«Sono nato ad Ampezzo il 26 ottobre 1921. Dopo le elementari non ho potuto proseguire gli studi. Ciò che vedete, sia le opere d’arte costruite da me che i fossili raccolti in tanti anni di passione da paleontologo, sono frutto del mio lavoro da autodidatta. (…). Sono tutti risultati del mio personale impegno, che valgano o no. (1).

La prima formazione l’ho avuta stando accanto ai miei genitori. Mio padre (2) era muratore, andava all’estero, mia madre faceva la contadina, teneva le mucche, ed io l’aiutavo dalla mattina alla sera.
Siccome anche i miei fratelli facevano il muratore o li falegname, i miei vollero che imparassi il mestiere del sarto. Potete credere! Con il mio carattere! In un primo momento però li accontentai. C’era un sarto che veniva da Trieste, me era originario di Voltois, (3) e per un po’ di tempo mi recai da lui ad imparare il mestiere. Poi un bel giorno mi sono detto: “È ora di finirla!” Mi lasciarono una settimana senza mangiare a causa del rifiuto, ma tenni duro e non ci andai più» (4).

«Sono stato chiamato dalla cartolina precetto nel 1940 e partii il 3 gennaio ’41. Andai a Gemona dove rimasi circa due mesi e fui scelto per fare il corso di radiotelegrafista. Poi a Tarvisio nel reggimento ‘Tolmezzo’, altri due mesi a Camporosso e nella zona e, infine, il reggimento è stato diviso: da una parte i battaglioni reali che andarono in Russia, dall’altra parte i battaglioni ‘base’. Io ero del ‘Val Fella’ e fui mandato in Montenegro. Ovviamente non si trattò di una nostra scelta. Venivamo selezionati lì sul posto, un gruppo da una parte, un altro dall’altra […]». (5).

«Nel novembre 1942 siamo andati ad occupare la Francia. Prima ci hanno portato ad Aosta, ci hanno fatto oltrepassare a piedi il Piccolo San Bernardo, poi abbiamo fatto una cinquantina di chilometri con uno zaino da 45 chili sulle spalle. Ricordo che c’era un freddo da morire e avevamo molta fame. Lungo il percorso raccoglievo le bacche del maggiociondolo abbastanza buone e commestibili. I miei compagni, quasi tutti friulani, non carnici, mi dicevano: “Ma sei matto, Martinis? Sai che con quelle lì ti avveleni?” E io: “Provate la fame e vedrete!” Poi, visto che non mi succedeva nulla, si sono messi anche loro a tagliare rami di maggiociondolo con la baionetta, ed a mangiarne le bacche.

Quando siamo arrivati il Francia, in Alta Savoia, nevicava. Siamo entrati in un casolare di montagna per vedere se ci davano qualcosa da mangiare. Una donna ci offrì del latte. Ci mettemmo a leccarlo come cani. Una scena indescrivibile!» (6).

«Dalla Francia ci hanno riportati vicino ad Imperia. Lavoravamo per costruire fortini. Siamo rimasti lì circa due mesi. In seguito ci hanno richiamati per andare nuovamente in Jugoslavia e quindi siamo ripassati per il Friuli. Erano gli ultimi di agosto del 1943. Mi ricordo che un giorno sono fuggito dalla caserma per andare a trovare i miei a casa. Al ritorno, il mio capitano, (7) un veneziano, mi disse che se l’avessi fatto un’altra volta mi avrebbe fatto fucilare». (8).

Elio Martinis racconta, poi, che l’esperienza di guerra non fu bella. «In primo luogo c’era la questione del cibo, poi c’erano i pidocchi e la sporcizia. Anche se ci si lavava bene, dormendo nelle tende e sul terreno, è chiaro che si fosse sempre sporchi. Poi c’era il problema di essere sottomessi agli ordini superiori. Io, per esempio, che sono sempre stato ‘sbarazzino’ mi tenevo il colletto della camicia aperto. Mi dicevano: “La prossima volta, condanna!” E mi condannavano, mi davano spesso punizioni, dieci, venti giorni. Questo mi creava un grande disagio, la mancanza di libertà». (9).

Inoltre egli sottolinea come tutti i militari, dovessero sottomettersi agli ordini. E «La guerra cambiava spesso il carattere delle persone, le inclinazioni, anche i piccoli vizi. (…). Ci si sottometteva per disciplina e anche per non recare danno agli altri. Poi però, di nascosto, si discuteva, si ragionava insieme su ciò che stavamo vivendo». E, a suo avviso, nessuno dei suoi compagni amava andare a combattere nelle guerre fasciste, e non c’era una adesione sostanziale alle avventure belliche volute da Mussolini. «Tutti erano contrari. Nessuno stava bene in quella situazione.» (10).

Dopo l’8 settembre 1943. Il ritorno a casa.

«Il 3 o 4 settembre 1943 mi trovavo, come militare a Piedicolle, Podbrdo (11). E, in quei giorni, io ed i miei compagni abbiamo, come da ordini ricevuti, raggiunto Tolmino dove ci aspettavano dei camion, che ci hanno caricato e ci hanno portato nella zona del bivio di Tarcento. Ed allora sentii qualcuno che diceva che colonne di tedeschi si stavano muovendo verso l’Italia per occuparla.
E lì siamo rimasti fino all’ 8 settembre 1943, e questo me lo ricorderò sempre. Ma non avevamo molto da fare, e così ci siamo spidocchiati. (12).

Ci trovavamo quindi, per esser precisi, tra Artegna e Tarcento, nei pressi del cimitero, la sera dell’8 settembre 1943. Ed io sono andato a lavare la gamella alla fontanella del casello ferroviario, e lì ho sentito, alla radio che avevano in casa, che c’era stato l’armistizio. A questo punto sono tornato indietro, e successivamente ci hanno fatto disfare il campo e via… E siamo andati a Qualso. (13).

E per la strada abbiamo incontrato gente e militari che scappavano, che andavano a casa, che avevano saputo forse prima di noi dell’armistizio. E così anche io ed altri 4 o 5 miei amici abbiamo deciso di andare a casa, di fare come loro. Ed il capitano ci ha detto che se non stavamo lì ci avrebbe denunciato al tribunale militare, che prevedeva o di finire al carcere di Peschiera o la fucilazione. Ma ce ne siamo andati ugualmente.

Noi non sapevamo, però, che tra il campo di aviazione di Osoppo, che era un campo così, un po’ alla buona,  e il forte di Osoppo gli italiani avevano già avuto l’ordine di deporre le armi, e siamo passati rasente o forse nel mezzo di questa zona, e i tedeschi ci hanno dato l’altolà, e poi ci hanno sparato raffiche, ed hanno preso me appena di striscio, tanto che la pallottola mi è rimasta nei pantaloni».  (14).
«Durante il ritorno a piedi, ci siamo fermati ad Osoppo presso la casa di un mio compagno di plotone. Abbiamo lasciato lì le divise militari e ci siamo messi in borghese». (15).

«Ed infine siamo arrivati, camminando, fin sul ponte di Avons, e lì abbiamo trovato delle persone che stavano imboccando la strada per Verzegnis che ci hanno detto di non andare a Tolmezzo perché era già stato occupato dai tedeschi, e ci avrebbero catturato, arrestato, e mandato in Germania. Ed infatti sarebbe accaduto così. Allora abbiamo anche noi imboccato la strada di Verzegnis ed abbiamo raggiunto Invillino, e da lì si poteva vedere la stazione ferroviaria di Villa Santina, che era isolata perché, tra Invillino e Villa Santina, non c’era quasi nulla, solo la segheria di De Antoni e quella di Raber e poco altro. Invece ora lo spazio è tutto occupato da costruzioni.

E, passando dietro la stazione, siamo andati sin dove si trova il campo sportivo di Villa Santina con l’intenzione di raggiungere Ampezzo.  E lì sento una voce che mi chiama: era mio padre (16), e con lui c’era Puli, il vecchio, il padre di Gianni (17), che era riuscito a ritornare verso casa da Collalto, e c’era anche Cjandin di Serena (18) che era scappato da Verona, ed era riuscito a raggiungere non si sa come il Friuli. Mio padre era andato a cercarmi a Qualso, e mi ha detto anche che sapeva che, se non fossi ritornato lì, il capitano mi avrebbe denunciato». (19).

«Qui c’erano tedeschi e repubblichini, cioè i fascisti che erano rimasti fedeli ad Hitler. Ed allora molti andarono subito in montagna, alcuni a lavorare con la Todt, ed anche a me dissero: “Perché non vieni a lavorare con la Todt?” Volevano che si andasse a lavorare con la Todt in Friuli, ma ben pochi accettarono subito, e spesso andavano e poi ritornavano, cercavano di tergiversare e poi salivano in montagna. Ma io non mi sono mai piegato, non ci sono andato in Friuli a lavorare per i tedeschi con la Todt. E anch’io mi sono nascosto in montagna e ho passato l’inverno spostandomi sempre da un luogo all’altro, e mi portava da mangiare il povero Ottorino (20), che è morto questa primavera.

E non molto tempo prima di morire mi ha detto: «Ti ricordi, Elio, quando venivo a portarti da mangiare con quella piccola gerla, e tornavo giù con gli stecchi, fingendo di esser stato a raccogliere legna nel bosco)?» E mi spostavo in una zona precisa, sempre su, dal Mulin di Chiç (21) al Bosco Bandito (nome proprio di località) o qui sopra, al belvedere del Nasàt, da dove potevo godere di un ampio panorama».  (22).

L’uccisione, per mano fascista, di Giovanni Battista Candotti.

«E giravano sempre sul territorio sia tedeschi che italiani, su tre o quattro camion, per far notare la loro presenza. E sono andati a Forni di Sotto. Ma al ritorno, lì di Gabrièl, lì dove c’è il chilometro (23), tra Gabrièl e la Milia, hanno visto mio cugino Battista, che era del ’15, e Arturo Felissatti detto ‘La Béla’, che era del 1928 ed aveva 15 o 16 anni. Mio cugino aveva un casco di autista per proteggersi la testa, di quelli di cuoio, e i fascisti hanno pensato fossero dei partigiani. Si sono fermati ed hanno chiesto ai due dove stessero andando. “Andiamo a casa hanno risposto”.  “No, non andate a casa, voi! – Salite qui!” ha detto un repubblichino. Ed a questo punto Tita e Arturo si sono messi a correre verso il paese, ma, quando si sono trovati alla curva, ad un centinaio di metri dal segnale stradale, dal ‘chilometro’, Arturo è salito verso la Milia, e Tita è sceso verso il rio, ed i repubblichini hanno inseguito lui, e gli hanno sparato quando aveva raggiunto la Mala Pala (24) e lo hanno ucciso. (25).

Io, quella sera, visto che Tita non era rientrato, sono andato con Mario Candotti, Barba Toni, Mario di Vigj di Rosa (26) e altri su, a vedere cosa era accaduto. E ad un certo punto ho visto a terra tante cartucce sparate, e io ho pensato: “L’hanno ucciso laggiù”. Ed infatti così era stato. Gli avevano sparato alla schiena. Così ho chiamato Mario.

Quindi abbiamo portato il corpo in municipio. L’indomani sono arrivati su anche tedeschi e repubblichini, ma sono stati buoni e zitti, perché la gente era inferocita. E trovo un tenente, Piccoli, che era con me in guerra, che era parente di quel Piccoli che era della Democrazia Cristiana (27), trentino anche lui. E così mi sono messo a parlare con lui, all’angolo della farmacia. E gli ho detto: “Ma cosa avere fatto? Ma insomma, ma che vi ha preso di andare ad uccidere un povero lavoratore che scende per la strada statale stanco dal lavoro? Non sono cose da fare, quelle!!!” E questa non era solo opinione mia.

E c’era gente intorno, e la gente ci ha sostenuto in questa nostra posizione». (28).

Perché la scelta partigiana.

Quando si sente parlare della resistenza ci sono favorevoli e contrari e chi ha paura di parlare. E molti dicono che ci furono tra i partigiani i ladri e gli onesti, come dappertutto. E se abbiamo fatto errori, abbiamo fatto anche molte azioni importanti, ed abbiamo rischiato la pelle fino all’ultimo giorno. (29).

«Il 14 settembre 1943, appena giunto a casa come sbandato, trovai diversi miei compagni che arrivano alla spicciolata, chi da una regione chi da un’altra, evitando così i tanti pericoli, ed il più grave: l’internamento.

E l’animo si inaspriva contro l’infamia selvaggia del Nazifascismo […] che ci chiamava a servire una fede contraria alla libertà degli uomini. E venne finalmente il giorno in cui salimmo su quelle montagne ove la nostra vera Patria ci faceva uniti d’un’ideale sano. Cominciai così la vita del volontario […]. Dissi addio alla mia casa, alle mie abitudini e mi preparai a staccarmi di colpo dalla vita, a, “ben morire”, […] e venni chiamato dagli increduli il “Bandito”.

Fui bandito sì per coloro che volevano far venir meno la fermezza di lotta contro la tirannide che ci invadeva, fui […] partigiano del popolo per tutti quelli che si sentivano realmente uomini per salvare l’onore della nostra Patria […].

Intanto giorni passavano tra incredibili sciagure, ed eravamo guidati da un istinto di Libertà o Morte, pur di arrivare alla meta tanto agognata che tutti aspettavamo. Finalmente arrivò quel giorno, giorno però anche di lacrime e di lutti, e, non vedendo più l’eroismo dei Morti, vidi solamente l’inconsolabile lutto dei vivi, delle madri e delle spose superstiti, e vidi nei monti e nelle valli, già un dì conquistati, perduti, riconquistati  a prezzo di sacrifici, i caduti della Libertà e nei campi della morte, perduti, anonimi e mal sepolti senza un segno che desse il loro nome, senza una croce, un fiore, una pietra che ricordasse l’eroico olocausto.

E vidi nei paesi, nelle case in lutto, le madri e le spose che piangevano, private del loro sostegno, macerarsi nel dolore, senza poter neppure legare il ricordo dei loro morti ad una sepoltura.
Oggi dopo diciannove mesi, ormai passati, vedo molti di questi dolori e ricordi che svaniscono, ed il popolo, duramente provato, essere tentato dall’ ipocrisia e dalla disaffezione morale. […]. ». (30).

Attività partigiana.

«All’azione Di La Maina di Sauris partecipò tutto il nostro gruppo, composto da una quindicina di partigiani, tra cui Marco, Ciro Nigris, Planura, Silvio Bullian Giove, Elio Domenico Nimis, Falco Vincenzo Deotto e due soldati inglesi, già prigionieri e scappati dal cantiere della Sade di Sauris.

Poi ci fu il rastrellamento tedesco di Lateis al nostro gruppo composto da una quindicina di uomini guidati da Elio e da Marco, Ciro Nigris. Dopo esserci ritirati verso il Novarcia, proseguimmo verso Mont di Riù. Inseguiti, arrivammo al passo del Colador: c’erano tre metri di neve. Andavamo avanti nuotando nella neve, uno alla volta per dieci, quindici metri ciascuno… Quindi, a rotoloni, raggiungemmo malga Chiarzò. Stanchi, senza cibo, bagnati fino alle ossa, ci spogliammo nudi. Fisicamente eravamo allo stremo… decidemmo di restare lì, a vendere cara la pelle. ma gli inseguitori non arrivarono… Poi da Pani, mandammo ad Ampezzo un uomo affinché ci portassero dal paese qualcosa da mangiare». (31).

«Se la metà di luglio mi vide caposquadra del Btg. Carnico, con 5-8 fedelissimi, poi, con l’ampliarsi del movimento di resistenza, assunsi il comando di una compagnia, per finire quale vice comandante della divisione Garibaldi – Carnia […]. (…).

Nel maggio ’44 si attuò l’idea strategica del Comando Gruppo Divisioni Garibaldi d’interrompere la strada e la ferrovia pontebbana, per tagliare l’afflusso tedesco in Italia. Non c’era però un accordo con altre formazioni straniere, cioè gli jugoslavi: personalmente sono sempre stato contro la loro mentalità, li avevo conosciuti nei Balcani… In quell’occasione fui ferito in Val Aupa. Caricato su di un mulo dovetti rientrare all’ospedale partigiano di Mione. Successivamente con una Compagnia del Carnico di distaccamento a Naunina, operammo puntate fino a Caneva. Ci fu il blocco di Tolmezzo con gli attacchi al ponte di Casanova e al fortino sulla via di Paluzza. Con la compagnia, poi Btg. Nassivera, prendemmo posizione a Terzo di Zuglio. Stabilimmo il comando nella segheria». (32).

Ed «arrivò la fine della Zona Libera… L’8 ottobre pioveva che dio la mandava: alle 6-7 del mattino, i cosacchi tentarono di forzare il blocco di Casanova, a cavallo. Li ricacciammo. Ritentarono verso le 8, appoggiati da due panzer tedeschi. Un carro rimase impantanato nel But, poi forze cosacche e fascisti sfondarono. Devo dire che proprio le formazioni fasciste si dimostravano le più pericolose: mentre qualche ufficiale tedesco “mostrava giudizio” non rischiando, i fascisti creavano bande assai imprevedibili… Incalzati dal nemico con mortai e cannoni, fatti ritirare i miei uomini verso Zuglio, rimasi solo a contatto con gli avanzanti bloccandoli con raffiche ad ogni occasione di riparo.

Raggiunto il RGT al Ponte di Zuglio salimmo, nella tarda sera – in circa una quarantina del centinaio presente al Ponte -verso la Pieve di San Pietro, sempre con l’avversario alle calcagna. Mi seguì metà del BTG. alcuni si rifugiarono nella zona di Dolacis tra i monti di Zuglio e Raveo e diversi tornarono a casa.

Prendemmo la via di Fielis. I cosacchi salirono il monte. Cercai di tener inquadrata la mia trentina di uomini. Valicato l’Arvenis arrivammo alla Patussera dove si trovava il Comando Divisione. Ci rimandarono sullo Zoncolan con camion della ditta Cimenti. Di là, a piedi, verso Monte Tamai. Vedemmo i cosacchi occupare la Val Calda. Tornati indietro alla Patussera, fummo spediti, a gruppi, a svernare in alta montagna.

Andammo a Mione. Nell’ospedale partigiano erano ricoverati dieci altoatesini, tra i quali il tenente comandante del presidio, presi nell’attacco a Sappada. Passò un reparto osovano: volevano far fuori gli altoatesini. Glielo proibii, anche con l’aiuto del cappellano don Lodovico Sandri, minacciandoli di morte. Trovammo poi “Gracco” che stava celebrando un processo sommario a due coniugi del luogo accusati di spionaggio: esigeva la loro fucilazione. Ciò avrebbe significato, vista l’avanzata cosacca, la morte sicura degli abitanti maschi e la deportazione. Impedii la fucilazione. Trovai rifugio in uno stavolo sotto Malga Avedrugno, con 10-12 uomini. Tra un rastrellamento e l’altro, spostandoci di località, nella neve alta – l’inverno ’44-45 fu uno dei peggiori del secolo – sfuggimmo alla caccia cosacca. Per non morire di fame e di freddo, o farci catturare, nell’interno d’uno stavolo di Mione costruimmo una falsa parete di steli di granoturco. Sfidando la fucilazione in caso di scoperta, Giacomina Pol “da Feranda” ci ospitò e pensò, nonostante la miseria, a farci pervenire anche del pane. Il mangiare ci veniva passato da sotto la greppia. In cambio cedevamo il bugliolo di legno…» (33).

Ovaro.

«Maggio 1945. Eravamo di stanza a Mione. Il primo maggio, verso le 9,30 il CLN Val di Gorto mi mandò a chiamare, dato l’impasse nelle trattative intavolate ad Ovaro con i cosacchi. Per la piazza e le vie del paese cosacchi e osovani convivevano pacificamente mentre a casa Martinis CLN e il magg. Nasikow stavano discutendo. I cosacchi avevano posto una pregiudiziale: non volevano aver nulla a che fare con i garibaldini.

Non volevo intervenire operativamente. I cosacchi erano troppi, ben armati, ad un passo dall’Austria, con in più la sicurezza dell’arrivo di rinforzi. La coda della loro colonna in ritirata era ancora in movimento nella conca di Tolmezzo. Militarmente un attacco avrebbe comportato gravi rischi per gli attaccanti e rappresaglie sicure sui paesani. La cosa ad un occhio militare era lampante. (…). Ma venne a chiamarmi prima Dino, un uomo di Entrampo, poi uno di Chialina, infine Giobatta Martinis, macellaio di Ovaro. Disse: “Il CLN ti ordina di scendere ad Ovaro!” (34).

Come militare dovetti infine obbedire, pena il processo per disobbedienza. Prudentemente, però, mi recai nella chiesa di Cella dove potevo osservare la situazione. (…). Arrivò però un’altra staffetta del CLN invitandomi, per la quarta volta, a scendere. Ubbidii. (…).

L’Osoppo era certa d’ottenere la resa dei cosacchi… Nulla sapevo delle trattative in Tolmezzo con l’ataman per una libera ritirata dei cosacchi fino a Monte Croce.

Arrivai in piazza ad Ovaro verso le 16,30 con 12-13 garibaldini e una decina di georgiani. I cosacchi guardavano con odio il nostro fazzoletto rosso. Lo levammo per non alzare la tensione. La piazza brulicava di cosacchi, di fazzoletti verdi e di “nuovi partigiani”. Erano stati fatti giungere da tutte le località prossime per far pesare il numero sul tavolo delle trattative. Non avevano inquadramento ed esperienza di guerra.

Mentre i miei uomini si fermarono di fronte Casa Martinis, fui invitato nella la sala dove il CLN stava trattando con Nausiko, perché si pensava che la mia presenza avesse un peso per la resa. Onde non offrire pretesti, entrando tolsi perfino le insegne di grado…

Ad un certo punto Nausiko abbandonò la seduta rifiutando la resa. Il CLN invitò me e “Paolo” Giancarlo Chiussi, a compiere un estremo tentativo per far ricredere il maggiore cosacco… Nausiko entrò nel suo comando all’Albergo Martinis. Noi arrivammo fin sotto. Da una finestra, Nausiko, con un gesto della mano ci interrogò su cosa volessimo. Nel frattempo, nel centro della piazza del municipio fu portata, legata su di una sedia, dagli osovani, la moglie del Nausiko. Avrebbe dovuto servire ad “ammorbidirlo”; Nausiko, invece, rientrando dal riquadro dalla finestra, ci lanciò una bomba a mano. Fui ferito leggermente ad una guancia.

I cosacchi spararono anche dalla scuola adiacente al Municipio. Ritiratomi, scomparsi Chiussi e Foi, ci rifugiammo per la notte nella cartiera. Nevicava». (35).

Sappiamo che poi Alessandro Foi, comandante della Divisione osovana Pal Piccolo Carnia, ordinò a Otto, Rinaldo Fabbro comandante del btg. divisionale osovano Canin, nel corso della notte, di far saltare la caserma cosacca di Chialina. L’indomani infuriava la battaglia, a cui partecipò anche Elio Martinis, con i suoi.

Il sogno per cui si combatteva …parzialmente tradito.

Nel dopoguerra «Speravo si andasse verso una società socialista, che avesse la capacità di fare del bene all’umanità, e prima di tutto ai poveri, agli anziani, agli ammalati. (…). Purtroppo questo, secondo me, non si è realizzato almeno non completamente. Oggi tutti i partiti sono ipocriti perché fanno politica e la politica è ipocrisia. Tutti i nostri rappresentanti, una volta votati, seguono i propri interessi, non mantengono le promesse fatte alla gente. (…). Molta gente soffre tuttora, basta aprire gli occhi. È inutile che i politici ci raccontino di voler fare del bene quando poi tutto rimane tale e quale». (36).

Laura Matelda Puppini

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Note.

(1) Elio Martinis è stato un famoso artista, uno scultore con il legno, la pietra, il bronzo, il ferro ed utilizzando vari materiali in assemblage. (https://www.eliomartinis.it/scultura/). Le sue opere sono molto apprezzate. Inoltre fu un esperto ricercatore di fossili, ed ha lasciato un’importante collezione.

(2) Il padre di Elio Martinis, Giovanni Battista, faceva il muratore, era nato nel 1879, e si era sposato due volte. Dalla prime nozze aveva avuto due maschi ed una femmina, dal secondo Elio ed Elvia (1924-1999), che, secondo Nilla Martinis, figlia di Elio, fu a tutti gli effetti una staffetta partigiana.

(3) Voltois è una frazione del comune di Ampezzo.

(4) Intervista Elio Martinis, ‘Furore’, “Amavo combattere in prima linea, davanti a tutti”, Ampezzo, 15 gennaio 2004, in: Voci della memoria. Redento Bello, Romano Marchetti, Elio Martinis, Ciro Nigris. Testimonianze della lotta partigiana in Friuli, a cura del Liceo Classico “San Bernardino da Siena”, Tolmezzo, Liceo Classico “San Bernardino da Siena”, 2004, pp. 67- 68.

(5) Ivi, pp. 69-70. Pare interessante capire che, nell’ottica delle guerre di conquista fasciste, parte dei militari furono mandati ad invadere, al fianco dei nazisti la Russia, parte ad invadere ed occupare il Regno di re Pietro in Jugoslavia. Quindi questi furono pure spediti in Francia, per lo stesso motivo. Anche Bruno Cacitti ebbe un’esperienza militare simile: partecipò con la 11ª batteria del Gruppo Artiglieria Alpina “Belluno” del 5° Rgt. “Pusteria” alle operazioni della campagna italo-abissina, quindi, con la Divisione Julia, all’occupazione dell’Albania nel 1939, successivamente alla campagna italo-greca, quindi alle operazioni in Montenegro ed, infine, all’occupazione armistiziale in Francia. (http://www.nonsolocarnia.info/uomini-che-scrissero-la-storia-della-democrazia-bruno-cacitti-lena-osovano-perche-resti-memoria/).

(6) Intervista Elio Martinis, ‘Furore’, “Amavo combattere, op. cit., pp. 73-74.

(7) Questo capitano, ammesso sia sempre lo stesso, che poi si sa chiamarsi Scabia, minacciò e chiarì solamente quanto avrebbe dovuto immediatamente eseguire, ma non arrestò Elio Martinis né lo mise al muro, come avrebbe dovuto fare.

(8) Intervista Elio Martinis, ‘Furore’, “Amavo combattere, op. cit., p. 74.

(9) Ivi, p. 70.

(10) Ivi, p. 73.

(11). Questo particolare si evince dall’ intervista a Elio Martinis pubblicata con titolo: “Volevo essere libero …” su: https://www.carnialibera1944.it/partigiani/furore.htm.

(12) L’armistizio di Cassibile fu firmato il 3 settembre 1943, e reso noto l’8 settembre.

(13) Presumibilmente Qualso di Reana del Roiale.

(14) Da: Intervista di Marco Martinis a Elio Martinis, 1994.

(15) Intervista Elio Martinis, ‘Furore’, “Amavo combattere, op. cit., p. 76.

(16). Giovanni Battista Martinis, padre di Elio, nato nel 1879, era stato muratore ed emigrante.

(17) Puli, secondo Nilla Martinis, figlia di Elio, era Pasquale Zatti, che divenne, poi, il primo sindaco di Ampezzo dopo la liberazione. Puli è il soprannome di questa famiglia Zatti: chéi di Puli.

(18) Nilla Martinis mi dice che Cjandin di Serena era Candido Candotti, di Ampezzo, classe 1924,

(19) Da: Intervista di Marco Martinis a Elio Martinis, 1994. Anche in: Intervista Elio Martinis, ‘Furore’, “Amavo combattere, op. cit., a p. 74- 76  si legge sull’ 8 settembre 1943 ed il ritorno a casa, e viene riportato pure che il vecchio Giovanni Battista padre di Elio, era andato a Reana del Roiale per cercare di portare abiti borghesi al figlio e che allora il capitano Scabia gli aveva detto che se Elio non tornava indietro sarebbe stato fucilato.

(20) Trattasi di Ottorino Sburlino nato, presumibilmente, nel 1928.

(21) Località, anche presente in: https://www.archeocartafvg.it/portfolio-articoli/ampezzo-ud-il-cjastelat/, dove c’era un vecchio mulino che sfruttava le acque del Teria.  Su questa fonte si trova un itineraio che tocca i luoghi citati da Elio Martinis: «Dalla località “Pociòn” si può seguire il sentiero che continua diritto ed è tabellato verso “Mulin di Chiç”: si attraversa il torrente Teria e si continua per il sentiero ben battuto. Subito si incontrano i ruderi del “Mulin di Chiç”. Il percorso accompagnato sulla sinistra dal torrente Teria, è di facile percorrenza, non presenta grandi dislivelli e durante la stagione estiva è possibile ammirare i ciclamini di montagna […]. Dopo aver camminato per circa 30 minuti, si giunge in una valletta da cui si può scorgere l’edificio che dà il nome alla località “La Milia”. Proseguendo per il sentiero si attraversa un ponticello di legno e si giunge alla località denominata “Cjastelat”. Proseguendo a destra si arriva alla strada statale che riconduce ad Ampezzo. (Ivi).

(22) Con il nome Nasat viene indicata una località sopra l’abitato di Ampezzo, con alberi e sterpaglia, da cui si può ammirare il paese e le zone limitrofe, fino alle dolomiti friulane ad ovest, e la Val Tagliamento fino alla vetta dell’Amariana ad est. (Fonti: Nilla Martinis e https://www.ampezzocarnico.it/2020/04/06/cima-corso-jof/).

(23) Dove c’era un paracarro che indicava i chilometri di distanza da Ampezzo preso come punto zero, detto anche, secondo l’uso latino, pietra o paracarro miliare.

(24) Area che che costeggia il rio Avinâl, sotto Pignea, che si getta nel Teria, che a sua volta è affluente del Lumiei.

(25) L’uccisione di Giovanni Battista Candotti è uno dei fatti a cui viene ricondotto l’inizio della Resistenza Carnica, per lo meno ampezzana, ed è narrato anche da Mario Candotti nel suo: “Ricordi di un uomo in divisa naia guerra resistenza”, ed. I.F.S.M.L. ed A.N.A., Pn., 1986, alle pp. 147-149. E Mario Candotti scrive che il corpo del giovane fu composto nell’atrio del Municipio, trasformato in camera ardente. La giornata seguente vi era l’appuntamento per la visita di leva della classe 1924, ma nessun coscritto si presentò. La commissione, inoltre, fu costretta a fermarsi davanti al cadavere, e Vittorio Martinis prese la parola lanciandosi contro coloro che avevano ucciso un onesto cittadino. Quindi il giorno seguente, il 17 marzo ebbe luogo il funerale di Tita Candotti. (Ivi, p. 148). Vi è poi una versione che dice che Arturo si nascose, ma di fatto la storia è sempre la stessa. I repubblichini inseguirono Tita e lo uccisero. Fin dal 29 aprile 1944 veniva, però, spiccato mandato di cattura, per l’omicidio del Candotti, per arbitraria perquisizione domiciliare nei comuni di Forni di Sotto e Forni di Sopra, per estorsione con minaccia di un apparecchio radio ai danni dell’albergatore Antonio Zigotti contro il tenente Angelo Antonio Franzolini. Franzolini riusciva a sfuggire alla cattura e, dopo l’emissione di un nuovo mandato di cattura, il 15 febbraio 1946, venne reperito a Torino, ove era già in carcere per altri reati. condannato con sentenza 11 dicembre 1947, il 31 marzo 1949 fu scarcerato per “liberazione condizionale”.

(26) Mario Candotti, ufficiale dell’Esercito Italiano, pluridecorato, reduce di Grecia e di Russia, quindi diventato il Comandante partigiano della Divisione Garibaldi Carnia con nome di copertura Barbatoni. All’epoca, però non era ancora salito sui monti, e operava con la Landwache, pur essendo già stato segnalato da repubblichini come antifascista. Condotti narra che andò a cercare Tita con la squadra di turno della Landwache, munita di lampade ad acetilene, in località Pignea.

(27) Elio Martinis dice che era parente del noto politico Flaminio Piccoli. (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Flaminio_Piccoli).

(28) Da: Intervista di Marco Martinis a Elio Martinis, 1994.

(29) Ibid.

(30) Scritto a macchina da Elio Martinis. Provenienza Nilla Martinis.

(31) Da: “Volevo essere libero”, intervista di Lao Monutti ad Elio Martinis Furore (Vice comandante della Divisione Garibaldi – Carnia), in Uomini fatti e misfatti del Nord-Est, 1995, Editrice Magma, pp. 111-116, versione originale trascritta dal libro da Nilla Martinis, 2020, qui con qualche piccolo aggiustamento solo per rendere più leggibile il testo.

(32) Ibid.

(33). Ibid.

(34). Il Cln Alta Italia aveva dato ordine che la resa nemica, ove ci fosse stata, doveva avvenire sia in mano osovana che garibaldina, e correttamente il Cln Val di Gorto mandò a chiamare il gruppo guidato da Elio Martinis, il più vicino al paese. E correttamente Martinis si presentò perché le forze partigiane, ella fase finale, dovevano essere a disposizione del Cln. Ma l’Osoppo voleva fare di testa propria.

(35). Da: “Volevo essere libero”, op. cit.

(36) Ivi, p. 84.

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Questo testo non avrebbe potutto essere scritto senza la preziosa collaborazione di Nilla Martinis, figlia di Elio, che sentitamente ringrazio anche per i materiali inviatimi e i preziosi suggerimenti. L’immagine di Elio Martinis è tratta da: https://www.eliomartinis.it/. Laura Matelda Puppini

 

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