Questa intervista a Teresa Candido, forse da nubile Gortana, originaria di Givigliana, nata nel 1901, casalinga e contadina e portatrice carnica nel corso della prima guerra mondiale, è stata realizzata sotto forma di colloquio informale intorno al tavolo della cucina dello zio Giovanin, a Rigolato, e presenta interventi anche di quest’ ultimo, suo marito, a cui talvolta Teresa si rivolgeva, quasi a cercare conferma. Queste interviste parlano spesso degli stessi argomenti: lavoro, fatica, difficoltà, ma la vita dei nostri vecchi fu scandita da questi aspetti più che da altri. 

LA VITA DA CONTADINA DI TERESA E LE ALTRE.

Laura chiede a Teresa di raccontarle la sua vita di bimba e ragazza.

Teresa: «Io avevo fratelli, ma non sorelle, ed ero l’unica femmina. Così quando i miei fratelli hanno iniziato ad andare a lavorare all’estero, in Francia, con mio padre, io e mia madre siamo rimaste sole a casa.

Io sono andata a scuola fino ad avere il certificato e poi sono andata a lavorare con mia madre, perché aveva bisogno di me. Sa, avevamo prati da falciare, e 5 o 6 mucche nella stalla. E noi non le mandavamo in montagna in malga.
Così io e mia madre dovevamo andare a far fieno in montagna, e poi lo portavamo giù e, in primavera ed autunno, portavamo fuori il letame che serviva per concimare i campi ed i prati. E facevamo anche i lavori domestici, una volta una, volta l’altra, e ci si alzava presto al mattino e si preparava subito anche il mangiare per mezzogiorno. Perché non si poteva perdere tempo. Quindi, d’autunno, i miei fratelli e mio padre rientravano e dovevamo anche vedere di loro».

Alido: «Ma anche a Givigliana c’era chi chiedeva in affitto terreni»?

Teresa: «Che io mi ricordi, allora ognuno aveva il suo pezzo di terra, ma c’erano anche famiglie che non avevano prati sufficienti da sfalciare per mantenere la vacca, ed allora prendevano in prestito prati da quelli che ne avevano anche troppi. E si andava a falciare in montagna da metà luglio alla fine di agosto, e facevamo le mede, e portavamo giù il fieno d’autunno, con la slitta, ma in genere si chiamavano uomini per fare questo lavoro, e c’era una vera e propria strada che saliva sulla montagna.

E quando andavamo a lavorare in montagna, prendevamo qualcosa da mangiare con noi, e si riposava forse un po’ solo la domenica. Ma se minacciava pioggia ed avevamo fieno sui monti, dovevamo correre anche il giorno di festa sulla montagna per portarlo giù. Altrimenti, quando pioveva, si facevano i lavori di casa: si lavava, si puliva e così via. Ed allora era un continuo lavoro, e non c’era mai una giornata di festa, e quando una donna si ammalava, il suo lavoro pesava su altre».

Quindi Giovanin aggiunge: «Ma in genere le donne erano abbastanza robuste, ed ora ci sono più mali di un tempo. Inoltre una volta morivano tanti bambini, che quasi ogni settimana c’era un bambino che finiva in cimitero. Invece ora muoiono solo adulti».

Così continua: «È vero però che un tempo nascevano più bambini, ma nelle famiglie non c’era molto da mangiare per loro, e così i più deboli se ne andavano. Insomma avveniva una selezione, come succede ancora ora in Africa, nel Bengala… Sa, un tempo le famiglie erano numerose, e nasceva un bimbo ogni due anni». E Teresa a riprova: «Per esempio mia nonna, la mamma di mia mamma, ha avuto dieci figli».

E Teresa: «Una volta era solo lavorare, lavorare, lavorare, prima nella propria famiglia e poi, da sposate, sotto le direttive della suocera, e solo ora è un po’ di anni che le donne hanno abbandonato il lavoro in campagna e vanno via dal paese anche loro, e seguono i mariti. Ma quando ero giovane, quando mi sono sposata, non era così, e le donne andavano a vivere nella casa del marito con la suocera, e dovevano stare lì ai suoi comandi».

Giovanin dice, poi, che, sia in Carnia che in Friuli, tutti i maschi portavano le mogli nella casa familiare, e la suocera, che faceva però in genere da mangiare, gestiva lavoro e casa con quattro, cinque, sei nuore, ed era un vero e proprio comandante, una persona autoritaria. E la suocera organizzava tutto e non lasciava respirare nessuno. E lì nascevano i bimbi di tutte, e così c’erano, alla fine, famiglie composte da anche cinquanta o sessanta persone. (1). Poi però vi sono stati dei cambiamenti sociali.

Secondo Giovanin, i grandi mutamenti sono avvenuti dopo le due guerre mondiali. «In particolare –   precisa – dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un cambiamento strepitoso … in bene però, non in male. E le donne hanno incominciato a non andare su fin sul Pleros a falciare, ed a portar giù quantità enormi di fieno …», mentre per Teresa sono avvenuti un po’ alla volta.

Laura chiede se i matrimoni avvenivano in genere per interesse.
Giovanin dice che cercavano di unirsi fra persone che avevano qualcosa, mentre Teresa sostiene che si sposavano anche per amore, come in ogni luogo.

Laura chiede dove andavano a scuola i bimbi di Givigliana.
Teresa e Giovanin dicono che a Givigliana c’era fino alla quarta classe, ma chi doveva frequentare la quinta doveva scendere ogni giorno a Rigolato. Spesso però le bambine frequentavano solo fino alla terza od alla quarta.

Giuseppe di Sopra detto Beppo di Marc, Ragazze di Givigliana, 1923 circa. 

IL FLAGELLO DELLA TUBERCOLOSI.

Quindi Laura dice di aver letto che a Givigliana c’erano stati, nel corso del tempo, molti casi di tubercolosi.

Giovanin risponde affermativamente. E Alido, a questo punto, dice: «Mi hanno raccontato che c’è stato un prete di Tolmezzo che aveva detto che ciò accadeva perché si sposavano tra consanguinei, tra cugini. Ed era anche la causa di tanti handicappati».

E Teresa aggiunge, a conferma della negatività del matrimonio fra cugini: «C’era una paesana che aveva sposato un suo cugino, ed ha avuto due bimbe mute. Una delle due si è poi sposata, una no ed abita ancora a lassù.  Ma non è che nascessero molti bambini con pecche, e spesso, se ne avevano, morivano. E il caso delle due mute è accaduto perché i genitori erano cugini dritti.  E se ci si sposa tra cugini questo può accadere. Ma a Givigliana c’erano anche tanti bimbi che nascevano sani». Alido sostiene poi, che si diceva che sposandosi fra cugini «il sangue si indebolisce».

E Giovanin aggiunge: «Allora però non c’erano quegli antibiotici che ci sono ora, non c’erano tutti quei disinfettanti e non c’era neppure tanta pulizia. E la gente non faceva caso al contagio, eppure si sapeva che la tubercolosi è una malattia contagiosa. Ed era difficile allora curare la tubercolosi e far guarire gli ammalati, e molti che si erano contagiati morivano, anche tra gli adulti. Perché – continua- io ho letto sulla ‘Domenica del Corriere’ che il bimbo nasce sano dalla madre anche se è affetta da tubercolosi, e la prende poi con il contatto.

E poteva succedere che, in famiglia, mangiassero tutti utilizzando la stessa scodella, passandosi lo stesso cucchiaio. E quando ero prigioniero a Klagenfurt, nel corso della seconda guerra mondiale, ho visto che lì i contadini delle fattorie mangiavano anche la minestra attingendo dalla stessa terrina posta al centro, mentre noi facevamo così solo per gli gnocchi. Comunque devo dire che, quando noi italiani, da prigionieri, lavoravamo per loro, a noi davano un piatto ciascuno.»

UBRIACHI CHE PERDEVANO TUTTO, E I LIMITI DEI SANDALI IN MONTAGNA.

Laura chiede se ci fossero molti uomini che bevevano, anche se i soldi erano pochi.

Giovanin: «Era più difficile che bevessero, solo che qui chi beveva restava quasi sempre alcolizzato. E se uno aveva un campo, un prato, qualcosa, e andava sempre a bere all’osteria, andava a finire che l’oste gli portava via anche il campo, il prato, quello che aveva. E vi erano quelli che andavano all’osteria a farsi riempire di bevanda alcolica una bottiglietta chiamata ‘decim’, che poi riponevano nella tasca, della giacca. E quando l’avevano scolata, ritornavano a riempirla, una volta dietro l’altra …».

Laura chiede se andavano a segare scalze o se avessero qualcosa ai piedi.

Teresa risponde che vi erano tante donne che andavano scalze in montagna, ma non lei. «Io non sono mai stata capace di andare scalza. Noi avevamo ai piedi i sandali, che ci faceva il calzolaio. E poi, quando il terreno si faceva ripido, sotto i sandali mettevo i ‘ferri’, i ramponi, per non slittare. E per salire e scendere con i ramponi mi sono rovinata tutte le unghie dei piedi. Perché i piedi e le dita del piede con la posizione che si aveva nelle discese ripide, scivolavano in avanti, e le unghie così si rovinavano.. “E no tu las regolas plui” (E non riesci più a farle tornare normali). Così anche se le tagliavo e le taglio, ricrescevano e ricrescono dure e rovinate, e si fa una gran fatica a tagliarle, e per fortuna che ora mi aiuta Giovanin a farlo.

«E io andavo a falciare e lavorare con mia madre, non con altre persone, – continua Teresa – perché ognuno lavorava per conto proprio. Poteva accadere, però, sia di fare una parte di strada insieme ad altre, sia di dover chiedere aiuto ad un’altra donna, ma poi dovevi renderle il favore. E non sapevi mai se avresti potuto farlo. E poteva accadere pure che un’altra persona chiedesse a te di lavorare per lei, magari perché da sola non ce la faceva, con la promessa: oggi tu da me, domani io da te. Ma bisogna vedere se poi riusciva a ritornarti il piacere, perché poteva accadere che il tempo si guastasse, e per far fieno ci vuole bel tempo».

TERESA PORTATRICE CARNICA NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE.

Giovanin dice che, nel corso della prima guerra mondiale, da Givigliana, Teresa ed altre ragazzine salivano la montagna a portar munizioni ai soldati, su fino in cima. (2).

Teresa conferma, e dice: «Sì, sì ci sono stata anch’io. E mi ricordo che ritornavo a casa con i calzetti tutti bagnati ed i piedi mezzi congelati. Si andava su in val di ‘Crous’, valle di Croce (3)  – quella località si chiama così- e poi ancora su, e poi si girava, e c’era un metro e mezzo di neve, e “si lave fûr par Giacinta” (4), (si attraversava la località ‘Giacinta’), e poi si giungeva lassù, in Crostis.

Sa, arrivavano i militari con i muli pieni di munizioni fino al paese, fino a Givigliana, e poi eravamo noi donne che raggiungevano le postazioni sulle montagne. Ed eravamo volontarie, ma ci pagavano e ci cercavano. E io avevo guadagnato bene. Mi pare il corrispettivo di 100.000 lire ora, cioè circa 100 lire allora. E sono stata anche riconosciuta come portatrice, ed ho anche la medaglia!!!» (5).

E Giovanin precisa: «Nomo bravuro a ciatâ, di lâ. (E dovevano esser brave per trovare anche quel lavoro)».

Quindi Laura chiede se andavano a piedi negli altri paesi o con la corriera.

Teresa dice: «A ce fâ?», cioè: a far che cosa avremmo dovuto spostarci dal paese?
E Giovanin precisa: «Noi andavamo a piedi anche a Comeglians od Ovaro e fino a Villa Santina. E la strada c’era ma non era asfaltata. Ed ad un certo punto c’era anche la corriera, ma i soldi ‘erano corti’, e così si andava a piedi. Ma se si doveva andare a Tolmezzo, allora si prendeva la corriera».

Teresa: «E si aveva forza nelle gambe quella volta, e si camminava, si camminava tanto. Adesso no, che non si farebbero più quelle fatiche».

Così termina questa chiacchierata che ci riporta ai soliti temi del lavoro, della famiglia degli orizzonti di vita piuttosto ristretti. Allora la vita era codificata in una serie di consuetudini che avevano avuto la loro origine molto lontano, e che venivano rispettate. Ed il lavoro era uno dei fini della vita. Ma poi sapremo che Giovanin e Teresa si porteranno anche altrove, ma questa è un’altra parte della loro storia, che ci verrà raccontata da zio Giovanin.

Laura Matelda Puppini

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(1). Per l’organizzazione della famiglia patriarcale cfr. “Storia dei sette fratelli Cervi, messi tutti al muro dal fascismo. Per non dimenticare”, in: nonsolocarnia.info.

(2) così si legge in: don Pietro Cella, Memorie di Givigliana, Gorizia, Prem. Stabilimento Tipografico L. Lukézio, 1926, pagine non numerate, https://www.alteraltogorto.org/risorse/riedizioni/pietro-cella/memorie-di-givigliana.html: «La guerra portò un sovvertimento generale nella vita del paese, che venne a trovarsi entro la linea del fuoco. Nella confusione dei primi giorni, e cioè il 6 giugno 1915, la popolazione dovette sgombrare il paese, come quella di Forni e Collina, e disperdersi, desolata e piangendo, col bestiame, giù per Rigolato e Comeglians e Ovaro, con miseria e senza lavori; ma poi, a metà luglio, poté rientrare in villa. Da allora, per due anni, Givigliana fu un bivacco di guerra, pieno di soldati di passaggio per la fronte o discesi a riposo dal Bioichia e dal Crostis e Moraretto. Cominciarono i lavori militari. Tutto il ciglione di monte Bioichia e Crostis fu rigato da linee di trincee e camminamenti e posti di artiglieria e gallerie, e sul davanti tutto un saettare di strade militari che da Ponte Lans, su per i boschi e per i prati di monte salivano a raggiungere la cima del Crostis. Qua e là sorsero dei baraccamenti militari, e i più notevoli a Casa Borean e in Val di Croce. La popolazione valida del paese fu tutta requisita, come nei dintorni, per i lavori militari, salvo quella necessaria per casa e campagna. E furono guadagni facili ed insperati, ma non mancarono anche le dure fatiche. A sovvenire i soldati in montagna, nel primo inverno, tra il freddo più rigido e l’imperversare della bufera di neve; ogni giorno, colonne d’uomini e di donne e perfino di fanciulli risalivano il Crostis coi viveri, con le legna, con le granate». Sul testo di don Cella si legge anche che, dopo Caporetto, ai tempi dell’ invasione austriaca, gente di Givigliana dette da mangiare a soldati russi ed a italiani che, affamati, dai boschi si avvicinavano al paese.

(3). La località Val di Croce si trova a monte di Givigliana ed è citata in: don Pietro Cella, op. cit. Essa, secondo la stessa fonte, è raggiungibile da Malga Plumbs passando sotto la località Furchita.

(4) Per ora ho trovato solo citato, sempre sul testo di don Pietro Cella, il monte Giacinto, vicino a Givigliana.

(5) Questo a conferma di quanto riportato anche da Matteo Ermacora nelle sue interviste, (Matteo Ermacora, I minori al fronte della grande guerra. Lavoro e mobilità minorile, Il Calendario, rivista mensile di cultura, numero monografico, Teti ed., gennaio 2004.  Cfr. anche Laura Matelda Puppini, O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra”, edizione cartacea Andrea Moro, 2016), sfatando il mito delle portatrici per ideale o per amore o per altri motivi.

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L’immagine che accompagna il testo è quella già posta all’ interno di questo articolo, è stata scattata circa nel 1923 da Giuseppe di Sopra, fotografo di Stalis di Rigolato, e ritrae ragazze di Givigliana. LMP. 

 

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