Quei terremoti del 1976, che cambiarono il Friuli
Francesco mi chiede: «Laura scrivi per cortesia qualcosa sul terremoto del 1976?» – Vorrei accontentarlo ma non so cosa scrivere. Il mio ricordo è affollato di sensazioni, di emozioni, di flash, che posso tentare di affidare alla penna, ma non so con che risultato. E poi i terremoti grossi, quelli che “cambiarono la vita del Friuli” furono due. Ci fu anche quello del 15 settembre 1976, che qualcuno chiama “il terremoto dimenticato”, ma che fece la differenza.
Perché la popolazione che voleva restare fuggì allora, dopo quel settembre, dopo quella scossa, e l’esodo verso Grado, ma anche altri centri fuori regione, fu allora organizzato, non prima.
Del terremoto del 1976, ricordo che ero a Trieste, e che ero appena sposata.
Quella sera io, Alido, ed un’amica tolmezzina, stavamo forse passeggiando.
Poi entriamo in un bar, per bere qualcosa, guardiamo la televisione e sentiamo di un tremendo terremoto che ha distrutto il Friuli e la Carnia. Poche notizie, ancora confuse.
È tardi, la notte è già scesa, non esistono cellulari, ed impariamo subito che è impossibile telefonare.
Ci viene data una speranza e l’ultima disperata opportunità di sapere qualcosa da chi ha le chiavi di una sede di partito: incredibilmente le sedi di partito funzionano sempre.
Chiediamo, domandiamo: poche parole in risposta: pare che Tolmezzo e la Carnia non abbiano tutti quei danni di cui parlava la Rai. Poi andiamo a dormire tutti insieme, per farci un po’ di coraggio.
E’ il mattino del 7 maggio 1976. Cerchiamo un mezzo di trasporto pubblico che raggiunga la Carnia, per vedere se i nostri sono ancora vivi, se hanno subito danni, ma i treni sono fermi, perché non si transita.
All’altezza di Gemona i binari sono stati divelti dalla forza spaventosa del terremoto che ha fatto pure deragliare alcune carrozze.
Attendiamo ancora ed infine ci dicono che partirà una corriera, la cosiddetta “triestina”, che unisce il capoluogo giuliano a Merano.
È l’unica che ha avuto il permesso di transito. Avvisano, pure, di salire solo se si è del Friuli o della Carnia e della Val Canale, ma ci sono due vecchie signore che salgono comunque, per fare un giro turistico nella disgrazia altrui.
Mi sento, in quel momento, francamente, di odiarle.
Poi la corriera parte, e procede lentamente. Quei 120 chilometri paiono lunghissimi.
Da Udine in poi, verso nord, il cielo è giallo, di una polvere gialla di macerie, di morti, di corpi feriti, di paesi distrutti. Quel giallo fa paura, siamo piombati in un mondo irreale.
La corriera transita a passo d’uomo tra gli incredibili resti di costruzioni nuove e di paesi vecchi, mentre l’aria è quasi irrespirabile.
Ma superato Venzone, la situazione pare migliorare. Tolmezzo è in piedi ma vuota e non so dove cercare i miei.
Saluto con un bacio fugace Alido, che si appresta a raggiungere a piedi Rigolato, ed apprendo che i miei nonni e mio zio sono stati accompagnati “nella gleria” da Zamolo, il fratello di Silvano, loro vicino di casa.
Infine, dopo varie peripezie, li trovo nei pressi dell’abitazione dei miei genitori. Sono vivi e stanno bene. E questo è l’importante.
Nei giorni seguenti si incomincia a sentir parlare dei 1000 morti del gemonese e dintorni, e di moltissimi feriti.
Mio padre, Geremia Puppini, ispettore tecnico periferico, si reca a Gemona, sua sede di servizio, appena può, ma è inutile: la scuola non esiste più.
Scavano militari, vigili del fuoco, volontari, forze dell’ordine alpini e civili accorsi, tra le macerie. Qualcuno ne esce ancora vivo, per altri non vi è più speranza.
Dopo una decina di giorni qualcuno dice che a Gemona hanno buttato la calce per disinfettare. Ormai è difficilissimo, quasi impossibile trovare qualcuno vivo, mentre la paura di malattie, in quel caldo afoso ed impossibile, con ancora carcasse di animali sotto le macerie, sta diventando una realtà.
Diventa improrogabile vaccinare tutti contro il tifo e vengono distribuite a tutti dosi di medicinale.
Mi ricordo ancora che in quei giorni, quando il transito è diventato più agevole, vado a trovare Remo e Clara Cacitti, la cui villa, a Venzone, costruita dalla ditta Tavosanis, non ha subito danni di rilievo. Vedo sul letto di Remo pezzi di affresco del duomo, strappati alla distruzione, e sento suo padre, Brunone Cacìt, il partigiano osovano Lena, imprecare contro le opere d’arte, e dire che sarebbe importante cercare un po’ di formaggio. Due visioni diverse della vita si scontrano.
Infine, giorni dopo, rassicurata, riparto per Trieste. Nell’estate i miei nonni trovano alloggio a Rigolato, e vengono aiutati da Mina, mia cognata, che non ha avuto danni.
Mio padre e mia madre riprendono la loro vita, non certo normale, ma sufficientemente.
Calcolati i danni, qualche sindaco decide di abbattere quasi tutte le case vecchie, qualche paesano decide di iniziare a riparare da solo, magari ricostruendo tetti con travi di pesantissimo cemento che causeranno qualche morto, gli abitanti di Gemona e Venzone vengono alloggiati in tendopoli, che diventeranno centri di protesta, richiesta, autogestione.
Dopo lo scavare dei soccorritori che non conosce tregua, inizia il lavoro indefesso delle ruspe, a togliere macerie, a spianare.
Se ne vanno così le pietre dei vecchi borghi che verranno sostituite dalle nuove, ma anche la Sovrintendenza ai beni culturali inizia il suo lavoro.
Mio nonno muore, si attende l’inverno, vi è una vaga parvenza di normalità almeno in Carnia. Ma poi giunge quella scossa mattutina del 15 settembre, un fulmine a ciel sereno. La sento anch’io a Trieste, è quella scossa che cambia definitivamente la vita della popolazione friulana: bisogna andar via.
Viene organizzato una specie di esodo verso la bassa marinara, e Grado in particolare, ove ben pochi sono disposti ad offrire spontaneamente ai “profughi” i loro appartamenti, le loro “seconde case” che, se ben ricordo, vengono requisite.
Mio padre viene incaricato di organizzare le scuole per i friulani a Grado. Lo fa con il suo solito impegno, con la sua bravura. E’ quasi alla dirittura d’arrivo quando, un giorno, al radiogiornale del fvg, seguitissimo, si dà la notizia che l’indomani le scuole saranno aperte. Mi ricordo il suo sconforto e la sua ira, verso quei forse politici che per farsi belli avevano dato un’informazione falsa. Comunque pochi giorni dopo le scuole iniziano anche per i profughi friulani nella bassa e nella laguna, ed i bambini e ragazzi possono riprendere il loro ruolo di scolari.
La ricostruzione appartiene al poi.
Non conosco i risvolti politici della ricostruzione, so solo che improvvisamente i prezzi del cemento e dei materiali di costruzione aumentarono vertiginosamente, che Monsignor Alfredo Battisti, fra le ire di qualche giornale anche nazionale, osò dire che speculare così sulle disgrazie altrui era peccato mortale; che sorse un Comitato delle tendopoli sia a Gemona che a Venzone; che Venzone fu ricostruita seguendo criteri di salvaguardia degli edifici storici, grazie ai suoi abitanti ma anche a Remo Cacitti che però, non avendo partito, fu presto dimenticato nei convegni ufficiali. E ricordo pure, che vennero scelte alcune ditte nazionali per la ricostruzione del grezzo, tra cui la Cosma, se non erro, restando gli interni a carico, spesso, dei proprietari.
Certamente giunsero in Friuli cospicui aiuti da emigranti e dall’estero, e vi furono vere gare di generosità.
Mia nonna, da poco vedova, svernò ad Agra, nel varesotto, grazie ad una sezione dell’Ana, guidata da Sironi forse Davide.
Certamente quel terremoto e quelle case nuove cambiarono valori, mentalità e vita in paese.
Ci si guardò maggiormente con sospetto, ci fu chi, per non sporcare la villetta nuova, decise di vivere inizialmente nel seminterrato; l’attaccamento ai beni divenne maggiore, la coesione sociale minore, e Tolmezzo non ebbe più un quadrato di verde né un reale centro storico. Venne concessa l’università ad Udine, gruppi di venzonesi e friulani scesero a Roma per chiedere pane e sviluppo, prendendosela con il governo, ed il Movimento Friuli riscosse sempre maggior successo.
Ma poi con il tempo tutto tornò alla normalità, anzi ad un quasi intorpidimento.
Ma questa è altra storia, è la storia di come i beni materiali cambino il mondo. Ci si illuse di costruire nuovi paesi e nuova civiltà, ma sarebbe importante fare un bilancio.
Quanto scritto è solo frutto della mia memoria, e quindi potrebbe non essere preciso, e mi scuso subito per questo. Sono passati tanti anni … ma ho accontentato Francesco.
(L’immagine, che rappresenta friulani che protestano a Roma, è tratta da un volatino d’epoca di proprietà di Laura Matelda Puppini).
Laura Matelda Puppini
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Un ricordo personale che racconta con efficacia il dramma del terremoto in Friuli.
da tante storie come questa nasce la memoria collettiva..molto bello.
Una memoria personale ma condivisa da molti. Grazie