Sulla strage di piazza Fontana e le altre, ricordando come l’Italia non riuscì mai a fare i conti con il fascismo, la sua ideologia ed i suoi metodi.
Improvvisamente, nel 2019, a 50 anni dalla strage di matrice neofascista (come le altre), di piazza Fontana, ci si è ricordati per fortuna e con gran squilli di tromba della stessa, che qualcuno ha definito la madre di tutte le stragi, ma le madri di tutte le stragi furono, secondo me, nazismo, fascismo, la seconda guerra mondiale ed alcune scelte del dopoguerra, come quella di permettere il mantenimento e la creazione, nella repubblica nata dalla resistenza, di gruppi neofascisti inneggianti a Mussolini, che usavano metodi fascisti e che consideravano il comunismo il male assoluto. E così sono stati scritti libri, si sono svolti e si svolgeranno incontri a memoria, e via dicendo, che forse scemeranno per il 51° anniversario, perché tutto scorre in Italia, in una grande confusione etica e valoriale, e magari gli Italiani dovranno aspettare il centenario della strage, quando noi non ci saremo, per riesumare e ricordare un pezzo deprecabile di storia d’Italia.
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Naturalmente questo non è un articolo dettagliato sulle stragi degli anni ’70 in Italia, pertanto consiglio a chi avesse poco tempo da dedicare alla lettura, gli articoli: “La morale di una ‘memoria difficile’: il fascismo in Italia non è mai morto”, di Agostino Giovagnoli, che sottolinea, in particolare, come «Piazza Fontana ci ricorda che il fascismo non è finito in Italia nel 1945 e che ha continuato ad attraversare la società italiana in modo palese o sotterraneo», e “Vedo un braccio … è stata una bomba. Quel giorno in banca senza giustizia” di Francesco Riccardi, su Avvenire, 8 dicembre 2019, leggibili on line il primo su https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/piazza-fontana-la-memoria-e-il-fascismo, il secondo su: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/piazza-fontana-50-anni-il-testimone.
E sempre Agostino Giovagnoli nell’articolo citato ci ricorda che: «A causa della sua storia l’Italia è particolarmente vulnerabile a richiami di questo tipo. Negli ultimi anni abbiamo qui assistito a un crescendo di insulti, minacce, aggressioni, violenze – off line e on line – riferibili a questa matrice. Molte forme di razzismo e di antisemitismo oggi sotto i nostri occhi emergono da tale retroterra. Recentemente la magistratura ha sventato il tentativo di creare in Italia un partito nazista con collegamenti internazionali. Ci sono persino rappresentanti di partiti oggi importanti che non esitano a definirsi fascisti. Tutto ciò non può essere accettato passivamente».
Non solo: qui sventola la bandiera con la tartaruga di Casa Pound, giudici assolvono il saluto romano fascista (http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/11/07/saluto-romano-non-e-reato-assolti_2be6b778-73e7-4417-bd13-17cac54d309d.html), la tomba del duce diventa luogo di pellegrinaggio, e la senatrice Liliana Segre si guadagna una scorta grazie all’odio antisemita di alcuni. (https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/19_novembre_07/scorta-liliana-segre-insulti-minacce-web-carabinieri-sicurezza-odio-razziale-haters-52801f2a-00cf-11ea-90df-c7bf97da0906.shtml).
Per chi, invece, volesse raggiungere un primo approfondimento sulle stragi degli anni ’70 certamente è validissimo il numero di Millennium datato ottobre 2019 intitolato “Strategia di Stato. Ecco i mandanti. Piazza Fontana e le altre, 50 anni dopo”, che riporta anche un interessante articolo di Gianni Barbacetto, intitolato: “Nessun mistero. Noi sappiamo chi ha messo le bombe. Ecco i nomi”, ed una scheda cronologica delle stragi degli anni settanta, una dietro l’altra … Se poi volete conoscere un modo approfondito l’argomento, Gianni Barbacetto, autore la cui serietà e professionalità sono note, ha scritto un volume intitolato “Piazza Fontana. Il primo atto dell’ultima guerra italiana”, edito da Garzanti nell’ ottobre 2019.
Ma per me due volumi chiari ed importantissimi sono pure: Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Einaudi ed., e Ferdinando Imposimato, La repubblica delle stragi impunite, ed. Newton Compton.
Naturalmente sulle stragi italiane sono stati scritti altri volumi validi, ma io non li ho letti recentemente, pertanto mi limito a consigliare quanto conosco.
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Giacomo Pacini e Ferdinando Imposimato scrivono quel pezzo di storia che va dalla fine della seconda guerra mondiale alle stragi, scrivono di Gladio e di “altre Gladio”, di arsenali occulti, di personaggi discutibili, di elementi deviati della formazione partigiana Osoppo, e documentano, riportano nomi e cognomi, per non dimenticare come in Italia, nel dopoguerra, invece che processare fascisti e nazisti e loro collaboratori, addirittura si favorirono strane connivenze, si sostennero gruppi fascisti, si crearono “armadi della vergogna” e “armadi chiusi della memoria”, fino a giungere a due passi dal creare l’idea che la seconda guerra mondiale, dal settembre 1943 in poi, non fosse stata altro che una lotta per il confine orientale d’Italia fra sporchi rossi comunisti e integerrimi italiani verdi chiamati a difesa solo perché costretti dall’aggressione nemica, che è vera quanto lo è la favola di Cappuccetto Rosso, ma che è funzionale a condizionare politicamente, ancor oggi, le scelte del Paese, della nostra Nazione mai liberatasi dai fantasmi del passato. Noi non siamo mai riusciti a far i conti con la nostra storia, come invece fecero anche i francesi. Eppure De Gaulle non era certo di sinistra, ma sotto di lui chi si era pressantemente compromesso con i nazisti non se la cavò stando al proprio posto o andando all’estero, magari con l’aiuto di qualcuno.
E Giacomo Pacini ci ha sottolineato come, nell’immediato dopoguerra, in Italia fossero nate delle formazioni paramilitari segrete in funzione di una futuribile invasione comunista, che avevano avuto nella “sezione Calderini” cioè nella branca offensiva dei servizi segreti del governo Badoglio, creata nel novembre 1943, il loro inizio. (Giacomo Pacini, op. cit., p. 5, e per la sezione Calderini cfr. ivi il capitolo: All’inizio di stay Behind, pp. 11-28). Ed in quel secondo dopoguerra, a Trieste, venne creato l’Ufficio per la Venezia Giulia poi Ufficio per le zone di confine, «struttura preposta a supportare e finanziare un’ampia rete di associazioni, enti locali, partiti politici, ma soprattutto formazioni paramilitari che si prefiggevano l’obiettivo di sostenere e difendere l’italianità delle terre di frontiera». (Ivi, p. 56). Ed a Trieste si era creata una situazione, nel dopoguerra, che veniva denunciata da Bruno Monciatti, stretto collaboratore dell’allora sindaco della città giuliana Gianni Bartoli, al prefetto Innocenti in questo modo: «da ormai troppo tempo in questa città perdura ed è tollerata una attività pseudo-nazionale di alcuni gruppi di giovani che in parte sotto la guida di elementi compromessi col passato regime, stanno commettendo ogni sorta di atti inconsulti ed incontrollabili […] Si tratta di una mentalità che purtroppo sopravvive in certi elementi che pretendono di monopolizzare il patriottismo […] mentre […] con la loro attività riprovevole, invece di giovare, portano gravi pregiudizi al prestigio ed alla solidarietà nazionali», (Ivi, p. 76). Monciatti chiedeva quindi al prefetto di stroncare, anche con la forza se necessario, le attività di quelli che egli definiva “gruppi di facinorosi”. (Ibid.). Ed i nomi che ricorrevano sui documenti erano quelli delle associazioni Oberdan, Stazione e Cavana, che ufficialmente erano sorte con altri fini ma che avevano gravemente deviato dai compiti per cui erano nate, ed i cui componenti risultavano ben armati ed in contatto con l’Msi. (Ivi, p. 77). Inoltre, pare tramite Giulio Andreotti, tali gruppi avevano avuto l’acritico sostegno del governo. (Ibid).
Infine nel secondo dopoguerra si giunse ad una situazione in cui, come scrive Barbacetto: «I rapporti sotterranei tra uomini della destra e apparati dello Stato sono così intensi da configurare un vero e proprio consociativismo occulto di destra». (Gianni Barbacetto, Piazza Fontana, op. cit., p. 321).
E negli anni sessanta e settanta, ma non solo, uomini non inquadrati nelle forze Armate facevano tranquillamente ed indisturbati esercitazioni militari in divisa, come ci ricorda sempre Gianni Barbacetto. (Ivi, p. 62).
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Ma ritorniamo alle stragi. Il meccanismo con cui funzionarono, da quella di piazza Fontana, sono simili ed atte a far cadere la causa delle stesse sulla sinistra: la strage alla banca dell’Agricoltura viene eseguita in una banca nata nel 1921, ed autorizzata, nel 1938, in pieno regime fascista, ad operare nel campo del credito agrario; si cerca un sosia di Valpreda, Nino Sottosanti, da mandare qui e là perché qualcuno si ricordi poi di aver visto uno simile a lui nei pressi di un luogo o dell’altro (https://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Valpreda); si colpiscono agricoltori senza colore politico, uomini qualunque, all’indomani di importanti scelte a livello sociale, quali il primo sì allo Statuto dei Lavoratori e l’approvazione della legge che permetteva a tutti di frequentare l’università (Cfr. Francesco Riccardi, Vedo un braccio, op. cit.). Insomma in questa strage come in altre si studiarono persino i futuri perfetti colpevoli.
Non solo: vi era allora anche un esercito di specialisti nell’”intossicazione informatica” e nella “guerra psicologica” pronti ad entrare in azione: «giornalisti e militanti, informatori e agenti dei servizi», tutti schierati, tutti pronti a condizionare l’opinione pubblica. Non per nulla allora si parlava di una strategia politica detta “guerra non ortodossa”, cara agli americani. (Gianni Barbacetto, Piazza Fontana, op. cit., p. 67 e p. 323). Ma per piazza Fontana l’effetto non fu quello voluto e previsto. 300. 000 persone si presentano ai funerali delle vittime della Banca dell’Agricoltura, mentre il sindaco di Milano, il partigiano Aldo Aniasi, indicava la via per una nuova Resistenza (Ivi, p. 93); nelle piazze si urlava: «Valpreda è innocente. La strage è di Stato» (Ivi, p. 65) e sui muri delle città iniziavano a comparire scritte che sottolineavano: «la strage è nera». (Ivi, p. 96). Lo ricorda ora anche una formella, posta a Milano, su cui si legge: «Strage di piazza Fontana. 17 vittime- Ordigno collocato dal gruppo terroristico di estrema destra Ordine Nuovo». (https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2019-12/piazza-fontana-milano-strage-1969.html).
Poi le altre stragi, di cui quella che maggiormente impressionò fu quella della stazione di Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980, che è considerata uno dei più gravi attentati verificatisi in Italia in quegli anni, assieme alla strage di piazza Fontana, alla strage di piazza della Loggia, alla strage del treno Italicus del 4 agosto 1974 (https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Bologna), che non furono le sole.
Come esecutori materiali della strage di Bologna furono individuati dalla magistratura alcuni militanti di estrema destra appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Gli ipotetici mandanti, se vi furono, rimasero però sconosciuti, ma furono rilevati collegamenti con la criminalità organizzata e i servizi segreti deviati. (Ivi). Mi ricordo il timore con cui allora, dopo la strage, ci si fermava in un locale di una stazione, mi ricordo come si guardava che intorno non ci fosse una valigia incustodita, mi ricordo come si osservasse gli addetti delle ferrovie quando, con un bastoncino adatto, vagliavano i cestini dei vagoni e ispezionavano gli stessi prima di partire e le sale d’attesa.
E vi furono più attentati ai treni, andati a buon fine o meno, nel corso di quegli anni ’70, tanto che, già il 18 luglio 1967, veniva diramato, con un telegramma, il seguente comunicato: «A tutti i dirigenti dei commissariati di polizia ferroviaria. Persistente allarme in ambito ferroviario, conseguente at continue segnalazioni presunti attentati impone adozione ogni possibile misura. Sensibilizzare personale dipendente et servizi vigilanza con frequenti et accurate ispezioni. Necessità accurati controlli viaggiatori comunque sospetti bagagli et vani convoglio ove est possibile nascondere ordigni». (Gianni Barbacetto, Piazza Fontana, op. cit., p. 167). Pensate in che clima fecero vivere gli italiani i neofascisti. Ma gli attentati ai treni non furono solo presunti.
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Ci avevano tolto i sogni, quelle bombe, che avevano creato una costante incertezza, come quella serie di piccoli attentati meno noti di matrice mafiosa, che coinvolsero chiese, inviando un messaggio chiaro allo Stato: siamo capaci di fare una strage. (https://www.avvenire.it/attualita/pagine/le-bombe-di-25-anni-fa-dirette-contro-la-chiesa).
«Venticinque anni fa l’attacco della mafia alla Chiesa. Poco dopo la mezzanotte del 27 luglio 1993, un’autobomba esplose davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano, danneggiando gravemente la facciata e l’adiacente Palazzo dei Laterani. Contemporaneamente un’altra auto imbottita di tritolo venne fatta esplodere davanti alla chiesa romana di San Giorgio al Velabro, provocando anche qui danni gravissimi. In tutto ci furono 22 feriti.
Molto peggio era andato mezz’ora prima con l’esplosione di un’altra autobomba a via Palestro a Milano. Morirono il vigile urbano Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno e l’immigrato marocchino Moussafir Driss che dormiva su una panchina. Ferite dodici persone, oltre a gravi danni al Padiglione di arte contemporanea e alla Galleria d’arte moderna. Erano le bombe della strategia stragista di ‘Cosa nostra’, decisa dalla ‘commissione provinciale’ guidata da Totò Riina. Dopo gli attentati di Capaci e via D’Amelio, nel 1993 le bombe sbarcarono sul ‘Continente’. Il 14 maggio, a Roma in via Fauro, il fallito attentato a Maurizio Costanzo. Il 27 maggio l’autobomba in via dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi, provocò il crollo dell’adiacente Torre dei Pulci e l’uccisione dei coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume con le loro figlie Nadia (9 anni) e Caterina (50 giorni) e lo studente universitario Dario Capolicchio (22 anni), nonché il ferimento di una quarantina di persone. E dopo le bombe alle chiese, il 31 ottobre il fallito attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico di Roma. Una strategia che si incrocia con la vicenda della cosiddetta ‘trattativa Stato-mafia’». (https://www.avvenire.it/attualita/pagine/le-bombe-di-25-anni-fa-dirette-contro-la-chiesa).
Tanto per non dimenticare.
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Ancora due parole sul legame tra fascismo e gli attentati che scossero lo stato, seguiti da depistaggi incredibili, ritrattazioni, spostamenti di sede nei processi, come per esempio quello che accusava i veneti di Ordine Nuovo della strage di Piazza Fontana che finì a Catanzaro, non perché lì vi fossero giudici compiacenti, anzi essi fecero bene il loro lavoro, ma perché a Catanzaro era già in corso il processo contro Valpreda, e, facendo così, si tolse l’accusa ai neri dalle mani del giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio e da quelle dei pm Alessandrini e Fiasconaro. Giustificazione: “motivi di ordine pubblico”. (https://milano.repubblica.it/cronaca/2019/12/12/news/strage_piazza_fontana_processi-243192434/). Ma questa storia italiana di stragi è zeppa di intralci al corso della giustizia, di testimoni che spariscono, di depistaggi e via dicendo. E quando si andò a toccare Pino Rauti, “apriti cielo!” (Cfr. in generale Gianni Barbacetto, op. cit., e per Pino Rauti, ivi, pp. 29-30). Non solo: Franco Freda e Giovanni Ventura furono persino assolti in tre gradi di giudizio, per poi esser considerati colpevoli per la strage di piazza Fontana nel 2005, ma senza poter più essere puniti. E chi seguì la pista nera non ebbe vita facile.
Insomma, pare, come scrive Barbacetto, che una parte dello Stato abbia avuto paura di andare fino in fondo: «ha frenato, anche se nel contempo ha scoperto gli eversori. Ai volonterosi funzionari del partito del golpe ha garantito impunità, però li ha bloccati: ha approfittato di chi voleva destabilizzare per, al contrario, stabilizzare». (Ivi, p. 93).
E «nei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sui banchi degli accusati, ma si ripresenta anche sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti e feriti […].» (Ivi, p. 100).
«Sono ormai molteplici – scrive Barbacetto – le testimonianze che raccontano lo scenario della “guerra non ortodossa” teorizzata dalle centrali politico militari occidentali e combattuta contro il comunismo, senza esclusione di colpi, a partire dal dopoguerra, con le punte più drammatiche fra gli anni Sessanta e Settanta, ma trascinata (almeno) fino all’esaurimento degli anni Ottanta. Sono decenni di illegalità diffusa, manovre eversive, depistaggi, stragi impunite, in un quadro di sovranità limitata: ferite profonde alla democrazia». (Gianni Barbacetto, Piazza Fontana, op. cit., p.317). E la guerra non ortodossa si è configurata come «un conflitto a bassa intensità», una guerra «non dichiarata, sotterranea, combattuta con mezzi non convenzionali, con eserciti invisibili e combattenti senza divisa ma pronti a tutto» (Ivi, p. 107).
Non si può dimenticare, inoltre, come i servizi segreti e le forze armate avessero molti esponenti del MSI nelle loro file. E «il MSI è stato coinvolto […] fin dalla sua nascita, nella gestione del potere dello Stato, in particolare nella conduzione dei suoi apparati più segreti e delle operazioni più sotterranee. Forze armate, ministero dell’Interno, servizi segreti hanno sempre avuto rapporti stretti con il Movimento Sociale ed i suoi uomini». – scrive Barbacetto. (Ivi, pp. 315-326).
E «a combattere questa guerra segreta sono strutture miste militari-civili, sottratte al controllo degli istituti democratici e dotate di licenza di uccidere. Gran parte del personale politico e militare di queste complesse strutture, sia sul fronte legale- visibile sia su quello illegale- occulto, fa riferimento agli ambienti della destra e, seppur spesso in maniera ambivalente e conflittuale, al Movimento Sociale Italiano. Guardano al MSI i generali più importanti delle forze armate negli anni Sessanta, a cominciare da Giuseppe Aloia, capo di Stato maggiore dell’esercito. È lui ad istituire i “corsi di ardimento” che formano “migliaia di uomini particolarmente addestrati contro la guerra sovversiva”, secondo la testimonianza di Pino Rauti e Guido Giannettini […]» – sostiene Barbacetto dopo aver visionato la requisitoria firmata dal pm di Bologna Paolo Giovagnoli nel 1994. (Ivi, pp. 317-318). Molti altissimi ufficiali approdano nelle file del Msi, quel Movimento Sociale Italiano che nasce «come forza politica dalla quale reclutare, all’ occorrenza, giovani provenienti dall’esperienza militare della Repubblica Sociale italiana, in grado di impugnare le armi in difesa, stavolta, dell’ordine americano». (Ivi, pp. 317-318). E l’ombrello atlantico è quello aperto a «proteggere da ogni pioggia». (Ivi, p. 72). Ed il MSI era guidato da Giorgio Almirante.
Ma chi era Giorgio Almirante? Era stato, nell’ R.S.I. «capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura Popolare che curava la Propaganda della Repubblica Sociale. «Una figura non di seconda fila – quella del trentenne Almirante – approdata al governo filonazista di Salò dopo una robusta esperienza giornalistica da caporedattore nel quotidiano Il Tevere e da segretario di redazione della Difesa della Razza, la rivista ufficiale dell’antisemitismo sulla quale scrisse articoli intonati al più convinto “razzismo biologico”». (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/05/29/almirante-gli-scheletri-di-salo.html). Ed è lo stesso Giorgio Almirante a cui Gianni Alemanno, quando era sindaco di Roma, voleva dedicare una via della città. (Ivi).
E fu proprio Giorgio Almirante che firmò il cosiddetto “manifesto della morte” che apparve nel maggio del 1944, «sui muri dell’alta Toscana, tra le pendici dell’Amiata e la Val di Cecina, nei paesi sopra Grosseto già occupati dalle insegne di Hitler. Vi era riprodotto l’ultimatum rivolto il 18 aprile da Mussolini ai militari “sbandati” dopo l’8 settembre 1943 e ai ribelli saliti in montagna: consegnatevi ai tedeschi o ai fascisti entro trenta giorni, oppure vi aspetta la fucilazione. Morte era minacciata anche a chi avesse dato aiuto o riparo ai partigiani». (Ivi). E quell’ ultimatum, voluto dal duce di concerto con Rodolfo Graziani, dette avvio ad una indiscriminata caccia all’uomo ed a rastrellamenti feroci, in una terra insanguinata dalle stragi. Solo in Maremma, tra il 13 e il 14 giugno, furono ammazzati a Niccioleta ottantatré minatori. (Ivi. Per la strage di Niccioleta cfr. http://www.grossetocontemporanea.it/la-strage-di-niccioleta/).
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Nel 1970, il giorno dell’Immacolata, Junio Valerio Borghese tentò un golpe, per stabilire in Italia una dittatura. Quello che mi ricordo fu che allora non apparve un golpe da operetta, ma una cosa maledettamente seria, ricordo che i programmi tv furono sospesi ed improvvisamente fu data la notizia di un colpo di Stato in atto in Italia, di truppe militari e paramilitari che, sotto la guida del ‘principe nero’ (cosiddetto per i suoi legami con la chiesa), avevano già occupato punti nevralgici come la Rai, obbligando il giornalista del telegiornale a leggere un loro comunicato. Ma poi qualcosa fermò detto progetto. Alloro si diceva che fu la mancata adesione al golpe di parte delle forze armate, mi pare in particolare dell’Esercito, che si schierò per lo stato di diritto. Ed anche il Venezuela ci ha insegnato da poco che, se le forze armate restano fedeli allo stato, ogni golpe diventa difficile. Ma chiedo lumi se ciò che allora sicuramente si narrava abbia trovato poi riscontro. Perché Barbacetto racconta un’altra versione dello stop al golpe, cioè che l’ordine di fermarsi venne dato dagli Usa attraverso Licio Gelli. (Gianni Barbacetto, Piazza Fontana, op. cit., p. 75).
Perché è ormai dimostrato che sia Licio Gelli Gran Maestro del G.O.I., sia la loggia segreta P2 sempre del Grande Oriente d’Italia giocarono un ruolo nella “guerra occulta” così come gli Usa, se il rapporto preliminare della commissione d’inchiesta presieduta, negli Stati Uniti, da Otis Pike, ha dimostrato l’erogazione di 800.000 dollari a favore di un altissimo ufficiale del Sid, in cui, scrive Barbacetto, non è difficile riconoscere Vito Miceli, assolto in Italia dall’accusa di favoreggiamento, mentre lo stralcio sulla cosiddetta struttura parallela del Sid non è mai giunta a dibattimento. (Ivi, p. 166).
Ed in seguito alla desecretazione di documenti statunitensi, è stato reso noto che quantomeno i servizi segreti USA erano a conoscenza del Golpe dell’Immacolata. (https://it.wikipedia.org/wiki/Junio_Valerio_Borghese).
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Ma per ritornare a Junio Valerio Borghese, chi era costui? Altri non era che il comandante della X Mas, che era corso, subito dopo l’8 settembre 1943, prima ancora che si formasse la Repubblica Sociale Italiana, a vendersi ai tedeschi trascinando con sé tutta la Xa, che da allora in poi svolse una feroce azione antipartigiana e stragista, come ho già riportato nel mio: «Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori», in: nonsolocarnia.info. Ed a guerra perduta, era riuscito a raggiungere Roma grazie all’aiuto americano, (ottenuto tramite l’ inviato dell’OSS James Jesus Angleton, amico di Ezra Pound), indossando abiti da ufficiale del loro esercito (Ricciotti Lazzero, La Decima Mas. Compagnia di Ventura del Principe Nero, Rizzoli, Mi, 1984, p. 237), senza cadere direttamente in mano partigiana, il che avrebbe comportato un processo ed una probabile pena di morte per essersi venduto al nemico e per tutto quanto fatto, anche alla popolazione civile, dalla X Mas e dal gruppo comandato da Umberto Bertozzi e da altri che facevano parte della stessa. Poi Junio Valerio Borghese fu chiamato a processo a Vicenza, ma il suo difensore riuscì a spostare il processo alla Corte di Assise di Roma, presieduta dal dottor Caccavale, ex vicepresidente dell’ “Unione fascista per le famiglie numerose” e amico del principe Gian Giacomo Borghese ex governatore fascista della città di Roma e parente stretto dell’imputato, ma anche se si salvò dall’esecuzione, Borghese fu condannato comunque a due ergastoli, poi commutati in 12 anni di reclusione di cui 9 abbonati a causa delle medaglie ricevute sotto il fascismo, una per aver partecipato a fianco di Francisco Franco alla guerra di Spagna nel 1939, una per azioni contro gli Inglesi, nel Mediterraneo, nel 1941. (Junio Valerio Borghese da wikipedia 20 gennaio 2017). Infine, grazie all’amnistia detta Togliatti, la Corte dispose l’immediata scarcerazione del condannato, che aveva già scontato per intero, in regime di carcerazione preventiva, la pena residua. (https://it.wikipedia.org/wiki/Junio_Valerio_Borghese, 17 dicembre 2019. Per la X Mas cfr. Laura Matelda Puppini, No alla X Mas nelle sedi istituzionali della Repubblica italiana. Motivi storici, in: nonsolocarnia.info).
Nel 1951 aderì al MSI, di cui divenne, nel 1953, presidente onorario, che poi abbandonò perché da lui considerato troppo morbido. Nel settembre 1968 fondò il Fronte Nazionale, «allo scopo – secondo i servizi segreti – “di sovvertire le istituzioni dello Stato con disegni eversivi”» (https://it.wikipedia.org/wiki/Junio_Valerio_Borghese, 17 dicembre 2019).
Quindi dove ritroviamo il principe nero? A comandare un golpe contro lo Stato italiano, ed infine neppure allora arrestato, fuggitivo in Spagna, sotto la calda ala protettrice del Caudillo. Comunque in Italia, prima fu emesso un mandato di cattura contro di lui per il tentato golpe, quindi, nel 1973, l’ordine di cattura venne revocato ed egli fu prosciolto da ogni accusa. Ma rimase all’estero. E Junio Valerio Borghese riuscì pure a recarsi in Cile ad incontrare Pinochet. (https://it.wikipedia.org/wiki/Junio_Valerio_Borghese).
James Jesus Angleton e Giulio Andreotti ritornano in questa storia recente, perché Andreotti è il politico citato in merito a finanziamenti di stato a gruppi neofascisti nel primo secondo dopoguerra, ed è anche «il ministro e prestigiatore della trasformazione del dossier del golpe Borghese da “maloppone” a “maloppino”» (Gianni Barbacetto, Piazza Fontana, op. cit., p. 90), e James Jesus Angleton, la figura più emblematica e carismatica della storia dell’ intelligence d’oltreoceano, giunto a Roma inviato dagli Usa, come capo dell’unità Zeta dell’Oss e che aveva portato a Roma Borghese, ebbe un ruolo anche nel primo dopoguerra in Italia, perché fu proprio lui che «creò il primo nucleo di servizi segreti italiani post bellici, il SIFAR». (Ferdinando Imposimato, op. cit., p. 41). Ed a proposito di servizi segreti, per un periodo non fu chiaro neppure dove si trovasse la sede romana del Sid. Infine si scoprì che, in via Sicilia, esistevano due sedi, la sede comune e nota, al numero civico 159, condivisa con i servizi segreti americani, ed una sede occulta al numero civico 235. (Ibid). E «Da via Sicilia- scrive sempre Imposimato – passeranno molti neofascisti aiutati da agenti dei servizi per sottrarsi alla rete della giustizia italiana, spesso fornendo passaporti falsi e basi logistiche per espatriare». (Ibid.). E lo stesso Mino Pecorelli scrisse, nel maggio 1975, che il generale Maletti aveva creato un centro di controspionaggio, comandato dal Capitano Labruna. (Ivi, p. 43). Ma, come se non bastasse, proprio in via Sicilia, al numero 42, fu posta una base del movimento neofascista Ordine Nuovo fondato da Pino Rauti, a cui appartenevano anche Freda e Ventura, autori della strage di Piazza Fontana, base che «nel 1969 agiva con la copertura della società Mondial Export di Mario Tedeschi». (Ivi, p. 44). E Licio Gelli, quando si trovava a Roma, albergava all’hotel Excelsior, a due passi da via Sicilia. (Ibid.) Pura coincidenza?
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La cosiddetta strategia della tensione e le stragi della storia d’Italia nascono in un tempo recente ma non recentissimo, nascono dal fascismo, dal nazismo, dalla seconda guerra mondiale, e non a caso hanno avuto, secondo me, la loro culla in Veneto ed in Friuli Venezia Giulia, uno terra dell’RSI, l’altro del “confine orientale”. L’avvento al potere di Silvio Berlusconi ha permesso ai rappresentanti del MSI di entrare a far parte del governo, anche se «a osservare la storia (visibile e sotterranea) d’Italia degli ultimi decenni e a leggere molte pagine di carte processuali che di quella storia hanno dovuto occuparsi, si direbbe proprio […]. (…). […] (che) gli uomini del MSI- AN siano stati, fin dai primi anni del dopoguerra, il “polo occulto” della politica italiana». (Gianni Barbacetto, Piazza Fontana, op. cit., p. 315). Ed i rapporti tra gli uomini del MSI, di cui Alleanza Nazionale e Fratelli d’ Italia sono gli eredi politici e storici, e gli apparati statuali italiani e stranieri hanno scritto la “storia segreta” occulta e sotterranea del paese. Una storia fatta di finanziamenti illegali, di apparati sottratti al controllo democratico, di manovre eversive, di stragi, di centinaia di morti senza colpevoli, di patti inconfessabili con organizzazioni criminali, di doppi giuramenti e di doppie fedeltà: una storia, in sostanza, di negazione della democrazia e della trasparenza, in nome di un “bene superiore” di un assetto di potere da garantire ad ogni costo» (Ivi, p. 316).
Ma anche per la strage di Vergarolla, avvenuta nel 1946, tanto per fare un esempio, su cui non si è mai fatta piena luce, qualcuno ha pensato ad una strage nera costruita in modo da attribuirla ai rossi. (Laura Matelda Puppini, Non avrei scritto queste righe se non avessi letto il titolo dell’articolo di Maurizio Cescon, Vergarolla 1946 …, in: www.nonsolocarnia.info).
Inoltre non mi trovo completamente d’accordo con Gianni Barbacetto quando minimizza in certo senso i legami tra il periodo delle stragi ed il fascismo e sansepolcrismo, perché forse, se qualcuno studiasse bene il modus operandi dei fascisti e magari dannunziani fiumani dopo la prima guerra mondiale nelle terre annesse ad est, ed anche poi, (ammesso che si trovino i documenti reali, perché anche Giacomo Pacini trovò un’importante relazione relativa al modus operandi dell’Ufficio Zone di Confine mancante di tre pagine (Giacomo Pacini, op. cit., p.57), mentre esistono pure documenti falsi, o di cui non si trova più l’originale, dossier creati ad arte, ecc. ecc. come riporto sul mio: “Su quella lettera di Vincenzo Bianco datata 24 settembre 1944 ed alcuni problemi per fonti documentarie”, in: www.nonsolocarnia.info), forse qualche similitudine fra come si muovevano i fascisti allora e il sistema delle stragi si troverebbe, o forse no.
Laura Matelda Puppini
La foto che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/strage-di-piazza-fontana-quella-telefonata-mai-arrivata. Lmp.
Patria Indipendente, periodico dell’Anpi, pubblica, il 20 dicembre 2019 sul suo ultimo numero una conversazione di Irene Barichello con Carlo Fumian, classe 1951, ordinario di Storia contemporanea e Storia globale presso l’Università di Padova, Dipartimento di scienze storiche, geografiche e dell’antichità, presidente del Centro Ateneo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, esperto sugli anni della strategia della tensione e su quelli successivi, nel merito del volume “L’Italia delle stragi. Le trame eversive nella ricostruzione dei magistrati protagonisti delle inchieste (1969-1980)”, a cura di Angelo Ventrone; Pietro Calogero, Leonardo Grassi, Claudio Nunziata, Giovanni Tamburino, Giuliano Turone, Vito Zincani, Giampaolo Zorzi; Donzelli, Roma 2019. (https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/interviste/la-strategia-della-tensione-e-la-missione-anticomunista/ 20 dicembre 2019).
Il prof. Fumian si sofferma sull’importanza di utilizzare le fonti giudiziarie per ricostruire la storia dell’epoca. E rispondendo ad una domanda sulle responsabilità politiche, il prof. Carlo Fumian così afferma: «Ecco due esempi concreti di tali «responsabilità politiche». 1) La decisione del presidente del Consiglio Aldo Moro – mai revocata dai capi di governo e dai ministri della Difesa succedutisi fino al gennaio 1991 – di apporre il segreto di Stato, con il determinante contributo del sottosegretario Francesco Cossiga, sulle parti della relazione Beolchini e della relazione Manes, del 28 marzo e del 15 giugno 1967 rispettivamente, che documentavano le «deviazioni» del Sifar e di vari ufficiali dei Carabinieri concernenti sia le schedature di massa di esponenti del mondo politico, economico, militare e della società civile, sia la preparazione del piano Solo. 2) La decisione del ministro della Difesa Giulio Andreotti, assunta al termine di una riunione nel luglio 1974 con il generale Gianadelio Maletti, responsabile dell’ufficio “D” del Sid, di emendare («sfrondare il malloppo») le registrazioni dei colloqui effettuati dal capitano Antonio Labruna con alcuni protagonisti del cosiddetto tentato golpe Borghese e di occultare così alla magistratura l’identità di congiurati eccellenti e di primo piano nella strategia della tensione, quali il capo della loggia P2 Licio Gelli, il capo di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie, e l’ammiraglio piduista Giovanni Torrisi poi divenuto capo di stato maggiore della Difesa». (https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/interviste/la-strategia-della-tensione-e-la-missione-anticomunista/).
E il docente di storia ricorda anche che la strategia della tensione per mano neofascista ebbe origine prima della strage di piazza Fontana, ed è datasbile metà degl ianni sessanta.
Non da ultimo, sempre il prof. Fumian sostiene che “Ragionando di ricerca storica, a me pare che dalle considerazioni dei magistrati contenute nel libro che stiamo commentando si possa estrarre una pista di ricerca interessante. Mi riferisco all’anticomunismo. Tema che per i magistrati non ha rilevanza penale, ma per lo storico è importantissimo. È profondamente errato sottostimare la forza del «sentire anticomunista» di quegli anni: ampi apparati dello Stato erano pervasi da una così ferrea ostilità al comunismo da far loro dimenticare la Costituzione, come candidamente ammetterà nel 1997 un capo dei servizi segreti nostrani, il generale Maletti, […]. ” (Ivi).
E la sera del 16 dicembre faceva caldo a Milano.