbe uno stupido. Dove va a riciclare oggi come oggi, che c’è la crisi economica, la crisi di liquidità che lui non soffre, perché tutte quelle attività illecite gli riempiono, purtroppo per noi, quotidianamente il portafoglio, gli gonfiano sempre di più le tasche? Va a riciclare dove, nonostante la crisi, circola ancora relativamente, abbastanza denaro, dove il denaro mafioso sporco può, per essere riciclato meglio confondendosi con quello pulito altrui, e l’operazione di riciclaggio possa andare velocemente a buon fine senza che il mafioso sia scoperto.

Ma dov’è che si fa questa operazione oggi? Basta fare 1 + 1 che si arriva a due. È nel centro e nel nord del nostro paese, dove, nonostante la crisi, alcuni strati sociali stanno ancora relativamente bene.

La mafia a Nord e lo stupore per gli arresti con l’operazione Minotauro.

Ecco che le mafie al nord sono una cosa logica, per il crimine organizzato, niente di cui stupirsi. Quando a Torino incomincia, nel 2011 se non ricordo male, l’operazione Minotauro –  150 arresti, sono tanti, tantissimi -, coloro che “cadono dal pero” sono politici, amministratori, intellettuali, giornalisti, sacerdoti, gente con la testa pensante, che, gira e rigira, dicono questo: “Ma questi magistrati cosa vogliono? – Stanno dando la caccia ai fantasmi, stanno correndo dietro alle ombre. Noi piemontesi noi “savoiardi” cosa abbiamo da spartire con questi rozzi, sporchi, brutti e cattivi pastori dell’Aspromonte? Ma non me la contate giusta!” – Non ci volevano credere! Si stupivano che una cosa che avrebbero dovuto avere sotto gli occhi da una infinità di tempo, a Torino, dove Bruno Caccia, quando era diventato Procuratore della Repubblica era stato ucciso da un certo Domenico Belfiore di famiglia ‘ndranghetista di prim’ ordine, trasferitasi a Torino, ed insediatasi dalle parti di San Sebastiano da Po da un’ infinità di tempo. E posso dire questo perché la sentenza definitiva di Cassazione lo afferma condannandolo all’ergastolo. A Torino la ‘ndrangheta uccide il Procuratore capo, e quelli non credono ci sia la mafia! Non avevano mai ucciso prima Magistrati, a parte Scopelliti, che era però un favore a Cosa Nostra, e serviva per inceppare il maxi processo Falcone e Borsellino. Meno che mai fuori dalla Calabria. Se uccidono un Magistrato a Torino vuol dire che si sono radicati e che sono pericolosi. Minotauro? I piemontesi cadono dal pero, si   stupiscono. Incredibile! È come stupirsi che la pioggia bagna!

L’innalzamento della linea della palma non deve stupire, è come stupirsi che la pioggia bagna! Invece di stupirsi che la pioggia bagna, bisogna prendere degli ombrelli, per non restare “infradiciati”.
Ma in questi anni, a parte gli ultimi tempi, quando finalmente un po’ di consapevolezza incomincia ad esserci, a prendere gli ombrelli sono stati di fatto, soltanto le forze dell’ordine, Carabinieri e Polizia, la Guardia di Finanza, i Magistrati. Gli altri che avevano in mano degli ombrelli che avrebbero potuto ben riparare se stessi e la collettività: politici, amministratori, uomini di cultura, uomini della finanza e dell’economia, ecc. gli ombrelli non li hanno mai aperti.

Allora se le mafie ci sono, ed eccome che ci sono, oramai radicate, oramai pericolosamente presenti e che vanno diffondendosi ancora, queste operazioni sono importanti, tagliano alcuni rami, e se la pianta oramai ha messo le radici è anche perché qualcuno non ha voluto vedere, non ha voluto accorgersi di ciò che era abbastanza evidente, non ha voluto, soprattutto, aprire gli ombrelli, perché non restassimo tutti quanti bagnati. Perché la presenza della mafia al nord significa profonda alterazione della politica, soprattutto nei piccoli centri. I ‘ndranghetisti, infatti, vanno per gradi, almeno sulla base dell’esperienza del Piemonte, si occupano dei piccoli centri perché lì basta controllare un modesto pacchetto di voti per fare il bello ed il cattivo tempo, ma soprattutto condizionano l’economia.

La faccio breve, saltando tutti i passaggi, ed arrivo alla conclusione: stanno cercando di creare situazioni di monopolio, per attirare altri operatori economici nella loro orbita, monopolio perverso, caratterizzato dall’assenza totale delle relazioni sindacali perché ai mafiosi non gliene frega proprio niente dei diritti sindacali, e dalla possibilità di ricorrere alla violenza, che è uno dei connotati nel dna delle mafie.

Quindi: le mafie condizionano la politica, partendo in maniera centripeta, si dice così, partendo dalla periferia per muoversi anche fuori di essa, condizionano pesantemente l’economia, ci costringono a vivere in una situazione di pesante intimidazione, ed anche di paura. La gente ha paura della ‘ndrangheta, anche quando la ‘ndrangheta non si manifesta facendo scorrere il sangue per le strade ogni giorno, come magari la camorra a Napoli. Ecco: ci costringono a vivere in un clima pesantissimo, alterano la qualità della nostra vita, la peggiorano, e quindi non sono soltanto un problema per gli organi istituzionalmente deputati ad occuparsene, sono un problema per tutti noi, cambiano la qualità della vita di tutti noi, peggiorano la qualità della vita di tutti noi, ci fanno vivere peggio e soprattutto stanno creando prospettive per cui Dio solo sa come sarà il futuro. Il futuro, che giustamente sta tanto a cuore ai giovani, dipende tanto, tantissimo, anche da quel quanto di legalità riusciremo e riusciranno a riacquistare soprattutto sul versante dell’antimafia, dell’anticorruzione, dell’evasione fiscale, in modo da recuperare anche risorse, ricchezza, mancando la quale mancano anche tutta una serie di cose che, se le avessimo, vivremmo meglio, ed il futuro, dei giovani in particolare, sarebbe più roseo, per così dire».

Ma la faccio sempre troppo lunga».

Esistono in Italia isole felici?

Marco Belviso chiede se, secondo lui, vi siano in Italia isole felici dal punto di vista della delinquenza, a prescindere che sia mafia, camorra, che si occupino di appalti, tangenti …Oppure se ci siano Procure attive e non attive…

Gian Carlo Caselli: «Certamente siamo un paese dove questi fenomeni sono presenti ma a macchia di leopardo, come si usa dire. Qui ci sono, là non ci sono, qui ci sono tanto, là ci sono poco, qui ci sono in maniera massiccia, là ci sono soltanto le prime avvisaglie, e questo per tutte le forme di criminalità, per tutte le forme di illegalità, addirittura».

Marco Belviso suggerisce: e le tasse…

Gian Carlo Caselli: «Le tasse … gli italiani a reddito fisso le pagano fino all’ultimo spicciolo, quelli che non sono a reddito fisso non le pagano altrettanto. Poi ci saranno tutte le “giustificazioni”, le “spiegazioni”, meglio ancora, di un sistema fiscale oppressivo, che non funziona bene, e quindi … Però il costo dell’evasione fiscale, cifra ufficiale   – fonte Presidente Mattarella, a fine anno, facendo gli auguri di Buon Anno a reti televisive unificate – è di 125 miliardi di euro l’anno. Una enormità, che non si spiega soltanto con un sistema che potrebbe funzionare, e che dovrebbe funzionare molto meglio, ma con il fatto che c’è “gente che ci marcia” che potrebbe benissimo pagare e non tira fuori una lira, ed i servizi li paghiamo poi noi, che le tasse le paghiamo o del tutto o molto più di loro. Comunque sia, dei 125 miliardi di euro l’anno, il 30% – questi sono dati della Guardia di Finanza – finisce all’estero, come capitale esportato illecitamente! Qui addirittura, la rapina consiste non solo nel non pagare le tasse, ma nel portare via i soldi all’estero, perché nel nostro paese non vi è modo di investirli, di far sì che producano vantaggi anche al di fuori della cerchia dei diretti esclusivi titolari.

Non solo: gira e rigira andiamo al sodo: siamo il terzo paese, dopo Turchia e Messico, per evasione fiscale. Non è un buon record. Allora: 125 miliardi di euro + 60 la corruzione, + 150 la mafia, fanno, se non sbaglio, 330 milioni di euro l’anno! Una rapina colossale che determina un altrettanto colossale impoverimento, per cui è parlando in questi termini ai ragazzi nelle scuole, che queste cose, possono quantomeno finire per essere oggetto di riflessione, di ragionamento.

Ogni recupero di legalità è un recupero di reddito, di ricchezza, di risorse, è un passo avanti per risolvere i gravi problemi economico-sociali che ancora ci affliggono, la strada giusta per distribuire meglio, in maniera più equa le risorse, e quindi avvicinarsi, almeno, a quelle forme di giustizia sociale che sono l’obiettivo ultimo della legalità, del rispetto delle regole. La legalità conviene, in parole povere, più legalità migliore qualità della vita, più legalità più speranze per tutti, ma per i giovani in modo particolare, e un futuro che valga maggiormente la pena di essere vissuto».

Note.

  1. La globalizzazione del crimine ha portato alla creazione di organismi europei di lotta comune e di scambio di informazioni, fra questi Eurojust, sorto dall’esigenza di coordinamento investigativo. A chi volesse approfondire l’argomento, consiglio la lettura di Cesare Martellino, Magistrato, Lo spazio giuridico europeo e la cooperazione giudiziaria internazionale, Università degli studi Roma 2 Tor Vergata, in: www.uniroma2.it/didattica/ppal/deposito/Relazione_Dott._Martellino.doc..
  2. Salvatore Riina, detto Totò, ma anche “û curtu”, per la bassa statura, ed “il sanguinario” per la sua ferocia, è un criminale nato a Corleone, considerato il capo dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra dal 1982. Fu arrestato nel 1993. (https://it.wikipedia.org/wiki/Salvatore_Riina).
  3. Giovanni Brusca, criminale siciliano, uno dei membri più importanti di Cosa Nostra, nato nel 1957 a San Giuseppe Jato, è l’autore della strage di Capaci, a cui fa riferimento qui Gian Carlo Caselli, in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie e i tre agenti della scorta. Ha dichiarato, oltre che di aver compiuto questo efferato delitto, di aver ucciso Rocco Chinnici e la sua scorta e di aver strangolato e poi sciolto nell’acido il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito. (https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Brusca).
  4. Il riferimento è a una serie di noti mafiosi affiliati a Cosa Nostra, fra cui, oltre Salvatore Riina e Giovanni Brusca, Gian Carlo Caselli cita: Leoluca Bagarella, affiliato al clan dei Corleonesi, ed anche capo dell’ “ala militare” di Cosa Nostra, condannato come autore di plurimi omicidi, traffico di droga, ricettazione, strage; (https://it.wikipedia.org/wiki/Leoluca_Bagarella); Pietro Aglieri, “U signurinu”, sempre del clan dei Corleonesi, accusato di essere il mandante di numerosi omicidi, e di essere coinvolto nelle stragi di Capaci e via D’Amelio, ove persero la vita Paolo Borsellino ed i cinque agenti della sua scorta, (https://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Aglieri);   Vito Vitale, di Partinico, detto “Fardazza” arrestato nel 1985 per associazione mafiosa e traffico d’armi, considerato uomo da temere e killer spietato, braccio destro di Leoluca Bagarella (Storia di “Farnazza” il super killer di Cosa Nostra, La Repubblica, 14 aprile 1998, e Cosa Nostra, in manette l’erede di Riina, La Repubblica, 14 aprile 1998); Gaspare Spatuzza, palermitano, rapinatore e sicario, membro di Cosa Nostra ed affiliato alla “Famiglia del quartiere Brancaccio a Palermo, arrestato nel 1997, e poi diventato collaboratore di giustizia (https://it.wikipedia.org/wiki/Gaspare_Spatuzza);  Mariano Tullio Troìa, detto “Mario”, luogotenente di Riina, uno dei trenta mafiosi più pericolosi, accusato di essere il mandante della morte di Salvatore Lima, politico democristiano vicino a Giulio Andreotti. (Nuovo colpo alla mafia, arrestato il boss Troìa, La Repubblica, 15 settembre 1998. Nell’ articolo di possono leggere le dichiarazioni, fatte allora, da Gian Carlo Caselli).
  5. Il senatore di Alleanza Nazionale Luigi Bobbio, presentò, nel 2005, un emendamento alla legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario (150/2005). Per effetto di tale emendamento, Gian Carlo Caselli non poté più essere nominato Procuratore nazionale antimafia per superamento del limite di età. La Corte Costituzionale, successivamente alla nomina di Pietro Grasso quale nuovo Procuratore Nazionale Antimafia, dichiarò incostituzionale il provvedimento che aveva escluso Gian Carlo Caselli dal concorso e cancellò quindi, con la sentenza n. 245/2007, quello che lo stesso proponente, Luigi Bobbio di An, definì provvedimento «contro Caselli». (https://it.wikipedia.org/wiki/Gian_Carlo_Caselli, e Incostituzionale la legge anti – Caselli, La Repubblica, 21 giugno 2007, https://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Bobbio_(politico)).
  6. Il riferimento è alla sentenza della Corte di Appello di Palermo, poi impugnata davanti alla Corte di Cassazione dalla difesa di Andreotti. Ma con sentenza 49691/2004, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e definiva che la Corte d’Appello non si era limitata «ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con quanto ritenuto dal Tribunale), individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l’imputato compartecipe dei rapporti da costoro sicuramente intrattenuti con Cosa Nostra, rapporti che, nei convincimento della Corte territoriale, sarebbero stati dall’imputato coltivati anche personalmente (con Badalamenti e, soprattutto, con Bontate) e che sarebbero stati per lui forieri di qualche vantaggio elettorale (quantomeno sperato, solo parzialmente conseguito) e di interventi extra ordinem, sinallagmaticamente collegati alla sua disponibilità ad incontri e ad interazioni (il riferimento della Corte territoriale è alla questione Mattarella), oltre che alla rinunzia a denunciare i fatti gravi di cui era venuto a conoscenza». (http://www.archivioantimafia.org/sentenze2/andreotti/andreotti_cassazione.pdf). La Corte di Appello di Palermo, con sentenza 17 novembre 2002, aveva, in sintesi, dichiarato Badalamenti Gaetano e Andreotti Giulio colpevoli del delitto di cui agli articoli 110, 575, 573, n. 3 codice penale e li aveva condannati alla pena di anni ventiquattro di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, nonché al pagamento in solido delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio e di quelle sostenute dalle parti civili. (http://www.archivioantimafia.org/sentenze2/andreotti/andreotti_secondo_grado.pdf). Cfr. pure: Antonella Mascali, Andreotti morto, il tribunale disse: “Ebbe rapporti organici con la mafia”, 6 maggio 2013, Il Fatto Quotidiano.
  7. Marcello Maddalena fu, inizialmente, Giudice istruttore a Torino, diventando, poi, nel 2000, Procuratore della Repubblica del tribunale di Torino, carica che ricoprì sino a al 30 giugno 2008. Su posizioni più conservatrici rispetto a quelle del suo successore Gian Carlo Caselli, ha condotto le indagini relative ad importanti inchieste tra le quali l’affaire Telekom Serbia e il caso Moggi-Pairetto. Nel gennaio 2006 ha criticato con durezza l’indulto varato dal parlamento. Nel 2009 è diventato Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Torino, carica ricoperta fino al 31 dicembre 2015, quando è stato collocato in quiescenza. È stato fra tra i fondatori di Magistratura Indipendente, che ha guidato nei primi anni ’90, abbandonandola nel 2015 per aderire ad ” Autonomia e indipendenza” di Piercamillo Davigo. (https://it.wikipedia.org/wiki/Marcello_Maddalena).
  8. Carlo Alberto Dalla Chiesa Sottotenente dei carabinieri durante la Seconda guerra mondiale, partecipò alla guerra di Liberazione. Comandante della legione di Palermo (1966-73), generale di brigata a Torino (1973-77), nel maggio 1977 assunse le funzioni di coordinatore del servizio di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena e nel settembre 1978 quelle di coordinamento tra le forze di polizia per la lotta contro il terrorismo, Nucleo Speciale Antiterrorismo, in cui colse significativi successi. Diventato Generale di divisione e poi vicecomandante dell’Arma dei Carabinieri, nel maggio 1982 fu nominato prefetto di Palermo per combattere la mafia. Fu ucciso assieme alla moglie ed ad un agente di scorta il 3 settembre 1982. (Strage di via Carini a Palermo). (https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Alberto_dalla_Chiesa).
  9. Emilio Santillo fu Questore a Reggio Calabria ai tempi dei “moti di Reggio Calabria”, (1970-1971, guidati da Ciccio Franco, dell’M.S.I.), e rimase famoso anche per la sua imperturbabilità. Quando le migliaia di partecipanti al funerale di Bruno Labate, il primo caduto negli scontri, passarono di fronte alla questura e da essi si staccarono alcune centinaia di facinorosi che la assalirono, l’alto funzionario si affacciò alle finestre del proprio ufficio con un grosso sigaro tra le labbra e ordinò ai Reparti “Celere”, schierati con mitra e moschetti, di non fare nulla e di lasciare che i manifestanti si sfogassero. Pareva un ordine suicida, e fu, invece, in realtà espressione di grande lungimiranza: meglio sacrificare alcune stanze messe a ferro e fuoco piuttosto che lasciare a terra altri morti. I fatti gli diedero ragione. (Gianmarco Calore, I moti di Reggio Calabria (1970- 1971) in: https://polizianellastoria.wordpress.com/2016/07/17/). Quindi fu nominato questore di Roma, e, nel 1974, fu posto al vertice del nuovo Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo (IGAT), struttura eminentemente operativa, articolata in tredici nuclei regionali. (https://it.wikipedia.org/wiki/Ufficio_affari_riservati).
  10. Mario Sossi, nato ad Imperia nel 1932, è un Magistrato che fu Pubblico Ministero nel processo al Gruppo terroristico XXII ottobre. Fu sequestrato dalle Brigate Rosse a Genova il 18 aprile 1974 e rilasciato a Milano il 22 maggio seguente. Laureatosi in giurisprudenza, Sossi entrò in magistratura nel 1957, fu Sostituto procuratore della Procura della Repubblica del tribunale di Genova e divenne noto all’opinione pubblica per l’inchiesta sugli scioperi negli ospedali psichiatrici di Quarto e Cogoleto, per l’arresto di alcuni edicolanti che avevano esposto al pubblico riviste pornografiche e infine per l’arresto dell’avvocato Giambattista Lazagna sospettato di aver rubato armi ed esplosivi, che fu poi prosciolto in istruttoria. Il suo rapimento costituì uno dei primi salti di qualità nell’azione di lotta delle Brigate Rosse, mostrando all’opinione pubblica italiana che ormai esse erano in grado di compiere azioni ben più complesse, rispetto a quelle mordi e fuggi per cui erano ormai note. Dopo il rapimento, prestò servizio presso la Procura generale della Repubblica a Genova e fu Presidente di sezione alla Corte di Cassazione a Roma. Nel 2007 si presentò alle elezioni comunali di Genova con Alleanza Nazionale, passando poi ad Azione Sociale e Forza Nuova. (https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Sossi).
  11. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Rocco Chinnici furono dei famosi Magistrati e giudici istruttori, tutti siciliani. Antonino Caponnetto fu noto in particolare per avere, con capacità, guidato il pool antimafia dopo Chinnici, di cui prese il posto in seguito al suo assassinio. Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino immolarono la vita per fare il loro mestiere con serietà e senso del dovere. Rocco Chinnici fu ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 126 verde imbottita con 75 kg di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, Giovanni Falcone perse la vita nell’attentato di Capaci il 23 maggio 1992, Paolo Borsellino nell’ attentato di via d’Amelio a Palermo, il 19 luglio 1992. (Queste note sono tratte da: https://it.wikipedia.org/wiki/Antonino_Caponnetto, https://it.wikipedia.org/wiki/Rocco_Chinnici, https://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Borsellino, https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Falcone, a cui si rimanda per approfondimenti).
  12. Bruno Caccia, nato a Cuneo nel 1917, in una famiglia con una lunga tradizione in magistratura risalente ai primi anni del XIX secolo, iniziò la sua carriera nel 1941 alla Procura della Repubblica di Torino, prima come uditore, poi come sostituto procuratore, e quindi diventò Procuratore della Repubblica ad Aosta e nel 1980 a Torino. Come Procuratore della Repubblica nella città piemontese, si occupò di indagare sulle violenze ed i pestaggi che all’epoca puntualmente si verificavano in occasione di ogni sciopero. Come ricorda l’allora suo collega Marcello Maddalena: “Fu, nel settore, il primo segno di presenza dello Stato dopo anni di non indolore assenza”. Successivamente, avviò delle indagini sui terroristi delle Brigate Rosse e sui traffici della ‘ndrangheta in Piemonte, indagini che furono così incisive da condannarlo a morte. Il 26 giugno 1983, Bruno Caccia si recò fuori città e tornò a Torino soltanto nella sera. Essendo una domenica, decise di lasciare a riposo la propria scorta. Verso le 23,30, mentre portava da solo a passeggio il proprio cane, Bruno Caccia venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo. Questi, senza scendere dall’auto, spararono 14 colpi e, per essere certi della morte del magistrato, lo finirono con 3 colpi di grazia. La morte di Bruno Caccia è stato ritenuta un delitto di mafia. (https://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Caccia, http://www.ilpost.it/2015/12/22/bruno-caccia/).
  13. Francesco Coco, originario della Sardegna, fu giudice istruttore a Nuoro negli anni Trenta (in questa veste istruì il processo per l’omicidio di Antonia Mesina) e successivamente sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Cagliari, occupandosi di molti casi di sequestro di persona e banditismo. In seguito divenne procuratore della Repubblica di Genova, carica che mantenne fino alla morte. Nel maggio 1974 si oppose al rilascio degli otto detenuti ex-militanti del Gruppo XXII Ottobre che avrebbero dovuto essere scarcerati in cambio della liberazione del giudice Mario Sossi, rapito dalle Brigate Rosse, impugnando in Cassazione, la deliberazione della Corte d’Appello, e firmando, così, la sua condanna a morte. Venne assassinato l’8 giugno 1976 a Genova, insieme ai due agenti della scorta, il brigadiere di polizia Giovanni Saponara e l’appuntato dei carabinieri Antioco Deiana, a colpi di rivoltella e mitraglietta Skorpion nei pressi della sua abitazione (https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Coco_(magistrato).
  14. Mario Griffey, magistrato molto riservato, per dodici anni è stato giudice istruttore, legando il suo nome alle più importanti vicende giudiziarie torinesi. Fece parte del gruppo antiterrorismo con Violante e Caselli che si occupò, fra l’altro, del pentimento del brigatista Patrizio Peci; gestì il primo scandalo Petroli e poi il caso Zampini, la prima tangentopoli italiana. Griffey è stato, in Corte d’ Appello, giudice di sezione civile, poi coordinatore per i reati commerciali e societari, ed infine, ha fatto parte del “servizio civile” della Procura che si occupa di interdizioni e procedimenti disciplinari. Mario Griffey ha pure coordinato il pool che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione (sua il coordinamento dell’inchiesta Odasso). Ha chiesto di modificare più volte il suo incarico «perché questa ha spiegato è sempre stata la filosofia cui mi sono ispirato fin da giovane. ‘Cambiare’ per acquisire sempre nuove esperienze: per un magistrato è occasione per crescere professionalmente e acquisire una preparazione ampia». (Il giudice lascia il pool antitangenti della Procura, La Repubblica, 22 giugno 2002).
  15. Fulvio Croce nato nel 1901, si laureò in giurisprudenza nel 1924. Quindi si arruolò negli Alpini, e, dopo l’8 settembre 1943, entrò a far parte della Resistenza. Nel 1968 fu eletto presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino. Nel 1976 ebbe inizio a Torino il processo ad alcuni membri delle Brigate Rosse tra cui Renato Curcio, Alberto Franceschini, Paolo Maurizio Ferrari e Prospero Gallinari. Al processo si verificò un fatto mai verificatosi in precedenza in Italia: tutti gli imputati detenuti revocarono il mandato ai loro difensori di fiducia e minacciarono di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio. A questo punto, il presidente della Corte d’Assise, constatate le difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, incaricò della difesa d’ufficio il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avvocato Fulvio Croce. Questi accettò pur essendo avvocato civilista, e essendo consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, e scelse gli altri difensori tra i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati. Nel primo pomeriggio del 28 aprile 1977, cinque giorni prima della data fissata per l’udienza del processo, un gruppo di fuoco delle Brigate Rosse, formato da tre uomini e una donna, uccise l’avvocato nei pressi del suo studio legale in via Perrone 5 a Torino. (https://it.wikipedia.org/wiki/Fulvio_Croce).
  16. Guido Barbaro, pugliese, era nato il 13 gennaio del 1926. Nel 1978 in veste di Presidente della Corte d’ Assise subalpina, aveva presieduto, tra mille difficoltà e pericoli, il processo al nucleo storico delle Br, quello costituito da Curcio, Franceschini, Ferrari, Gallinari, Buonavita, Bertolazzi e Micaletto. Nella primavera del 1999 venne nominato difensore civico del Comune di Torino. Successivamente, oltre ad alcuni processi nei confronti di numerosi esponenti della criminalità organizzata, ha presieduto ad altri dibattimenti a carico di folti gruppi di brigatisti che, per otto anni avevano insanguinato Torino con attentati, ferimenti e omicidi, tra i quali quelli del presidente dell’Ordine degli avvocati Fulvio Croce, del maresciallo di polizia Rosario Berardi, del vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno. Uscito senza censure da un procedimento del Consiglio superiore della magistratura per l’iscrizione alla loggia massonica P2, Barbaro è diventato presidente di Corte d’ Assise d’ Appello e negli anni Novanta ha processato anche i membri del potente clan dei catanesi, che aveva monopolizzato lo spaccio di droga in città, così come una dipendente della Olivetti accusata di spionaggio a favore dell’Unione Sovietica. Andato in pensione, è stato nominato difensore civico. È morto nel 2004. (Barbaro, giudice senza paura, in: La Repubblica, 3 febbraio 2004).
  17. Patrizio Pesci, nato nel 1953, arrestato a Torino il 20 febbraio 1980, assieme a Rocco Micaletto, fu il primo pentito delle Brigate Rosse. (https://it.wikipedia.org/wiki/Patrizio_Peci).
  18. Renato Curcio, nato nel 1941, terrorista, editore, sociologo, fu uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Arrestato nel 1974, fu liberato dal suo gruppo, ma venne nuovamente catturato nel 1976. Non si è mai dissociato né pentito. (https://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Curcio). Alberto Franceschini, nato nel 1947, fra i fondatori delle Brigate Rosse, fu catturato nel 1974 con Renato Curcio. Successivamente si avvalse della legge sulla dissociazione. Lasciò il carcere nel 1992, dopo aver scontato la pena ed aver usufruito di numerosi benefici di legge, e poi ha lavorato a Roma per l’Arci. (https://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Franceschini).
  19. Lando Conti, fiorentino, nato nel 1933, laureato in giurisprudenza, rappresentante del Partito Repubblicano e Massone de G.O.I., e Sindaco di Firenze, fu ucciso da terroristi di una delle frazioni in cui si erano scisse le Brigate Rosse, le BR-PCC, il 10 febbraio 1986, nella zona di Ponte alla Badia. Dell’assassinio di Conti furono accusati 4 brigatisti. Per il Pubblico Ministero Gabriele Chelazzi, Conti fu scelto perché collega di Spadolini, ministro della Difesa e detentore di una quota minima in Sma, apparecchiature ottiche anche a uso militare. (Giovanni Spano, Lando Conti, trent’anni di indagini. E quella rivendicazione al giornale …, in: lanazione.it, 6 febbraio 2016, e https://it.wikipedia.org/wiki/Lando_Conti)
  20. Il riferimento è alla aggressione, arresto e finto processo da parte del gruppo “9 dicembre forconi” di Osvaldo Napoli, del PdL, persona definita gentile ed a modo, sindaco di Giaveno per molti anni, avvenuta davanti a Montecitorio il 14 dicembre 2016. Il rappresentante del gruppo ha garantito che l’azione si ripeterà a danno di altri, in quanto il governo è illegittimo. (Paola Di Caro, L’ex- deputato Osvaldo Napoli “arrestato” dai forconi. L’aggressione a due passi da Montecitorio, in: corriere.it/).
  21. Antonino Scopelliti, Magistrato calabrese nato nel 1935, fu prima Pubblico Ministero a Roma poi a Milano, quindi Procuratore generale presso la Corte d’appello e Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione. Si è occupato di vari maxi processi, di mafia e di terrorismo, come il processo per la morte di Aldo Moro, per il sequestro di Achille Lauro, contro i boss di mafia Pippo Calò e Guido Cercola, poi assolti in Cassazione dal giudice Corrado Carnevale. Fu ucciso il 9 agosto 1991, mentre era in vacanza in Calabria, sua terra d’origine, in località Piale (frazione di Villa San Giovanni. (https://it.wikipedia.org/wiki/Antonino_Scopelliti).

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Questa trascrizione dell’incontro non è stata riletta dal giudice Gian Carlo Caselli, per difficoltà a contattarlo anche da parte dell’Associazione Festival Costituzione e per questioni di tempo, ma assicuro che è fedele a quanto detto dal giudice, anche se in alcuni casi ho modificato lievemente il periodare per renderlo più consono al linguaggio scritto e viene pubblicata con il permesso di Paolo Mocchi, Presidente dell’Associazione per la Costituzione, anche Festival Costituzione di San Daniele, sul cui sito: http://www.festivalcostituzione.it/, potete ascoltare l’incontro dal vivo.

CHI DESIDERASSE APPROFONDIRE IL PENSIERO E L’AZIONE DI GIAN CARLO CASELLI, È INVITATO AD ACQUISTARE IL VOLUME “GIAN CARLO CASELLI, NIENT’ALTRO CHE LA VERITÀ – LA MIA VITA PER LA GIUSTIZIA FRA MISTERI, CALUNNIE ED IMPUNITÀ”, PIEMME ED., 2015.

CONSIGLIO POI CHI VOLESSE APPROFONDIRE I PROBLEMI QUI CITATI ED ANCHE QUELLI COLLEGATI AL TERRORISMO DI MATRICE NEO- FASCISTA, LA LETTURA DEL VOLUME: FERDINANDO IMPOSIMATO, LA REPUBBLICA DELLE STRAGI IMPUNITE, NEWTON COMPTON ED., 2013.

La divisione in paragrafi e il titolo degli stessi, per facilitare la lettura del lungo incontro, è di Laura Matelda Puppini, cioè mia. L’intervistatore, Marco Belviso, è il blogger del sito il Perbenista.

L’immagine è quella che correda l’articolo “Busca: grande successo per l’incontro con Giancarlo Caselli”, in: http://www.targatocn.it/2015/02/11/leggi-notizia/argomenti/eventi/articolo/busca-grande-successo-per-lincontro-con-giancarlo-caselli.html, e l’ho tratta dal sito solo per questo uso. Se vi sono vincoli di ultilizzo  a me non noti  prego avvisare.

Laura Matelda Puppini

https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2017/03/caselli-C_dd84e8aad5.jpeg?fit=510%2C311&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2017/03/caselli-C_dd84e8aad5.jpeg?resize=150%2C150&ssl=1Laura Matelda PuppiniETICA, RELIGIONI, SOCIETÀQuesto articolo contiene la trascrizione dell’incontro con il Magistrato Gian Carlo Caselli, avvenuto a San Daniele del Friuli il 16 dicembre 2016, organizzato da Festival Costituzione, e condotto da Marco Belviso. Nel leggerla dovete ricordarvi che Gian Carlo Caselli parla ad un pubblico vario, ed utilizza un linguaggio divulgativo....INFO DALLA CARNIA E DINTORNI