Laura Matelda Puppini. Jacopo Linussio tra tradizione artigianale e fabbrica.
Dedica. In premessa scrivo che dedico questo articolo a Flora Damiani Linussio, moglie dell’ultimo Jacopo, con cui ho trascorso ore importanti ed interessanti a discutere del ruolo della borghesia in Carnia e sui Linussio e che mi ha donato un libretto che pubblicherò in seguito. Ed ella desiderava che la famiglia di cui era entrata a far parte fosse ricordata, e continuo a farlo io qui.
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Correva l’anno 2007/2008 quando decidevo di presentare agli allievi dell’isis F. Solari un mio testo che ricordasse il carnico Jacopo Linussio, che aveva operato in un contesto fra artigianato e ‘fabbrica’ nel campo della produzione di tessuti avendo egli una ‘teleria’. Correva l’anno 2023 quando, parlando di altro con l’attuale sindaco di Tolmezzo Roberto Vicentini, nel corso di un colloquio da me richiesto, egli mi palesò il suo interesse per la figura e l’opera di Jacopo Linussio, di cui, da ragazzo, nulla sapeva. E correva sempre l’anno 2023 quando la docente Patrizia Pati mi chiedeva queste righe per costruire un percorso conoscitivo del grande carnico da presentare ai suoi allievi.
Pertanto, viste queste sollecitazioni, ho deciso di porre qui, per voi tutti, questo breve testo conoscitivo riveduto ed aggiornato. (1). Premetto però che chi ha letto con una analisi marxista questo periodo e l’agire del personaggio, ha compiuto un grosso errore, perché allora il marxismo era al di là da venire ma anche una industrializzazione vera e propria, e si era in un periodo di transizione economica tra il vecchio ed il nuovo. Ricordiamoci, inoltre, che la rivoluzione francese avvenne alla fine del 1700 (1789), quando Jacopo Linussio era già morto.
Il contesto. La Carnia tra 1500 e 1700.
In Carnia prevalevano, nel 1500 – 1700, gli emigranti stagionali.
Tra gli emigranti stagionali vi era una massa emergente di mercanti, bottegai, trafficanti, venditori ambulanti che andavano un po’ dovunque a vendere la propria merce: nelle terre dell’impero austro – ungarico, negli stati tedeschi, in Europa orientale, nella terraferma veneta, negli stati italiani. Essi trafficavano ogni genere di mercanzie, aprivano banchi di vendita in città e villaggi, ampliavano botteghe, battevano fiere e mercati, tallonavano, di porta in porta, di casa in casa, clienti abituali ed acquirenti occasionali. (2).
I Cramars proponevano ogni genere di mercanzie: stoffe di seta e di cotone, lane, calze, cordami, tè, zucchero, caffé, tabacco, limoni, uva secca, cera, melassa, sego, spezie, chiodi di garofano, pesce salato, bottoni, pillole, medicamenti ‘semplici ed esotici’ ed altro ancora, in grado di far procurare agli abili venditori un reddito costante e sicuro suscitando, molto spesso, l’ammirazione incondizionata di letterati ed economisti. (3). Ed «un popolo variopinto di merciai agiati e di ambulanti miserabili, con sacche, cassette o fagotti in spalla, si sparpagliava per le città ed i borghi (…) per casolari sparsi e villaggi montani» (4), affrontando spesso non pochi pericoli, come ci testimoniano alcuni ex-voto.
Nel 1585 Jacopo Valvason da Maniago così si esprimeva: «I popoli della Cargna fanno diversi traffici coi tedeschi e come gente industriosa si partono dal loro paese in gran numero et vanno a procacciarsi il viver in luoghi lontanissimi, di maniera che ormai se ne trovano per tutta l’Europa… et la sua propria arte è texer panni di lana ma più di lino, nel che son eccellenti e rari». (5). Per fare un esempio nella Parrocchia di S. Giacomo a Rigolato (alta val Degano) sulle 280 ‘anime di comunione’ censite per la visita pastorale del 1602, «erano assenti ben 60 uomini, mentre 10 avevano ormai trovato da tempo ‘ loco et foco ‘ in Alemagna» (6).
Questi venditori ambulanti, che venivano chiamati in Carnia Cramầrs, termine derivato dal serbo – croato Krämar – in Francia Colporteur o Mercelot, in Inghilterra Chapman, in Turchia Tolbar, in Germania Glemper, riuscivano ad assicurare, grazie ad un sistema collaudato di scambi commerciali, un bilancio commerciale in attivo e l’afflusso in loco ed in territorio veneziano di risorse monetarie non trascurabili.
Naturalmente i merciai ambulanti, che proponevano pure tele fra le loro mercanzie, non erano solo carnici ma provenivano anche dalle Alpi Orientali, da quelle austriache e da altre zone montane. Dalla Carnia però emigravano stagionalmente anche abili artigiani tra cui i tessitori.
Tipi di crassigne per il trasporto merci dei Cramars. (Da: https://treppocarnico.org/storia/mestieri-antichi/).
L’arte del tessere, nel 1500, era praticata soprattutto dai carnielli che la eseguivano non solo nella loro terra d’origine ma anche a Venezia, nella Repubblica veneta e in altri stati italiani ed europei.
Come ci racconta Valvason da Maniago in un suo libro del 1565, i carnici erano conosciuti in tutta Europa per l’abilità con la quale esercitavano l’arte della tessitura. «Assai grande doveva essere il numero di questi tessers, che lavoravano tele canape e fustagni, aiutati nel loro lavoro dalle donne che preparavano i filati, operando pazientemente di rocca e di fuso (7) durante l’inverno, quando erano libere dalle fatiche dei campi». (8). Quindi le diverse tipologie di tessuti venivano affidati anche ai cramars per la vendita.
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L’attività di Jacopo Linussio si pone quindi tra questa antica tradizione di filatura e tessitura da un lato, e le innovazioni in campo della produzione, con le prime fabbriche, dall’altra.
Infatti Jacopo Linussio, che produsse tele da cui il nome di tellaria alla sua attività, sfruttò il lavoro a domicilio delle filatrici ma centralizzò nella Fabbrica alcune fasi di lavorazione come: il sottoporre ‘i lini greggi alla spatola ed al pettine’, presso lo stabilimento di Moggio e ‘la produzione delle tele’ ivi ed in quello di Tolmezzo, dove i filati venivano portati per esser candeggiati, tinti e tessuti. (9).
Anziana con fuso. (Da: https://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-LOM60-0011220/).
Ma cosa comportava produrre tessuti nel 1700?
In primo luogo, con lo sviluppo dei commerci, anche una parte cospicua della boghesia riuscì ad accedere a beni mai visti prima, quali per esempio tovaglie, lenzuola, abiti non di lusso ma di buon tessuto e fattura, essendosi aggiunte altre stoffe a quelle di seta, di canapone, di lana: per esempio quelle di cotone, reperibili ad un prezzo non eccessivo.
Un primo problema che si poneva, quindi, a chi gestisse una tellaria, riguardava la scelta della materia prima da lavorare che poteva essere:
di origine animale cioè lana, proveniente dalla tosatura delle pecore;
di origine vegetale (canapa, lino, cotone).
La canapa ed il lino crescevano anche in campi della Carnia, ma secondo la guida del Marinelli rivista da Michele Gortani, ai primi del Novecento pochissima era la canapa coltivata ed il lino era pressocché scomparso. (10).
Fino alla seconda guerra mondiale, poi, anche in Carnia ed in Friuli si produceva e si lavorava la seta, considerata in un primo tempo stoffa per ricchi, e i filari di gelsi che costellavano le campagne rendevano testimonianza di questo uso, seppur limitato. (11). Ma ci sono pure immagini fotografiche che mostrano, in contesto friulano, maestre e bimbi allevare bachi da seta a scuola.
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La canapa è una pianta con il fusto alto e sottile che può raggiungere i 4 metri di altezza. Per produrre fibra da tessere, la canapa deve essere raccolta subito dopo la fioritura. La sua lavorazione, se fatta manualmente, è molto faticosa. Il lino è una pianta erbacea annuale alta tra i 30 ed i 60 centimetri. È conosciuta come la prima pianta da cui si sono ricavate fibre tessili.
Sia le fibre del lino che quelle della canapa, per essere lavorate, devono esser ammorbidite attraverso la macerazione nell’acqua.
Il cotone veniva e viene coltivato soprattutto in Asia, Africa, America. È una pianta i cui semi sono coperti da una peluria che viene raccolta per poi essere filata e ricavarne tessuti. Il cotone più pregiato era, ai tempi del Linussio, quello egiziano.
Pianta di canapa per tessuti. (Da: https://www.vestilanatura.it/fibre-tessili/naturali/canapa/).
Cosa comportava la lavorazione della fibra vegetale.
Queste erano le varie fasi che portavano dalle piante al tessuto:
La raccolta delle piante;
La battitura per togliere le impurità;
Il lavaggio e la macerazione delle fibre vegetali;
L’asciugatura della fibra (senza togliere del tutto l’umidità);
La cardatura cioè l’ulteriore pulizia delle fibre tessili per trasformarle in un velo continuo. Tale operazione veniva fatta pure con particolari pettini.
La filatura, cioè la produzione del filo dalla fibra con l’uso della rocca e del fuso o dell’arcolaio.
Il candeggio e tintura del filo.
La tessitura attraverso il telaio.
Ogni tessitore seguiva, nel tessere, degli schemi particolari che permettevano la riproduzione di un dato disegno e che erano riportati su libricini poi detti, da uno degli stessi, “libri dei tacamenti” cioè libricini che mostravano come si doveva unire ed intrecciare i fili colorati per riprodurre lo schema figurativo scelto.
Libro ‘dei tacamenti’ di un tessitore carnico. (Da: https://museocarnico.it/it/esplora/la-filatura-e-tessitura/i-tessitori-della-carnia/).
L’Europa nel 1700: tra nuove richieste di prodotti, spionaggio industriale, contrabbando ed altro ancora…
Il 1700 è stato definito ‘il secolo del contrabbando’. E non a caso il secolo della nascita delle nazioni è pure quello del contrabbando. Perché contrabbandare significa introdurre in un paese o esportare da un paese merci di diverso tipo senza pagare la tassa relativa, chiamata dazio.
Questo avveniva perché le tasse imposte da diverse nazioni erano altissime e implicavano l’aumento del costo dei prodotti.
Il 1700 in Europa è pure il secolo dei Lumi, caratterizzato da un nuovo ceto sociale, la borghesia, fatta di artigiani, piccoli e grandi commercianti ed altri ancora, che voleva avere alcuni agi prima riservati ai nobili, come l’utilizzo di lenzuola, di tovaglie, di abiti belli e ricercati.
La nobiltà usava vestire in seta, ma la seta era, per vari motivi, carissima. Si iniziò, allora, a prendere in considerazione altri tessuti, come quelli in lino e cotone, più semplici e meno costosi. Inoltre, visto che vestire in seta voleva dire appartenere ai “sciors”, al gruppo sociale dei ricchi e rappresentava uno ‘status simbol’, molti borghesi, che non potevano permettersi di vestire la seta più costosa ricorsero a tessuti in seta più scadenti e che copiavano i disegni di quelli “doc” in sintesi ricorsero a tessuti “taroccati”, come si usa dire oggi.
Altri, invece, iniziarono a richiedere tessuti in lino, ed è questi che Jacopo Linussio produsse, dato che venivano molto richiesti e costavano relativamente poco. E la vera forza della produzione di tele di Linussio stava nella quantità delle tele prodotte che coprivano una domanda sempre più in espansione. Il tessuto, infatti, era, nel 1700, la merce più richiesta e fabbricata.
Naturalmente più un prodotto è richiesto più si tende a migliorare la sua lavorazione. Così intorno alle fabbriche ed alla produzione di tessuti si sviluppò un clima di innovazione e ricerca tecnica ma pure di spionaggio “industriale”.
Ai tempi di Linussio, la produzione tessile era già presente nel nord della penisola italiana, e essa aveva già una sua fiorente tradizione nel mondo germanico, olandese, francese e svizzero. All’epoca si puntava sul cotone, mentre prima le stoffe prodotte con questa fibra venivano importate. (12).
La Carnia, allora, era sotto Venezia…
La Carnia, come molti altri territori, era allora governata da Venezia, cioè dalla “Serenissima”. Per la verità a Venezia interessavano tre cose, per quanto riguarda il territorio montano: la custodia dei passi; il legname da sfruttare; la possibilità che i carnielli, all’occorrenza, si trasformassero in buoni soldati, il che si rivelò impresa difficile.
Agli inizi del 1700 l’economia veneziana languiva e, pertanto, pur di non importare merci che costavano molto anche a causa dei dazi, Venezia iniziò a favorire gli imprenditori che operavano sul suo territorio, tra cui il Linussio, che venne agevolato, come vedremo, in vari modi.
Ritratto di Jacopo Linussio, olio su tela di Pietro e Alessandro Longhi, risalente al 1763. (Pordenone, Museo civico d’arte). (Da: https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/linussio-iacopo/).
Ma chi era Jacopo Linussio e cosa fece?
Jacopo Linussio nacque a Paularo, in Carnia, nel 1691. I suoi genitori, anche se non erano ricchi, gli fecero imparare a leggere e scrivere. In giovanissima età Jacopo, come moltissimi altri ragazzi carnici, emigrò in Austria, a Villacco, dove imparò l’arte della tessitura secondo i moderni mezzi di produzione allora in uso.
La città di Villacco era da molto tempo meta di diversi emigranti carnici in cerca di lavoro, e molti carnici andavano a lavorare nelle fabbriche della Carinzia dove si producevano finissimi tessuti di lino, venduti in gran quantità pure nel territorio della Repubblica veneta, ma per i quali si doveva pagare il dazio. Venezia era dunque interessata alla produzione entro i suoi confini di tele di quel tipo.
Nel 1716, a 25 anni, Jacopo Linussio, dopo un breve periodo passato come garzone presso una fabbrica di tele in territorio veneziano, aprì per conto proprio una piccola fabbrica di tele di lino a Tolmezzo e, l’anno successivo, una simile a Moggio. Il Linussio- si legge sulla Guida del Marinelli – è giustamente celebrato come il geniale e perseverante creatore di una industria tessile fiorentissima. Da una piccola filatura a Tolmezzo, cui aveva aggiunto nel 1717 una pettinatura di lini a Moggio, la sua azienda crebbe rapidamente fino ad occupare tremila persone e ottenere, nel 1725, dalla Serenissima l’esenzione di metà del dazio d’uscita per le sue pezze di renzetti (13), mezze lane e panni, e l’esenzione totale nel 1727». (14).
L’organizzazione del ciclo lavorativo, fra artigianato e fabbrica.
Tutte le fibre di lino venivano portate a Moggio dove venivano cardate con pettini e spatole.
Il semilavorato veniva prelevato da persone alle dipendenze del Linussio detti: agenti filloni, che lo portavano alle donne della Carnia, e non solo carniche, in casa, perché lo filassero. La filatura avveniva in genere d’inverno.Gli agenti filloni, quando convenuto, passavano a ritirare il filo dalle donne e lo portavano agli stabilimenti di Moggio e Tolmezzo dove venivano candeggiati, tinti, tessuti. I tessitori erano uomini che lavoravano all’interno delle fabbriche, invece che andare all’estero.
«La strategia del Linussio – scrive Luisa Mainardis – è evidente:
– accentrare il più possibile le fasi della lavorazione (solo l’incetta del lino e la filatura ne restavano escluse);
– razionalizzarle, sostituendo agli antiquati mezzi di produzione, lenti e costosissimi, quelli più perfetti e veloci d’oltralpe;
– competere con l’industria d’Austria e Germania proprio nel campo delle manifatture onde diminuirne l’importazione […];
– ottenere […] agevolazioni e protezione dal governo veneto». (15).
La teleria Linussio: un’attività promettente.
Nel 1925 nella fabbrica di Moggio si producevano già tremila pezze di tela di lino, ed anche in quella di Tolmezzo, situata in casa Marchi entro le mura, la produzione era buona, tanto che il Linussio iniziò a pensare di ampliarla. Le donne che filavano per lui erano duemilacinquecento circa, duecento erano i tessitori e numerose persone erano impiegate nella tintoria ed altre fasi di lavorazione.
Naturalmente il lavoro delle donne era retribuito ma ben poco e spesso veniva pagato in generi alimentari, mentre i tessitori venivano pagati anche in moneta. Talora Linussio si serviva pure di esperti stranieri per migliorare le tecniche di lavorazione.
Nel periodo di maggior espansione dell’industria carnica e cioè fra il 1730 e il 1740, grazie anche ai favori concessi da Venezia, la produzione raggiunse le 10.000 pezze di tela; il campionario si arricchì sino a raggiungere 450 campioni di tele; il numero degli operai addetti a “spatolar, setinar, filar, purgar, biancheggiar, tingere e tessere i lini” aumentò.
Monogramma di Jacopo Linussio. (Da: https://museocarnico.it/sl/esplora/la-filatura-e-tessitura/ritratto-di-jacopo-linussio-1769/).
Abbiamo detto che Linussio venne aiutato da Venezia: vediamo come.
Inizialmente Jacopo Linussio fu sostenuto attraverso la concessione di agevolazioni fiscali.
Nel 1925, la Serenissima gli concedeva di importare lini greggi, che per lui erano materia prima, direttamente da Venezia senza pagare dazio alcuno, mentre in precedenza egli aveva dovuto importarli dalla Germania e dall’Austria, pagando cifre elevatissime. Inoltre il Senato veneziano concedeva al noto produttore di tele anche anche di fabbircare panni di Slesia detti Naisoter, e altre ‘drapperie’ di filo e di lana ad uso della Germania. Infine gli permetteva di importare, pagando solo metà del dazio previsto, fino a trenta migliaia di lane grezze provenienti dall’Albania, da Filippopoli, Salonicco, Durazzo e dalla Puglia. (16).
E «non veniva neppure dimenticata la fabbrica dei rensetti a cui venne accordata per dieci anni “L’esenzione di metà del dazio per duecentocinquanta migliaia di lino che ogni anno occorrevano per le manifatture di tela”». (17).
In un secondo momento, dato che le attività del Linussio andavano a gonfie vele, Venezia concesse al Linussio “il diritto di privativa”, il che comportava, oltre le esenzioni fiscali, la possibilità di importare senza pagare il dazio (tassa di importazione) una quantità definita di lini bresciani e nostrani e un’altra quantità di lini navigati cioè trasportati per nave dall’Egitto e da altri paesi. Per questi ultimi vigeva il dovere di proteggerli dalla contaminazione in periodi di diffusione di malattie contagiose. Ma Linussio potè fare questo solo perché sia era guadagnato la qualifica di ‘produttore privilegiato’ che gli permise per 10 anni di importare 250 migliaia di lini bresciani e cremaschi e 250 migliaia i lini navigati. (18).
Però tutte le tele, i rensetti, prodotti dal Linussio, in quanto agevolati nella tassazione, dovevano essere bollati con il piombo alla presenza di un notaio (19). Infatti anche allora esistevano dei furbetti che avrebbero fatto passare le proprie tele per tele Linussio, onde ottenere le agevolazioni previste.
Così Linussio fu invitato ad usare per le sue tele «due bolli consimili al campione prodotto, in una faccia dei quali vi sarà l’impronta di S. Marco e in circonferenza scritto Magistrato dei Cinque Savi alla mercanzia con privilegio , e nell ‘altra la marca del Linussio e in circonferenza sarà impresso Fabbrica di Giacomo Linussio in Tolmezzo. Un bollo sarà conservato dall’ Inquisitore del Magistrato e l’altro spedito ai giudici di Tolmezzo». (20). Inoltre «il notaio doveva dettagliatamente distinguere le pezze prodotte con lini ‘nostrani’ da quelle prodotte con lini ‘navigati’ e spedire poi a Venezia l’elenco ufficiale di tutte le tele che egli, ogni sei mesi, bollava e registrava». (20).
Infine Linussio si guadagnò la qualifica di ‘produttore privilegiato’ il che gli permise per 10 anni di importare 250 migliaia di lini bresciani e cremaschi e 250 migliaia i lini navigati. (21). Ed in questo periodo di espansione della sua attività, il Linussio pensò di allargare la sua produzione a «rensetti spinardi, renzetti grezi, sangali, terlisoni di Baviera, tele a occhietti, tele tovagliate, tele cremonesi con seda». (22).
Però si deve tener conto del fatto che Venezia concedeva privilegi ma puniva duramente chi riteneva potesse esportare importanti segreti artigianali oltre il suo territorio. Così decretò la morte del povero vetraio Antonio di Ripetta, che aveva spostasto a Parigi la sua attività artigianale. Stessa sorte spettò a due vetrai di Murano, per cui fu proposto l’avvelenamento.
Frontespizio di libello stampato in Venezia nel 1751, contenente regolamentazioni commerciali dei Cinque Savi alla Mercanzia, che decidevano pure cosa concedere a Linussio in fatto di agevolazioni fiscali. (Da: ttps://www.masperolibri.com/dettaglio.php?lang_id=2&id=5557).
Quando e come Jacopo Linussio ricevette i primi riconoscimenti assieme alle agevolazioni da parte della Serenissima.
Come già scritto, Jacopo Linussio ricevette, nel 1725, i primi riconoscimenti e le prime concessioni da parte di Venezia. Nello stesso anno rivolse ai Cinque Savi della Mercanzia le prime richieste di agevolazione. Fino ad allora Linussio aveva importato i lini greggi dalla Germania e dall’Austria, sopportando pure fortissime spese di trasporto. Nel 1925 chiese il permesso di importare i lini greggi da Venezia, per lui più conveniente.
Per poter ottemperare alla richiesta, i Cinque Savi richiesero informazioni al Luogotenente di Udine ed ai Provveditori dei Comuni di Moggio e Tolmezzo e ad altre autorità relativamente al Linussio ed alla sua attività. Questi riferirono che la Fabbrica del Linussio già impiegava un gran numero di lavoranti, di tessers reclutati nelle ville di Terzo, Canipa, Lorenzaso, Casanova, Chizzaso, Fusea, Verzegnis, Enemonzo e Raveo”, prima obbligati ad emigrare. (23).
E solo a questo punto il Senato permise subito al Linussio di produrre, oltre rensetti, anche panni di Slesia ed altre drapperie di filo e di lana e gli concesse le prime importanti agevolazioni fiscali, come già scritto.
Nel giugno del 1726 i Cinque Savi inviarono a Tolmezzo il fante Marco Banderin a visitare, per conto della Serenissima, le fabbriche di tele del Linussio. Banderin riportò a Venezia notizie soddisfacenti sull’attività delle fabbriche di Tolmezzo e Moggio e pertanto al Linussio venne concessa la qualifica di produttore privilegiato il che comportava esenzioni non di poco conto nel pagamento della dogana in entrata nelle città del territorio veneziano. (24). Ma con l’acquisizione di questo privilegio iniziarono pure i primi contrasti con i dazieri sparsi sul territorio veneziano e con quelli di Udine. Questi ultimi erano ben decisi nel volere che Linussio pagasse i dazi alla città anche se Venezia lo aveva esentato dal farlo, e la questione finì davanti al Senato di Venezia che stabilì il diritto del Linussio. (25).
Inoltre il Linussio non trascurava i contatti con le fabbriche tedesche per migliorare la produzione: vi spediva spesso i suoi dipendenti ad imparare qualcosa di nuovo e faceva venire presso le sue fabbriche maestranze estere che avevano il compito di migliorare e perfezionare le manifatture carniche. Non bisogna dimenticare, inoltre, che egli desiderava aprire il commercio delle sue tele anche al di fuori del territorio veneziano, e guardava alla Spagna ed al Regno di Napoli. (26).
Dipinto elogiativo di Jacopo Linussio e della sua attività realizzato da pittore anonimo nel 1769 post mortem. Museo Carnico Tolmezzo. (Da: https://museocarnico.it/sl/esplora/la-filatura-e-tessitura/ritratto-di-jacopo-linussio-1769/).
Il periodo di maggior espansione dell’attività del Linussio fino alla sua morte improvvisa.
Il periodo di maggior espansione della ‘teleria’, vivente Jacopo Linussio, fu dal 1728, (ma fu dal 1727 che egli concretamente iniziò ad usufruire delle agevolazioni concesse dalla Serenissima) al 1739 quando, dalle registrazioni, risultavano prodotte, al 31 ottobre, ben 18.538 pezze di tela, ma nel 1737 ne erano state fabbricate ben 19.238. (27). La produzione era maggiormente presente in inverno, quando le donne, libere dal lavoro nei campi, potevano dedicare maggior tempo alla filatura. (28).
In sintesi possiamo dire che il decennio che va dal 1730 al 1740 fu quello di maggiore affermazione della fabbrica di tele carnica, non solo per quantità del prodotto ma anche per tipologia di produzione, essendo passati da 80 a 450 i campioni di tessuto realizzati. Inoltre in ogni fase di lavorazione (spatolare, setinare, filare, purgare, biancheggiare, tingere e tessere lini) il numero degli addetti andò via via aumentando e veniva ormai usato un ‘bosimo’, nella tessitura, importato dalla Germania, che permetteva che non venissero accellerati sia la perdita di colori che il logoramento dei fili. Ma vi era un problema: dato che il bosimo utilizzato era fatto di acqua e farina, «gli esattori della macina pretendevano il pagamento del dazio”, quasi che i Bosemi servissero per cibaria». (29).
In ogni caso la produzione di tele del Linussio si tenne a buoni livelli anche negli anni successivi ma un fatto venne a turbare l’attività produttiva: l’11 giugno 1747 Iacopo Linussio moriva per una malattia improvvisa, forse difterite o una infezione alla gola, a 56 anni dopo aver dato vita ad un’impresa come mai si era vista nel Friuli e nella Carnia e dopo averla condotta con abilità e coraggio. (30).
Nel 1935 Jacopo Linussio acquistò pure in località Casabianca di San Vito al Tagliamento 200 ettari circa di terreno, dove incominciò a far coltivare lino, che poi veniva portato a Moggio dove, assieme ai lini provenienti da Aleppo e dalla Carinzia, veniva gramolato e pettinato per poi venir recapitato a domicilio alle filatrici locate in Friuli, Carnia, Canal del Ferro. (31). Quindi, in questa seconda fase della sua attività, il Linussio tendeva a produrre pure da solo parte della materia prima necessaria per la sua teleria.
La villa e la fabbrica Tolmezzina.
Uno degli ultimi sogni del Linussio fu quello di costruire, su un’ampia superficie, prima identificata in una zona vicino alla frazione di Caneva di Tolmezzo, poi, essendo questa ritenuta troppo esigua, in altra a sud della cittadina carnica, una serie di fabbricati comprensivi di sega e mulino, magazzini e case per gli operai, nonché la propria abitazione ed una chiesetta privata oltre che, ovviamente, la sua fabbrica. Ma egli morì come detto improvvisamente e vide solo parzialmente realizzato il suo sogno che fu completato da suo fratello Pietro, che gli subentrò nella direzione dello stabilimento, essendo il figlio di Jacopo ancora bambino alla sua morte. (32).
Foto di autore ignoto. Villa Linussio, poi caserma Cantore, a Tolmezzo. (Da: https://www.carniaindustrialpark.it/en/news/2066/).
Anche dopo la morte di Jacopo, grazie al fratello Pietro ed agli eredi, la fabbrica continuò a lavorare ed a risolvere vari problemi fra cui quello dell’approvvigionamento della materia prima: il lino, anche a causa dello scoppio della guerra dei sette anni, che coinvolse più potenze europee e durò dal 1756 al 1763. Si pensò pure di produrre tessuti in seta, ma poi l’idea venne accantonata. Infine, dopo un primo diniego a Venezia che voleva che i Linussio prediponessero tele facendo tessere ‘caneve e stoppe‘ per confezionare vele, anche a causa della difficoltà a filare la canapa, essi nel 1756- 1757 decisero di aderire alla richiesta della Serenissima, perché non potevano più importare lino sufficiente per mantenere la produzione, lavorando così per l’Arsenale di Venezia. Inoltre cercarono di introdurre la fabbricazione di fazzolettame e di tele indiane di cotone oltre che di “tele tovagliate” dal 1774, grazie ad Angelo Schiavo, suddito veneto, che aveva sostituito il capo maestro venuto da Praga. E nel 1780- 1781 la produzione globale delle telerie Linussio raggiunse il suo apice e la sua massima diversificazione. (33). Ma, in ogni caso, Jacopo Linussio ed i suoi successori tendenzialmente produssero tele di lino, dette allora ‘rensetti‘, non molto altro. Ma ritorniamo a Jacopo Linussio ed ai suoi eredi.
Anche Jacopo Linussio ed i suoi eredi ebbero qualcuno che non li amava e che dette loro qualche problema. Chi erano costoro?
I dazieri della città di Udine e in genere della Serenissima, come già visto, che non volevano che il Linussio fosse esentato dal dazio per il passaggio delle merci sul territori veneziani.
Altri imprenditori del settore tessile, per vari motivi. Tra questi è noto Tommaso Del Fabbro, che produceva tele simili che differivano da quelle del Linussio solo per il candeggio, ma che doveva pagare tutte le tasse, a differenza di quest’ultimo. Ad un certo punto il Del Fabbro venne chiamato a giustificarsi, davanti al pubblico notaio per tale produzione che spettava solo al Linussio. Il Del Fabbro rispose che avrebbe continuato la produzione in ogni caso. E dopo la morte di Jacopo Linussio, la sua fabbrica ottenne pure da Venezia alcuni privilegi. Il Del Fabbro era sostenuto dal Comune di Tolmezzo che gli concesse, pure, la cittadinanza onoraria. Non solo: nel 1755 gli eredi di Jacopo Linussio lamentavano al Magistrato veneziano della sanità che l’acqua della roggia, utilizzata prima dal Del Fabbro, che aveva più a nord di loro la sua fabbrica, giungeva sporca al loro opificio, diventando quasi inutilizzabile. Chiedevano, pertanto, che fosse imposto al Del Fabbro di costruire una condotta sotterranea ove condurre le acque non pure. Ed infatti così fu deciso, solo che il pagamento di detta conduttura doveva essere a carico dei Linussio. (34).
Inoltre vi erano pure altri che producevano tele in Friuli e che non vedevano di buon occhio l’espansione e i favori elargiti al Linussio dalla Serenissima, e fra questi spiccava Lorenzo Foramitti, che chiese a Venezia che il Linussio non si espandesse nel Cividalese e che fermasse la richiesta di filatrici per la sua fabbrica, sottraendole così a lui. (35). Un altra teleria si trovava a Venzone, ed era di Cristoforo Albieri, mentre a Moggio si trovava quella di Gio Di Colle e Ignazio Contelli, poi rilevata dai Linussio, mentre un certo disturbo poteva arrecare ai Linussio la fabbrica di Aristide Vittorelli, sorta a Carnia. Infatti questi incominciò a fare incetta di ceneri anche nei paesi della Carnia, privandone così i Linussio. La contesa fu risolta davanti ai cinque savi della mercanzia che intimarono al Vittorelli di non raccogliere più cenere nei centri della Carnia. (36).
Il Consiglio della cittadina di Tolmezzo che, tanto per fare un esempio, nel 1744 accusò il Linussio di essersi ampliato oltre il convenuto e di aver costruito «”la fabbrica” ed eretto siega, magazzini di molta estensione, molino, folugno, case; e per aver posto le fondamenta per vasta casa di sua abitazione», intimandogli di non ampliarsi ulteriormente. (37). Non solo: ciò che preoccupava pure lo stesso consiglio era il fatto che egli avesse proceduto a realizzare una nuova strada che portava dal centro del paese alla sua abitazione. (38).
Inoltre pare che la chiesa tolmezzina non fosse d’accordo sul fatto che i lavoranti per i Linussio, che abitavano nelle case costruite intorno alla fabbrica ed al Palazzo, che creavano un vero e proprio borgo dipendente in toto dalla famiglia padronale e ben poco inserito nella comunità tolmezzina, potessero assolvere all’obbligo della Messa domenicale alla cappella privata dell’Annunciazione, invece che recarsi in duomo.
Vittorio Molinari. Soldati vicino alla fabbrica- villa Linussio. Presumibilmente 1915-1917, quando, nel corso della prima guerra mondiale, vi era stato allestito un ospedale da campo. Poi nel 1923 questi spazi vennero utilizzati per ospitare il distaccamnet odell’ 8° alpini. (Immafine pubblicata in: Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne Culture, 2007, p. 56).
Le cause del perdere importanza della fabbrica di telerie Linussio.
– La morte improvvisa di Jacopo Linussio.
– L’interruzione della ricerca per migliorare il prodotto
– Questioni economiche di mercato. Si affacciavano sulla scena europea i tessuti prodotti a livello industriale.
– La fine del potere della Serenissima e il passaggio del Friuli prima sotto i francesi e poi sotto l’impero austro- ungarico che non erano interessati alla produzione in loco di tele.
– Il terremoto del 20 ottobre 1788.
A proposito di questo grande evento sismico è interessante quanto riportato da Luisa Mainardis nel suo articolo più volte citato: «Alle 4 e mezza della notte mentre era una festa di ballo in casa Linussi, il 20 ottobre 1788, Tolmezzo fu rovinata da un terribile terremoto “in un Pater”. Questo ha eguagliato al suolo 70 case e in quelle che son rimaste non havvi un palmo di muro che sia sano, principiando dalla fabbrica dei Linussi, colla Chiesa e le altre case. (…). Nel paese restarono morte nello stesso tempo 26 persone, senza computare i feriti ch’erano involti nelle rovine. Tutti i Signori hanno slogiato dal paese. La costernazione è universale e il danno considerabilissimo». (39).
Però la fabbrica Linussio non morì con il terremoto, ma sopravvisse, acquistando però sempre meno importanza nel contesto delle attività produttive della penisola e dell’ Europa. Inoltre i Linussio restano famosi anche per aver donato al Duomo di Tolmezzo (risalente al 1764), opera dell’arch. Domenico Schiavi e dedicato, come il precedente, demolito, a San Martino, i dipinti che Jacopo Linussio, negli anni trenta del Settecento, aveva commissionato a Nicolò Grassi in vista della riedificazione della chiesa. (40).
Infine il Palazzo Linussio ed alcune costruzioni annesse furono trasformate nella caserma Cantore mentre un erede di Jacopo Linussio, che portava il suo nome, utilizzò altri spazi, dopo la seconda guerra mondiale, per creare la fabbrica di sci Lamborghini.
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Purtroppo l’archivio della ‘Fabbrica’, locato provvisoriamente in un locale della cartiera, è andato perduto in un incendio provocato da un corto circuito negli anni sessanta.
Laura Matelda Puppini.
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(1) Questo testo, prodotto nell’ambito della mia attività lavorativa all’isis F. Solari, si intitola: “Jacopo Linussio tra tradizione artigianale e fabbrica”, è stato realizzato a fini didattici nell’ anno scolasitico 2007-2008, e ne è vietata la riproduzione integrale. Lo ripropongo in versione aggiornata.
(2) Cfr. Bianco Furio e Molfetta Domenico, Cramầrs – L’emigrazione dalla montagna carnica in età moderna, edito a cura della Camera di Commercio di Udine, 1992, pp. 49 – 50.
(3) Ivi p. 51.
(4) Ibidem.
(5) Ibidem.
(6) Ivi, p. 47.
(7) ‘Rocca’: strumento per filare a mano costituito da un’asta lunga circa un metro con una estremità rigonfia intorno a cui si arrotola il filato. ‘Fuso’: strumento di legno assottigliato alle estremità e panciuto nel mezzo che, fatto ruotare, provoca la torsione della fibra e la formazione del filo.
(8) Cfr. Luisa Mainardis, La fabbrica di tellarie della ditta Linussio , in: Almanacco C.U.C.C., Cucc ed., 1986, p.5.
(9) Per questa parte cfr. AA.VV., Jacopo Linussio – Arte e impresa nel Settecento in Carnia, ed. a cura della Regione Autonoma FVG., Ud, 1991, p. 53 – 56.
(8) Cfr. Luisa Mainardis, cit., pp. 6-7
(9) Ivi, p.7
(10) Giovanni Marinelli, (a cura di Michele Gortani), Guida della Carnia e del Canal del Ferro, Tolmezzo Stabilimento Tipografico Carnia, 1924-1925, p. 124.
(11). Ivi, pp. 125-126.
(12) Cfr. nel merito: Valeria Patti, Moda e sviluppo industriale nell’Europa del Settecento. (Parte prima), in https://www.lidentitadiclio.com/moda-sviluppo-industriale-nelleuropa-del-settecento-parte/, eLuisa Mainardis , cit., p. 6.
(13) Rensetti o renzetti qui: tele di lino.
(14) Giovanni Marinelli, (a cura di Michele Gortani), cit., p.p. 222-223.
(15) Luisa Mainardis, cit., pp. 6-7.
(16) Ivi, p. 7.
(17). Ibidem.
(18) Ivi, p. 9.
(19) Ivi, p. 8
(20) Ivi, p. 9.
(21) Ibidem.
(22) Ibidem.
(23) Ivi, p. 7.
(24) Ivi, p. 9.
(25) Ivi, p. 10.
(26) Ibidem.
(27) Ivi, p. 11.
(28) Ibidem.
(29) Ivi, p. 11.
(30) Ivi, p. 14.
(31) Ivi, p. 12.
(32) Ivi, p. 15.
(33) Ivi, pp. 25- 26.
(34) Ivi, pp. 22 – 23.
(35) Ivi, p. 23.
(36) Ibidem.
(37) Ivi, p. 13.
(38) Ibidem.
(39) Ivi, p. 27.
(40). Cfr. https://www.frammentirivista.it/giacomo-linussio-e-nicola-grassi-mecenate-e-pittore-nella-carnia-del-settecento/.
https://www.nonsolocarnia.info/laura-matelda-puppini-jacopo-linussio-tra-tradizione-artigianale-e-fabbrica/https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2023/06/Jacopo_Linussio_e_le_sue_filatrici.original.jpg?fit=1024%2C663&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2023/06/Jacopo_Linussio_e_le_sue_filatrici.original.jpg?resize=150%2C150&ssl=1ECONOMIA, SERVIZI, SANITÀSTORIADedica. In premessa scrivo che dedico questo articolo a Flora Damiani Linussio, moglie dell'ultimo Jacopo, con cui ho trascorso ore importanti ed interessanti a discutere del ruolo della borghesia in Carnia e sui Linussio e che mi ha donato un libretto che pubblicherò in seguito. Ed ella desiderava che...Laura Matelda PuppiniLaura Matelda Puppinilauramatelda@libero.itAdministratorLaura Matelda Puppini, è nata ad Udine il 23 agosto 1951. Dopo aver frequentato il liceo scientifico statale a Tolmezzo, ove anche ora risiede, si è laureata, nel 1975, in filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trieste con 110/110 e quindi ha acquisito, come privatista, la maturità magistrale. E’ coautrice di "AA.VV. La Carnia di Antonelli, Centro Editoriale Friulano, 1980", ed autrice di "Carnia: Analisi di alcuni aspetti demografici negli ultimi anni, in: La Carnia, quaderno di pianificazione urbanistica ed architettonica del territorio alpino, Del Bianco 1975", di "Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906- 1938, Gli Ultimi, 1988", ha curato l’archivio Vittorio Molinari pubblicando" Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne culture, 2007", ha curato "Romano Marchetti, Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, ed. ifsml, Kappa vu, ed, 2013" e pubblicato: “Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo… Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo Carnia, ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi Carnia, 1944-1945, in Storia Contemporanea in Friuli, n.44, 2014". E' pure autrice di "O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra”", prima ed. online 2014, edizione cartacea riveduta, A. Moro ed., 2016. Inoltre ha scritto e pubblicato, assieme al fratello Marco, alcuni articoli sempre di argomento storico, ed altri da sola per il periodico Nort. Durante la sua esperienza lavorativa, si è interessata, come psicopedagogista, di problemi legati alla didattica nella scuola dell’infanzia e primaria, e ha svolto, pure, attività di promozione della lettura, e di divulgazione di argomenti di carattere storico presso l’isis F. Solari di Tolmezzo. Ha operato come educatrice presso il Villaggio del Fanciullo di Opicina (Ts) ed in ambito culturale come membro del gruppo “Gli Ultimi”. Ha studiato storia e metodologia della ricerca storica avendo come docenti: Paolo Cammarosano, Giovanni Miccoli, Teodoro Sala.Non solo Carnia
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